Cristina Taglietti, Corriere della Sera 16/11/2014, 16 novembre 2014
CONTINUIAMO A SCRIVERE A MANO NON PER NOSTALGIA DEL PASSATO MA PERCHÉ È IMPORTANTE NEI PROCESSI DI APPRENDIMENTO
Soltanto dieci anni fa scrivere con una tastiera era uno sforzo che richiedeva un corso di dattilografia. Oggi alzi la mano chi ha prodotto, recentemente, un testo medio-lungo usando la penna, la matita, la stilografica. In corsivo, per di più. Per carità, esistono ancora autori che sostengono di scrivere i loro libri rigorosamente a mano. Donna Tartt lo ha fatto con il suo ultimo romanzo, Il cardellino , quasi novecento pagine. Certo, a scuola si impara il corsivo, ma ormai i bambini di sette anni sono più veloci dei loro genitori (certo dei loro nonni) a digitare su tablet e telefonini. Negli Stati Uniti, dove ogni cambiamento del costume porta con sé una regola nuova, hanno tratto una conseguenza: lo stampatello basta e avanza, la scrittura che lega tra loro le lettere di una parola non fa più parte degli insegnamenti obbligatori del «Common Core Curriculum Standard», la base dell’insegnamento in tutti gli Stati. La Francia ha fatto il contrario (lo ricordava ieri Le Monde): dall’inizio degli anni Duemila il ministero dell’Istruzione ha invitato i docenti a insegnare il corsivo dall’ultimo anno della scuola materna.
Difendere la scrittura corsiva non è soltanto una questione di nostalgia o di passatismo. Molti neuropsicologici, infatti, sottolineano l’importanza dell’apprendimento del corsivo nello sviluppo psicologico e cognitivo dei bambini, nell’acquisizione di competenze di analisi e di sintesi, nell’espressione della propria personalità, mettendo in guardia anche sul fatto che a bbandonare la scrittura manoscritta potrebbe rallentare l’apprendimento della lettura.
Demonizzare l’uso dei computer, anche nelle scuole, è una battaglia di retroguardia che non ha nessun senso, la loro utilità, a tutti i livelli, è fuori di dubbio, ma si tratta di affrontare le cose con lungimiranza. Perdere la capacità di collegare tra loro le lettere, è, un po’, anche perdere la capacità di collegare tra loro le cose.