Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 15/11/2014, 15 novembre 2014
GIOCO E ROVINA, QUEL MALE CHE ISPIRÒ DOSTOEVSKIJ
Non si contano gli archetipi letterari cui è riconducibile la vicenda triste di Marco Baldini, che a causa del gioco ha contratto debiti pressoché insostenibili stravolgendo la vita sua e della propria famiglia, per di più catapultato nel tunnel del senso di colpa.
In un’ideale classifica del gioco patologico in letteratura, il primo che viene in mente è Fëdor Dostoevskij, il cui romanzo Il giocatore (1866) è la più icastica rappresentazione dell’irresistibile discesa nella propria rovina provocata dalla roulette: è il giovane precettore Aleksej Ivanovic a sfidare il destino per amore, prima con alterne fortune poi via via precipitando nel gorgo senza redenzione e senza senso, sempre illudendosi che «Domani, domani tutto finirà». Ma non solo lui. Dostoevskij mette in scena un intreccio di incalliti «ludopati», in una sorta di malattia sociale che travolge nobili, nuovi ricchi e poveri, che hanno rinunciato a ogni scopo che non sia vincere vincere vincere, attaccati come sono al «rouge» o al «noir» di Sua Crudeltà il Caso.
È l’Ottocento il secolo in cui l’azzardo viene identificato con il Male, rivelando la faccia oscura e ipocrita del perbenismo dell’alta società, tant’è vero che non di rado esso nasce dal suo rovescio speculare, e cioè da nobili propositi morali. La tentazione incoercibile di forzare il destino è pervasiva, un virus da cui non si guarisce. Il contagio da prossimità è quasi inevitabile, come ne La donna di picche di Aleksandr Puskin, dove il gioco viene declinato nella sua variante più pericolosa, e cioè l’astuzia (presunta): quella di cui si crede dotato Germann, che, rimasto imperturbabile spettatore del furore ludopatico degli altri, decide a un certo punto di scoprire il segreto delle tre carte vincenti a costo di degradarsi, prima cercando di concupire una fanciulla, poi entrando in casa di una vecchia contessa (anche lei ludopatica incallita) e procurandone la morte.
Un interprete magistrale dell’autodistruttività da tentazione ludica nata con le migliori intenzioni è Arthur Schnitzler: in Gioco all’alba (1927) il tenente Willi Kasda, votato a una vita spensierata, si siede al tavolo per pura generosità, vorrebbe vincere un gruzzoletto a beneficio di un amico, ma via via che la notte avanza fino all’alba il destino finisce per presentargli un conto terribile, capovolgendo la sua leggerezza fantasticante in cupa allucinazione: Kasda contrae un debito mostruoso e ha solo ventiquattro ore per saldarlo, com’è previsto nelle regole della Vienna imperiale; la corsa contro il tempo, che coinvolge anche una possibile salvatrice, gli sarà fatale. E il rimbalzo della storia si rivelerà più beffardo del previsto.
Tra il «rouge» e il «noir», quando narrano il gioco, gli scrittori prediligono sempre il «noir». La patologia ludica, in letteratura esattamente come nella realtà, non solo sbalestra gli equilibri psichici individuali, ma complica le amicizie e sfigura i rapporti amorosi. Ne sa qualcosa, purtroppo, il nostro Baldini.
Ne sapeva qualcosa anche Stefan Zweig, che in un racconto perfetto come Ventiquattr’ore nella vita di una donna (sempre nell’anno di grazia 1927), narrò la ludopatia di un giovane russo rivissuta dalla parte di lei, ormai anziana, che in anni lontani l’aveva amato fino a sacrificare il proprio patrimonio pur di allontanarlo dal casinò di Montecarlo e dalla sua insana passione. Invano.