Michele Salvati, Corriere della Sera - La Lettura 16/11/2014, 16 novembre 2014
LA DEMOCRAZIA È IN CRISI NIENTE DI NUOVO
I libri e gli articoli dedicati all’attuale crisi della democrazia riempirebbero molti scaffali di biblioteca: forse più una conseguenza del gran numero di insegnamenti in materie politiche — e dunque di studiosi interessati a pubblicare — che non di una crisi democratica più forte di altre che abbiamo attraversato in passato. Sia chiaro, credo anch’io che la democrazia stia attraversando una crisi seria. Credo anche, però, che sia difficile comprenderne la natura e proporre rimedi se non si è consapevoli che questa forma di governo è da sempre, e per sua natura, soggetta a crisi. Lo è stata nella democrazia diretta degli antichi, lo è in quella rappresentativa dei moderni. In quest’ultima, lo è stata sia nella democrazia parlamentare dei notabili, a suffragio ristretto, nel corso dell’Ottocento; sia nella democrazia a suffragio universale dei grandi partiti ideologici di massa, nel corso del Novecento. E lo è tuttora, nella democrazia mediatica e leaderistica in cui viviamo.
Le due ragioni di fondo della crisi sono note dai tempi antichi e riguardano sia la partecipazione al processo democratico — l’ input della democrazia, per così dire — sia i risultati, la qualità dei governi, l’ output . La democrazia è sempre sull’orlo della crisi poiché il suo ideale di eguaglianza — di eguale influenza politica di ogni cittadino nel governo della comunità politica cui appartiene — è sempre stato smentito dalla realtà, e non si vede come possa essere pienamente soddisfatto in società caratterizzate, anche le più egualitarie, da forti differenze di ricchezza, prestigio e potere. Differenze che inevitabilmente si convertono in differenze di influenza politica. E poiché l’ideale di buon governo — questo è l’obiettivo che qualsiasi regime politico dovrebbe proporsi di raggiungere — di fatto ben di rado è stato anche solo approssimato.
Fino alla metà del XVIII secolo, i principali pensatori politici erano addirittura convinti che non fosse raggiungibile, per le spinte demagogiche e irresponsabili che la democrazia sollecita, e a essa erano preferite forme temperate di monarchia o oligarchia. Ma il processo democratico si rivelò inarrestabile e, dopo le rivoluzioni americana e francese, nel corso della democrazia parlamentare dell’Ottocento i ceti più ricchi e influenti si avvidero che le conseguenze più estreme che la democrazia consentiva — l’esproprio dei pochi da parte dei molti — potevano essere evitate. Prima con la restrizione del suffragio; poi mediante strumenti meno grezzi e contraddittori con l’ideale democratico. E così la democrazia si avviò a diventare il regime politico più diffuso a livello mondiale, «il peggiore sistema di governo... ad eccezione di tutti gli altri», nella famosa battuta di Winston Churchill. Un sistema di governo la cui qualità può essere mantenuta a un livello accettabile solo attraverso un continuo, faticoso processo di manutenzione riformistica.
Sono partito dall’Abc della crisi democratica — dalle due ragioni di fondo per cui la democrazia non è mai riuscita e non riuscirà mai a mantenere in modo completo le sue promesse di eguaglianza e di buon governo — poiché la discussione in corso può dare l’impressione che la democrazia sia in crisi soprattutto oggi. Che oggi sia una «causa persa», poiché la democrazia è «sfigurata». Che, a differenza di un recente passato, il regime in cui viviamo neppure sia degno del suo nome e debba essere chiamato in modo diverso, «post-democrazia» o altro (sto parafrasando titoli di buoni libri usciti da poco). Una vena di nostalgia percorre molti di questi scritti: è convinzione diffusa che in un passato prossimo la democrazia stesse in condizioni migliori di oggi e che il vecchio partito ideologico di massa — quello che allora era prevalente, in Italia Dc e Pci, per intenderci — fosse uno strumento di democrazia assai migliore del partito mediatico e leaderistico che ad esso è succeduto, soggetto a continui impulsi populistici o plebiscitari.
Anch’io credo che i regimi democratici — e mi riferisco solo a quelli dei Paesi economicamente avanzati — stiano affrontando una stagione difficile a partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso. Ma non più difficile di altre che essi hanno affrontato in un passato più lontano. Una stagione dovuta a mutamenti strutturali profondi, per far fronte ai quali la rievocazione di un più felice (?) passato recente non fornisce efficaci indicazioni per un’azione di rimedio. I due più importanti mutamenti strutturali riguardano, il primo, la situazione internazionale nella quale una singola democrazia nazionale è immersa; il secondo riguarda le trasformazioni (sociali, economiche, tecnologiche) che tutte le democrazie nazionali hanno attraversato negli ultimi decenni e influiscono profondamente sulle modalità di rappresentanza e, in particolare, sui partiti.
Una democrazia rappresentativa può operare solo all’interno di uno Stato sovrano: i suoi cittadini, mediante il voto, scelgono i governi, le cui azioni verranno giudicate dagli stessi cittadini in successive elezioni. Ma il benessere dei cittadini non dipende solo, e neppure principalmente, dall’azione dei governi o dalla qualità delle istituzioni dello Stato. Dipende sempre di più dalle relazioni economiche e politiche che lo Stato intrattiene con l’insieme di Paesi che formano la comunità internazionale: una comunità certamente non democratica, attraversata da rapporti di egemonia e dipendenza e da regole sempre più fitte che li disciplinano.
Per un lungo periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, i «trent’anni gloriosi» fino agli anni Settanta, questi rapporti, e le regole conseguenti, produssero risultati di benessere straordinari per i principali Paesi europei: non si va lontani dal vero se si pensa che la nostalgia per i sistemi politici nazionali di quei tempi (e dunque anche per i grandi e stabili partiti di massa allora prevalenti) fosse più dovuta alle condizioni di benessere consentite dalla grande crescita economica che alla loro qualità democratica, sicuramente non eccelsa, ed anzi pessima nel caso italiano.
Dopo le turbolenze degli anni Settanta del secolo scorso si è però entrati in tutt’altra fase internazionale, una fase di minore sviluppo e di crescenti ristrettezze economiche, alle quali, sul piano nazionale, si cerca di reagire mediante impopolari riforme volte a migliorare la competitività dell’economia e l’efficienza delle istituzioni pubbliche. Di nuovo, non si va lontani dal vero se si ritiene che una parte del discredito per la nostra democrazia sia oggi dovuta a queste difficili condizioni esterne, più che un drastico peggioramento della sua qualità. Ad aggravare la situazione — comune a tutti i Paesi che si devono adattare alla globalizzazione, al regime neoliberale imposto dagli Stati Uniti e dal capitalismo internazionale — si è aggiunta per alcuni Paesi europei, tra cui il nostro, la decisione di aderire all’Unione monetaria europea, una decisione che si è rivelata infausta per i Paesi più deboli e foriera di un problema serio di democrazia.
Mentre i Paesi al di fuori dell’euro affrontano la globalizzazione armati di tutti i poteri che la sovranità consente loro di usare, i Paesi deboli dell’euro hanno le mani legate e la loro azione è sottoposta a penetranti vincoli e controlli da parte di Bruxelles. Si obietterà: ma questo avviene per tutte le unità regionali di uno Stato più grande, ad esempio per i singoli Stati americani nei confronti di Washington. L’obiezione non regge e la lesione del principio di sovranità democratica rimane: in America i cittadini degli Stati sono anche cittadini della federazione e votano per il suo governo, in tal modo controllando democraticamente i controllori dei loro Stati. Insomma, è loro sottratto potere democratico a livello statale e gli è restituito a livello federale. Non è questo che accade nell’Unione Europea, dove le elezioni del Parlamento europeo non danno il potere di controllare democraticamente il governo dell’Unione.
Il secondo grande mutamento strutturale è avvenuto lentamente, producendo risultati ormai irreversibili: è il mutamento che ha condotto dai grandi partiti ideologici di massa ancora dominanti sino a metà del secondo dopoguerra al partito attrezzato a operare nella «democrazia del pubblico», come la chiama Bernard Manin. Il partito che i più vecchi tra noi hanno conosciuto, il partito ideologico di massa, guidato da un’oligarchia formalmente legittimata da un processo di democrazia associativa (in realtà assai poco democratica, come aveva già notato Roberto Michels più di un secolo fa), non è e non può più essere il contesto nel quale si formano le opinioni della grande massa delle persone e si definiscono le intenzioni di voto di gran parte degli elettori.
Si oppongono a questa persistenza trasformazioni sociali, economiche, culturali e tecnologiche difficilmente resistibili: l’indebolimento dei legami e delle distinzioni territoriali, religiose, culturali che, a partire dall’Ottocento, avevano dato origine ai partiti; un profondo mutamento nella struttura di classe e la scarsa credibilità delle narrazioni ideologiche che su di essa facevano perno; un forte aumento nei livelli di istruzione (non necessariamente accompagnato da un miglioramento nella qualità della stessa); una crescente individualizzazione e frammentazione della società, sia sotto il profilo degli interessi che degli orientamenti valoriali; il travolgente sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa: prima la radio, poi, e tuttora dominante, la televisione, ora anche internet e social media.
Tutte cause che inducono, anche nei partiti più tradizionali, il passaggio dall’oligarchia prodotta dalla democrazia associativa a una forte personalizzazione della leadership: gli elettori stanno a casa, sono diventati un «pubblico» atomizzato di fronte al quale i leader dei partiti (se ancora ci sono: più in generale, gli imprenditori politici) sciorinano in televisione la loro mercanzia sperando di carpirne il voto, di indurli a comprarla. Che questo produca rischi di plebiscitarismo e populismo è fuori dubbio. Ma è altrettanto certo che non si può tornare alle oligarchie (assai poco democratiche, lo ripeto) delle vecchie «ditte», dei partiti ideologici di massa.
Queste sono le due principali sfide che la democrazia odierna deve affrontare, una sfida esterna e una interna. La prima non è affrontabile con gli strumenti della democrazia, perché i rapporti internazionali non sono democratici. Qui, oggi, è giocoforza affidarsi alla saggezza e alla qualità dei ceti dirigenti dei diversi Stati, alla loro capacità di azione comune, perché le costrizioni che la globalizzazione e l’Unione Europea impongono alla possibilità dei governi di soddisfare le domande dei cittadini, anche le più ragionevoli, minacciano seriamente la qualità della democrazia in molti Paesi. La sfida interna è invece affrontabile con gli strumenti della democrazia e del costituzionalismo, purché i mutamenti sociali ed economici che hanno condotto alla democrazia del pubblico vengano riconosciuti nella loro forza, non si pretenda di spingere indietro l’orologio della storia e non si cominci a paventare plebiscitarismo e cesarismo ogni volta che appare sulla scena un leader dotato di capacità di iniziativa e decisione. Gli strumenti costituzionali per sventare derive cesaristiche esistono e possono essere rafforzati: ma, dai tempi di Max Weber, sappiamo che ciò di cui la democrazia maggiormente soffre è la mancanza di leadership i ndividuale, di decisione e di iniziativa, non di un suo eccesso.