Gian Arturo Ferrari, Corriere della Sera 16/11/2014, 16 novembre 2014
SE LA PIOGGIA IMPROVVISAMENTE DIVENTA CATTIVA
Sferzati dalla pioggia e flagellati dal vento. Così si vive in questi giorni a Milano. Invece di godere le scarne gioie di novembre — pallidi soli, foglie morte, veli di nebbia, sentieri nel parco — ci ritroviamo sul ponte di una specie di goletta, come in Capitani coraggiosi , quasi fossimo pescatori di merluzzi e di aringhe, bagnati dall’alto, di traverso e anche dal basso. Grazie in quest’ultimo caso alle scie maestose e geometriche che le automobili (per non parlare degli autobus…) sollevano solcando i vasti laghi dove una volta erano marciapiedi, cordoli, cunette, tombini.
In più, a differenza di quei valorosi marinai, non disponiamo di un abbigliamento adeguato, né di cerate né dei meravigliosi cappelli, chiamati Sudovest, che coprono con una larga ala la nuca e il collo. Restiamo dunque così, inermi e fradici in un rombare di tuoni (tuoni?), nella luce livida dei temporali (temporali? a novembre?).
Solo i più anziani tra noi conservano ancora memoria dei geloni alle dita, dei preti intesi come scaldaletto, delle fioriture di ghiaccio ai vetri (all’interno, s’intende) delle finestre. Ma tra breve nessuno più ricorderà neppure le estati torride, i vani tentativi di creare un riscontro d’aria, le notti insonni nella calura. La fine della civiltà, o forse semplicemente del modo di vivere contadino e la diffusione dei sistemi prima di riscaldamento e poi di refrigerazione ci ha tutti assuefatti a una vita a temperatura costante, in cui le condizioni climatiche si vedono, ma in sostanza non si sentono.
Siamo la civiltà dei 22 gradi. Garantiti, o così almeno noi pretendiamo. Ma, a quanto pare, la natura o comunque vogliamo chiamare quel che è all’esterno, fuori di noi, non è dello stesso parere e rivendica i suoi diritti e un suo ruolo. O forse — e più verosimilmente — siamo noi che sopportiamo sempre meno quel che si discosta dai 22 gradi, un mondo non tutto ad aria condizionata.
Fino a poco tempo fa non c’era nessuna attenzione collettiva per i fenomeni metereologici più consueti, per la pioggia, per il vento, per la neve. Certo, c’erano le grandi catastrofi, il Polesine nel 1951, Firenze nel 1966, il Tanaro nel 1994, Sarno nel 1998, ma erano viste come fenomeni a se stanti, non legati a uno stillicidio se non quotidiano almeno annuale. Nulla a che vedere, per fare solo un esempio, con la mirabile puntualità delle esondazioni del Seveso, sulle quali, come sulle passeggiate di Kant, si potrebbe regolare l’orologio.
La pioggia, quella che ci tormenta in questi giorni, è stata di conseguenza sempre vista con una specie di familiarità, come un animale domestico un po’ fastidioso ma affezionato. Nel romanzo più piovoso della letteratura italiana contemporanea (bellissimo tra i più belli) e cioè Una questione privata di Beppe Fenoglio, dove piove dalla prima pagina all’ultima, tutta quest’acqua serve a rappresentare lo stato d’animo desolato del protagonista, ma non lo impensierisce minimamente. In realtà nella letteratura e anche nella storia italiana più che piovere ha sempre piovigginato. Pioggerelline di marzo, pioggette sui «vestimenti leggieri», nu’ poco chiove, piovigginava anche a Caporetto. Le grandi piogge si collocavano in Paesi o nordici o monsonici, dove allentavano inconfessate tensioni.
Per questo siamo così stupiti ancor più che allarmati di fronte alle tante piogge che ci affliggono. Come se l’animale domestico avesse all’improvviso rivelato un’indole feroce, pericolosa, come se l’amata pioggerellina si fosse all’improvviso incattivita. Non abbiamo guardato con la necessaria attenzione Blade Runner, che, più di trent’anni fa, ci aveva spiegato come la Los Angeles (cioè il mondo) del 2019 (cioè tra pochissimo) sarebbe stata costantemente battuta da una pioggia scura e implacabile, decisamente cattiva. Che è precisamente quello che sta avvenendo.