Giuseppe De Rita, Corriere della Sera 16/11/2014, 16 novembre 2014
NON DEMONIZZARE I CORPI INTERMEDI
Va molto di moda in questo periodo parlare e scriver male del mondo della rappresentanza (sindacale, imprenditoriale, territoriale, politica) come se esso fosse il buco nero in cui sprofonda ogni meritevole istanza di responsabilità collettiva e decisionalità pubblica. Ed è comprensibile che siano proprio i soggetti della rappresentanza a somatizzare la propria cattiva immagine.
I sindacati dei lavoratori cambiano le leadership di vertice e al tempo stesso sono tentati di attivare spallate conflittuali; i partiti vagano nella nebbia, relegandosi all’accettazione di decisioni verticistiche; le classi dirigenti locali, sia provinciali sia comunali, si dichiarano disperate, costrette come sono a difendere risorse necessarie per i servizi comunitari; le rappresentanze delle professioni medio-alte (dirigenza pubblica, magistrati, albi professionali, ecc.) vivono alternando lamento e rabbia per la marginalizzazione ad esse imposte; Rete Imprese Italia si arrocca sul suo brand e sulla ricchezza vitale delle piccole e medie imprese (forse con la silenziosa sicurezza che comunque, ripresa o no, «di qui dovranno ripassare»); e stranamente solo Confindustria vive con compiacimento il suo inabituale collateralismo alle politiche governative.
Un crinale di disfatta, si potrebbe dire, rispetto a una autorità di governo e a una comunicazione di massa che hanno rilanciato con forza il primato della politica e dello Stato (e dello Stato centrale) su tutti i livelli e tutti i soggetti intermedi. Il vento è cambiato rispetto ai decenni precedenti, quando tutti scommettevano sulla maggiore vitalità della cosiddetta società civile rispetto alla dinamica dei partiti.
Questo ritorno, quasi la rivincita, del primato della politica è per molti liberatorio e inebriante: liberatorio, perché riduce i vincoli dei tanti particolarismi presenti nella realtà; inebriante, perché rievoca e promette un’altra fase di quel perseguimento del nuovo che è tentazione costante delle temporanee élite della nostra società (dai sessantottini alle prime schiere berlusconiane). Forse sarebbe però prudente non entusiasmarsi troppo, tenendo conto che i periodi di nuovo inizio si trovano sempre e comunque a doversi ri-radicare nella realtà degli interessi, dei bisogni, delle aspettative della gente; andando necessariamente oltre quella trasversale empatia consensuale che sfrutta l’attesa collettiva di eventi innovativi. E tutti, in un tempo non lontano, dovranno applicarsi a ricostituire le cinghie di trasmissione fra le domande collettive e la volontà politica, cioè, con parole antiche, i meccanismi della rappresentanza.
C’è in proposito una moderna tendenza a pensare che ciò sia possibile non per la strada dei citati vecchi meccanismi, ma facendo ricorso ad accattivanti e impressivi testimonial , protagonisti di successo del mondo delle imprese. Ma se alcuni di essi sono di buona qualità ed immagine, la maggior parte di loro ha congenite contraddizioni con il ruolo (di tacita rappresentanza) che viene loro ritagliato: la cosa può andar bene con un buon imprenditore magari con istinti di leadership ; meno bene vanno i tentativi di radunare spicciafaccende e lobbisti; e va ancora meno bene quando si scade a gruppi di indistinti e improbabili personaggi a grande circolazione mediatica (qualcuno ricorda la cerchia di «nani e ballerine» che slabbrò l’ appeal politico di Craxi).
Non è allora del tutto imprevedibile che, superata l’attuale cattiva forma della rappresentanza, si arrivi a riconoscere la funzione e i meriti del sindacalista di reparto o del dirigente delle rappresentanze datoriali che si spendono per la fidelizzazione degli iscritti, del quadro di partito che si sbatte sul territorio, e così via; lavori noiosi, per carità, ma le giunture che tengono insieme il mondo delle imprese e del lavoro hanno bisogno anche di chi stia ogni giorno «sul pezzo».