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 2014  novembre 17 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Matteo Petracci, I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, Donzelli 2014, pp

Notizie tratte da: Matteo Petracci, I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, Donzelli 2014, pp. 238, 33 euro.

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Ridicoli Cesare Lombroso, che venne tenuto in gran conto dal fascismo, già alla fine del XIX secolo, riferendosi agli anarchici, aveva scritto che la condanna a morte di un delinquente politico era da evitare, perché si correva il rischio di trasformarlo in un martire. Internarlo in manicomio presentava meno rischi, perché mentre «i martiri sono venerati», dei «matti» invece «si ride, ed un uomo ridicolo» – per chi detiene il potere e cerca di conservarlo – «non è mai pericoloso».

Antifascisti Nel Casellario Politico Centrale del ventennio vennero schedati 44.540 antifascisti. Di questi 475 – l’1,06 per cento di quelli schedati - furono chiusi in manicomio, spesso dopo il carcere o il confino: 122 di loro non ne uscirono vivi. Sei sono morti prima di raggiungere i trent’anni e ventitré tra i trenta e i quaranta; in molti dei trentacinque casi di morte tra i quaranta e i cinquant’anni, invece, il ricovero risaliva a otto, dieci o quindici anni prima. Per molti altri non è stato possibile risalire a nessuna notizia in grado di testimoniare se siano riusciti a uscire vivi dai diversi ospedali psichiatrici dove erano stati rinchiusi.

Pazienti ebrei Guglielmo Lippi Francesconi, direttore del manicomio di Maggiano a soli 36 anni. Nel 1944, dopo essersi rifiutato di consegnare le liste dei pazienti ebrei, fuggì insieme alla famiglia ma venne catturato e ucciso dalle Brigate nere.

Indicazioni Il figlio di Guglielmo Lippi Francesconi, direttore del manicomio di Maggiano, ha raccontato che suo padre a volte riceveva «indicazioni» dal «federale», che chiedeva «che quel tale non fosse dichiarato malato di mente, quell’altro sì».

Falsa perizia Il dirigente socialista Giuseppe Massarenti, che, dopo la liberazione di Roma, si rifiutò di lasciare l’ospedale psichiatrico prima di ottenere «la dichiarazione di falsa perizia firmata dai due medici» che lo avevano dichiarato «pazzo ai tempi del suo internamento».

Alienati La legge denominata «Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati», approvata nel febbraio del 1904, stabiliva che dovevano essere «custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale» qualora risultassero «pericolose a sé od agli altri» o provocassero «pubblico scandalo». In via ordinaria, l’ammissione dei ricoverati poteva essere chiesta da familiari, dai tutori e «da chiunque altro», sempre in tutela degli «interessi degli infermi e della società».

Scarico Nel 1891 lo psichiatra Augusto Tamburini aveva rilevato che «l’aumento dei ricoverati, più che dai pazzi» era dovuto alla presenza di idioti, pellagrosi, paralitici, epilettici, alcoolisti e «degenerati morali», che avevano trasformato i manicomi nello «scarico» delle «famiglie», degli «ospedali, dei ricoveri e delle carceri». Dopo la riforma del 1904 non cambiò quasi nulla; si continuò sempre a entrare in manicomio «non perché malati, ma perché nocivi, improduttivi, oziosi, di pubblico scandalo».

Numeri 1 Il numero dei ricoverati negli ospedali psichiatrici, che già era cresciuto progressivamente tra gli anni settanta dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo – passando da 12.913 ricoverati nel 1875 a 36.845 nel 1902 – nel 1905 arrivò a superare le 39.500 unità.

Numeri 2 Alla vigilia della prima guerra mondiale, i ricoverati nei manicomi avevano raggiunto la cifra di 54.311 unità, quasi un italiano e mezzo ogni mille abitanti.

Numeri 3 Negli anni del fascismo il numero degli italiani internati in manicomio continuò a far registrare un costante aumento. Se fino al 1926 questo incremento fu più contenuto – la percentuale crebbe solo dello 0,2 per mille sulla popolazione totale, rispetto alla vigilia della guerra – nel periodo tra il 1927 e il 1941 si assistette a una progressiva crescita: i ricoverati passarono da 62.127 a 94.946.

Codice penale Il Codice penale del 1930 introdusse nuovi reati in materia di controllo delle malattie mentali, come la «omessa custodia» degli alienati o la «omessa denunzia». Il nuovo codice dispose anche l’obbligo di iscrizione nel Casellario giudiziario dei ricoverati, norma contestata da diversi psichiatri membri della Lega italiana di igiene e profilassi mentale.

Ereditarietà La rivista «La difesa della razza», sin dalle prime uscite, concentrò l’attenzione sull’ereditarietà delle malattie mentali – tra le quali la paranoia e la nevrastenia – e sui possibili rimedi, dal certificato prematrimoniale obbligatorio alla sterilizzazione dei malati. «Razza e civiltà», sulla falsariga della propaganda nazista, che cercava di convincere i tedeschi rispetto a quanto si sarebbe potuto risparmiare procedendo all’eliminazione dei disabili, sottolineava invece come gli Stati spendessero ogni anno «miliardi per il mantenimento e l’educazione degli anormali di ogni genere». La rivista inoltre criticava l’impianto della legge del 1904, sostenendo che, a causa della «classica formula» dell’assenza di pericolo per sé e per gli altri, dai manicomi continuavano ad essere dimessi – e, per contro, a non essere ammessi – individui tarati, che, lasciati colpevolmente «liberi di contrarre matrimonio» e «di generare», avrebbero potuto trasmettere ai «figli la triste eredità della loro malattia».

Dementi tranquilli Con il fascismo, la vigilanza della Ps entrò direttamente anche nei manicomi. Il ministero dell’Interno e le autorità di Ps continuarono a pretendere notizie sugli antifascisti ricoverati. A volte, quando la degenza si protraeva per lunghi anni, la prosecuzione della vigilanza poteva dar vita a rimostranze degli stessi militi, in quanto ritenuta inutile, o addirittura ridicola, visto che gli schedati si trovavano già custoditi, per di più tra i pazzi, il che faceva sembrare irrazionale qualsiasi azione volta a raccogliere elementi rispetto alla condotta politica. I carabinieri di San Giovanni in Persiceto, ad esempio, chiamati dal questore di Bologna a riferire su Andrea – repubblicano, internato in manicomio nel marzo del 1932 dopo un arresto per aver pronunciato delle offese alla monarchia – scrissero: «Si trova tuttora rinchiuso al locale ricovero dementi tranquilli. Pertanto, questo comando non può fornire nei suoi riguardi le chieste informazioni, poiché in detto luogo di cura non esplica alcuna attività e quindi non è possibile controllare la sua condotta politica, anche per le sue menomate facoltà mentali».

Informare Alle direzioni psichiatriche veniva sempre chiesto di informare la Ps nel caso di liberazione di un antifascista dal manicomio. Talvolta, il personale sanitario annotava la necessità di tener conto dell’indicazione della questura direttamente sulla copertina della cartella clinica. In altri casi, questure e commissariati intimavano alle direzioni psichiatriche l’obbligo di riconsegnare loro il paziente in caso di dimissione, o comunque di aspettare la loro autorizzazione prima di farlo uscire dall’ospedale: circostanze che rappresentavano forme di pressione e si trasformavano in freni allo sviluppo di un’azione medica libera e cosciente.

Ricovero d’urgenza Nella maggioranza dei casi di internamento negli ospedali psichiatrici provinciali, la procedura seguita per gli antifascisti fu quella d’urgenza, prevista dal secondo articolo della legge del 1904, che disponeva che l’autorità locale di Ps poteva ordinare il ricovero in via provvisoria, sulla base di un certificato medico.

Mattina Ogni mattina Mussolini cominciava la giornata con un colloquio con il capo della polizia.

Alcol 1 Cesare Lombroso, nella conferenza Il vino nel delitto, nel suicidio e nella pazzia, tenutasi nel 1880, aveva sostenuto che l’alcool fosse la causa di tanti delitti, per una pluralità di ragioni: perché molti uomini erano «tratti dall’ubriachezza al delitto», perché molti altri delinquevano «per poter ubriacarsi», o, come per «i vigliacchi», perché «nell’inebriamento» trovavano «il coraggio necessario alle nefande imprese». I «bevitori» inoltre, sosteneva il criminologo torinese,
generavano «figli delinquenti».

Alcol 2 Oltre 1343 soggetti vennero internati in manicomio perché colpiti da psicosi alcooliche solo tra il 1926 e il 1928 (una media di quasi 450 casi l’anno).

Alcol 3 «La difesa della razza» a più riprese pubblicò il celebre disegno raffigurante l’albero genealogico con la «spaventosa discendenza di un’ubriacona», che, su poco meno di novecento eredi distribuiti in ottantatre anni, aveva fatto registrare quaranta alcoolizzati, sessantasette ladri, sette assassini e più di trecento tra prostitute e vagabondi».

Osteria La prima sezione del Partito socialista italiano era stata fondata in un’osteria.

Alessio Alessio, operaio, classe 1896, si era avvicinato ai socialisti sin dalla fine della prima guerra mondiale, dalla quale era stato congedato con una medaglia d’argento. La sua scheda di polizia registra un’espressione fisionomica «esaltata» e, tra i segni particolari, un «piccolo tatuaggio sul viso». Prima della marcia su Roma, Alessio era stato coinvolto in uno scontro con dei fascisti. Nel 1928 era stato arrestato per canti sovversivi, mentre, nel maggio dell’anno successivo, aveva tentato di picchiare due camicie nere che vivevano nel suo paese. Durante quest’ultimo episodio, venne segnalato il suo «stato di manifesta ubriachezza» e, da quel momento, cominciò ad essere definito «persona alquanto squilibrata», con forti «sentimenti di rancore verso i fascisti» e «capace di commettere atti inconsulti». Un anno dopo la prefettura di Pavia informò il ministero che era stato fatto ricoverare nell’Ospedale psichiatrico di Voghera.

Claudio Claudio, «andatura lenta e dondolante, mimica abbondante, voce grossa con accento marchigiano», era un calzolaio di mezza età, con qualche trascorso penale. Schedato come repubblicano, aveva avuto una condanna a cinque mesi di carcere per le ingiurie contro Mussolini pronunciate nel 1929 in un locale pubblico e, l’anno successivo, un’altra a tre mesi e quindici giorni per offese al culto cattolico. Uscito dal carcere, nel 1932 era stato arrestato di nuovo perché, «in stato di manifesta ubriachezza», aveva urlato a un sacerdote «Abbasso i preti!» e «Abbasso il papa!». Venne processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, per «offese al Sommo Pontefice», crimine equiparato a quello di offese al re. Durante il processo, l’unica difesa di Claudio fu ammettere che era ubriaco. Il tribunale lo prosciolse «per aver commesso i fatti in stato di cronica intossicazione», ma ne ordinò il ricovero in un manicomio giudiziario per due anni: alla fine della pena venne giudicato - ormai - un pazzo pericoloso e morì in manicomio.

Visite In occasione delle visite che Mussolini effettuava nelle province, veniva richiesto non solo il ricovero di tutti gli squilibrati «con manie a sfondo politico, per evitare disordini», ma anche che in caso di dimissione di un ricoverato dal locale manicomio (qualsiasi ricoverato, non solo gli schedati politici) venisse avvertita la questura, affinché, durante la visita, tutto filasse liscio.

Manicomi civili e giudiziari Il ricovero d’urgenza nei manicomi civili colpiva individui liberi da qualsiasi pendenza penale ed era disposto sulla base della definizione di una presunta pericolosità sociale. Gli internati nei manicomi giudiziari, invece, non erano solo potenzialmente pericolosi ma avevano già commesso dei delitti, che, nel caso specifico degli antifascisti, erano delitti politici.

Pletismografo Dal punto di vista dell’autorità giudiziaria, che nel caso dei reati politici commessi durante il fascismo era il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, i medici dovevano innanzitutto sgomberare il campo da qualsiasi dubbio sull’eventualità che il reo stesse simulando. Per far ciò, come testimoniato dai documenti, ricorrevano anche a tecniche come i test grafologici e strumenti come il pletismografo, un macchinario impiegato per valutare lo «sviluppo della emozionabilità», registrato attraverso l’esame delle «reazioni vasomotorie», della «pressione sanguigna» e della respirazione.

Rossano Con il pletismografo, nell’ambito di un processo istruito nel 1931 contro un gruppo di giovani comunisti empolesi, venne esaminato il giovane Rossano che, dal carcere di Firenze, era stato inviato in osservazione in manicomio per tre volte (prima a Firenze e poi a Roma), proprio perché gli psichiatri non riuscivano a stabilire se si trattasse di un pazzo o di un simulatore. Una volta azionato il macchinario, lo psichiatra stimolò l’attenzione di Rossano con una sequenza di «notizie a forte» impatto emotivo, dicendogli, in progressione, che erano arrivati i suoi genitori e il fratello per salutarlo; che erano venuti per abbracciarlo per l’ultima volta, visto che era appena giunta la sentenza che disponeva la sua condanna a morte; che nel frattempo era giunta la grazia del re e quindi non sarebbe stato più giustiziato, e, infine, che doveva rimanere in manicomio per tutta la vita. Durante la prova, il «ritmo cardiaco» di Rossano era rimasto calmo, non «affatto influenzato» dalle notizie. Ciò forniva la prova, secondo lo psichiatra, della sua «inaffettività completa» e del suo «disinteresse assoluto» per tutto ciò che avveniva «intorno a lui». Gli venne diagnosticata la schizofrenia e fu dichiarato incapace di intendere e di volere, nonché socialmente pericoloso. Dal manicomio non uscì più, nonostante il Tribunale speciale, nel frattempo, lo avesse assolto per insufficienza di prove.

Masturbarsi Rossano, che in carcere era stato isolato dai comunisti arrestati con lui, tra i quali anche il fratello, perché «si masturbava continuamente».

Cella imbottita Rossano, in cella «emetteva quotidianamente, sia di giorno che di notte, alte grida», faceva «discorsi sconnessi» e cercava di «colpire» gli agenti di custodia «con quanto gli capitava a portata di mano». Venne prima legato più volte e per più giorni al letto di contenimento, poi rinchiuso in una «cella imbottita», dove non aveva a disposizione nemmeno «il buiolo», per cui doveva «fare i propri bisogni su un po’ di segatura posta sul pavimento».

Brodo con carne di carabiniere Nel 1924, nel corso del processo per gli scontri di Empoli – durante i quali erano stati uccisi nove uomini fra marinai e carabinieri – la stampa si lanciò in una campagna volta a screditare gli imputati, esaltando «la bestialità dell’orda comunista». «La Nazione», riportando alcuni interrogatori, segnalò persino come a un’anziana donna fossero state fatte domande sulla presunta preparazione di «brodi» con carne «di carabiniere».

Sacrifici Luigi Rusticucci, studioso di criminologia e istituzioni penitenziarie, nel 1924 aveva definito come «un’ottima proposta» l’idea già avanzata da Lombroso di mandare i delinquenti considerati incorreggibili «a bonificare le maremme, gli agri e le miniere, risparmiando la vita di onesti operai». Se malattie come la malaria per essere debellate esigevano «un’ecatombe umana», era allora «evidente» che sarebbe stato «ben meglio sacrificare i criminali piuttosto che i contadini onesti».

Sterilizzazione Nel 1924 il medico socialista Gaetano Pieraccini aveva teorizzato sia il divieto di matrimonio per i «tisici», i «pazzi», gli «alcoolizzati», gli «epilettici», gli «imbecilli» e i «grandi delinquenti», che la sterilizzazione «mediante i raggi X» di quanti venivano dimessi da un manicomio.

Morfologia animalesca Il caso di Laura, trent’anni, operaia, «capelli castani alla garçonne», arrestata il 16 giugno del 1927 con l’accusa di far parte di un gruppo clandestino del Partito comunista che si era contraddistinto per la propaganda tramite opuscoli, giornali e manifesti «stampati alla macchia» e diffusi sia tra la popolazione che tra i militari. Dopo vari interrogatori che proseguirono per mesi, in cui aveva subito «tante torture quasi da impazzire», il medico del carcere di Bardonecchia segnalò che la donna stava cominciando a soffrire «di disturbi a sfondo neuropatico». Qualche mese dopo fu trasferita nel manicomio di Mombello. Dall’esame fisico, scriveva lo psichiatra, emergevano «parecchie note degenerative», come «la grande apertura delle braccia» – che era «superiore alla statura» –, il «predominio della faccia sul cranio», la «bassezza della fronte» e «il sistema dentario del tipo lemurico», le cui «stigmate» erano peculiari ai «frenastenici» e ricordavano «proprietà morfologiche animalesche». Le sue particolari «degenerazioni somatiche» trovavano riscontro «nel di lei sviluppo mentale», tanto che, «anche tenendo conto della sua bassa cultura», proprio «dai suoi discorsi» e dallo stesso suo memoriale risultava chiara al perito «la deficienza» del «patrimonio mentale» dell’imputata.

Legge Terracini All’inizio del luglio 1930, Laura venne dimessa e tornò libera. Nel 1955, in seguito all’approvazione della legge n. 96 sulle «Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti» (detta legge Terracini, dal nome del suo primo firmatario), inoltrò la sua richiesta di risarcimento. Raccontò che, nel 1927, durante gli interrogatori a Bardonecchia, era stata «brutalmente seviziata e percossa con i calci delle pistole, gettata a terra, pestata e manganellata». Ridotta in «condizioni pietose» era stata infine internata in manicomio.

Assunzioni Il capo del personale del manicomio di Lucca era il segretario politico del fascio della provincia, mentre erano molti gli impiegati e gli infermieri «assunti per ragioni politiche». Situazione simile nel manicomio civile di Aversa, dove gli infermieri e gli addetti alla sorveglianza provenivano direttamente dalle file della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Una massiva fascistizzazione del personale venne operata anche nell’ospedale San Lazzaro di Reggio Emilia, dove la quota di assunzioni legate a «meriti politici» crebbe fino all’ottanta per cento del totale degli addetti. Tale risultato si raggiunse grazie ai licenziamenti dei dipendenti annoverabili tra le file dell’opposizione, messi in atto negli anni successivi alla marcia su Roma (circostanza che si verificò in molti manicomi), e l’assunzione di soli fascisti; anzi, dagli anni trenta in poi, di soli «fascisti in possesso di determinati requisiti e benemerenze».

Confino politico 1 I condannati al confino politico in Italia, tra il 1926 e il 1943, furono 17.000.

Confino politico 2 A Lampedusa 120 confinati stavano stipati in un camerone che ne avrebbe potuti contenere al massimo cinquanta. A Ustica si viveva sostanzialmente nelle stesse condizioni che avevano visto morire centinaia di libici deportati durante la guerra del 1911. Il camerone dell’isoletta di San Nicola alle Tremiti, destinato ai politici, era «un androne enorme, umido fino allo sgocciolìo, quasi buio, fornito di una sola finestra che, altissima, si affacciava sul mare». A Ponza erano gli stessi funzionari di polizia a descrivere gli stanzoni come «veramente inabitabili», poco differenti «da enormi antiquate e sudicie scuderie». A Favignana i confinati dormivano in cameroni con venticinque o trenta brande, metà da un lato della stanza e metà dall’altro, con all’interno anche la latrina.

Cuocere talpe, gatti e cani Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’approvvigionamento dalla terraferma si fece progressivamente più difficile. Le restrizioni alimentari, che investirono le isole di confino prima del resto del paese, fecero registrare «condizioni di eccezionale penuria e di vera e propria denutrizione». Il dirigente comunista Girolamo Li Causi ha raccontato che, dall’isola di Ventotene, negli inverni del 1942 e del 1943 sparirono dalla circolazione gatti, talpe e anche qualche cane: «Alcuni compagni erano specializzati nella cattura […] altri ancora nella cottura, perché non era facile rendere mangiabile quella carne».

Vomitarsi addosso Giorgio Amendola, allora giovane dirigente comunista confinato per lunghi anni a Ponza, raccontando di quando aveva lasciato l’isola, assieme ad altri confinati, in vista di un processo: «Appena fuori dal porto incontrammo il mare grosso. Eravamo, con le manette ai polsi, uniti da una catena a gruppi di dieci. Tutti, detenuti e scorta, cominciarono a soffrire il mal di mare. Un carabiniere giovane, poco più che ventenne, cominciò a vomitare. Era impossibile arrivare agli oblò con le catene e tutti si vomitavano addosso. Chiesi di parlare con l’ufficiale che comandava la traduzione e gli feci presente l’opportunità che, pur mantenendoci le manette, fossimo almeno liberati dalle catene. Mi disse che un preciso articolo del regolamento glielo impediva. Era anche lui pallidissimo e tracce di vomito gli sporcavano la divisa […]. Così conciati, malati, sporchi, continuammo per circa 10 ore».

Saluto romano A Tremiti e Ustica si tentò di imporre il saluto romano ai confinati politici ma le proteste spinsero il regime a preoccuparsi della cattiva pubblicità che il provvedimento gli stava procurando. Dopo qualche mese, Mussolini chiuse la questione stabilendo che gli antifascisti non avevano il diritto di salutare romanamente.

Contatti A Ponza, gli abitanti erano stati ammoniti sin dal 1928, momento in cui sull’isola venne istituita una colonia: qualsiasi contatto o familiarità con i confinati avrebbe esposto i responsabili ad esemplari provvedimenti di polizia.

Sepolti vivi Nel carcere di Portolongone, uno degli stabilimenti penali con un regime disciplinare molto rigido, centinaia di uomini erano «sepolti vivi» in celle di due metri e mezzo per uno e mezzo, dove, «muti ed inebetiti», passeggiavano come «belve nella loro gabbia». Il dirigente comunista Girolamo Li Causi, che vi passò tre anni, iniziò «gradatamente» a perdere la «nozione del colore», perché gli unici colori che a Portolongone si potevano vedere «erano il bianco dei muri e il grigio delle inferriate». Molte celle disponevano di un’unica finestra a bocca di lupo, affinché, nella distribuzione naturale delle ore solari, la luce che riusciva ad entrare fosse sempre poca. Un’altra costante era la presenza delle cimici. A volte ce ne potevano essere così tante da trasformare il riposo sulla branda in una tortura per i «poveri nervi».

Silenzio Nel carcere di Portolongone, il silenzio doveva essere totale. Gli agenti di custodia portavano «scarpe felpate» e non alzavano mai la voce. Se dovevano chiamare un detenuto pronunciavano il numero sussurrando. D’inverno, gli unici segni «di vita» che provenivano dai vari reparti «erano la tosse e lo scatarrate, d’estate lo sbadiglio da belva annoiata». Era di notte, però, che le «angosce venivano fuori», quando «improvvisamente da una cella partivano urla disperate, che costringevano i custodi a far uscire il detenuto, il quale, in preda agli incubi, credeva di morire» (Li Causi).

Buiolo In rarissimi casi le celle delle prigioni avevano un bagno, più spesso c’era il buiolo: un secchio che veniva utilizzato come latrina e che veniva svuotato la mattina dagli scopini, i detenuti addetti ai servizi di pulizia interna.

Brodaglia infame Generalmente, il pasto in carcere viene descritto dalle testimonianze come «una brodaglia infame, senza condimento, con pasta o riso stracotti», quasi «liquefatti». L’unica variante allo scarno menù fatto di minestre, legumi e 200 grammi di carne lessata (ossa comprese) una volta alla settimana, era costituita dal «vitto speciale» di pasta, formaggio e 200 grammi di carne in umido (ossa escluse) previsto per il Natale, la Pasqua, la festa dello Statuto, il Ventuno aprile (natale di Roma) e l’anniversario della marcia su Roma.

Sciopero della fame L’articolo 245 del regolamento prevedeva che i reclusi potessero rifiutare la razione di cibo. Il rifiuto non poteva però essere opposto in maniera continuata. Lo sciopero della fame non era un metodo di lotta molto frequente tra gli antifascisti (per i comunisti era sconsigliato dalle disposizioni dell’Internazionale, in quanto considerato inutile e dannoso). Tuttavia, nei casi in cui era praticato interveniva il personale di sorveglianza per nutrire forzatamente il detenuto, tramite una sonda. Questo metodo, usato anche nei manicomi, poteva trasformarsi in una vera e propria tortura. Rocco Pugliese, ad esempio, un giovane comunista condannato a oltre venti anni di reclusione in seguito a degli scontri che avevano provocato un morto e un ferito tra i fascisti, morì soffocato mentre gli agenti di custodia tentavano di fargli «ingurgitare del cibo», proprio in seguito a uno sciopero della fame.

Pane a acqua Il «contegno arrogante» verso gli agenti di custodia aggiungeva all’isolamento anche il trattamento a pane e acqua, mentre dimostrarsi «irriverente» nei confronti dei funzionari superiori veniva sanzionato con pane e acqua e con la sostituzione del letto con il «pancaccio in legno».

Inattività 1 A Paolo Betti, condannato nel 1928 a dodici anni di reclusione per ricostituzione del Partito comunista, nei primi tre mesi di segregazione vennero negati anche gli occhiali per leggere, costringendolo all’assoluta inattività. In questi casi, anche l’immaginazione poteva diventare parte «essenziale di una vera e propria strategia di sopravvivenza»: Camilla
Ravera ha descritto le sue lunghe ore di solitudine passate a elaborare mentalmente lunghi e appassionanti concerti di musica classica. Le notti, comunque, «non finivano mai».

Inattività 2 I rischi psicologici determinati dalla forzata inattività, specie in quanti provenivano da categorie sociali meno abituate a confrontarsi con il lento incedere delle albe e dei tramonti, sono state riassunte da
Antonio Gramsci in una lettera da Ustica: «È incredibile come gli uomini costretti da forze esterne a vivere in modi eccezionali ed artificiali sviluppino con particolare alacrità tutti i lati negativi del loro carattere […]. I più calmi, sereni e misurati sono i contadini; poi vengono gli operai, poi gli artigiani, quindi gli intellettuali, tra i quali passano raffiche improvvise di follia assurda e infantile».

Fetore Amilcare Marescalchi, un sacerdote ricoverato all’inizio degli anni Quaranta, ha raccontato che la «vita di manicomio» era «lenta» e «monotona». Le giornate passate in ospedale trascorrevano in mezzo a «un’umanità a cui tutto è permesso» e a «un fetore dei più insopportabili». Il tempo poteva apparire come «congelato» A volte erano solo le «grida» ad accompagnare le giornate, altre volte il «silenzio». I reticolati innalzati in luogo dei muraglioni davano ai cortili l’aspetto di recinti per animali.

Minestraccia Amilcare Marescalchi ha descritto la «minestraccia» del Santa Maria della Pietà come «degna soltanto dei deportati alla Cajenna». Anche il vitto presentato nel manicomio di Siena, dove nel 1940 era stata internata l’ex morfinomane Margherita Adamo, era penoso al punto che sarebbe stato «respinto anche dal soldato più attaccato alla gavetta».

Mentecatti poveri Nel 1865, nel pieno del processo di unificazione politico-amministrativa della penisola, il compito di mantenere i «mentecatti poveri» e di costruire edifici pubblici a loro destinati fu affidato alle Province.

Manicomio criminale 1 L’idea del manicomio criminale come luogo di «cerniera fra la psichiatria e la giustizia penale» cominciò a imporsi a partire dal 1870. Nel 1872 venne pubblicata la prima inchiesta sul numero dei pazzi criminali internati nei manicomi. Nello stesso anno Cesare Lombroso scrisse il suo primo studio sull’argomento – Sull’istituzione dei manicomi criminali in Italia – al quale seguirono i lavori di altri psichiatri, criminologi e penalisti. Il crescente dibattito fece da sfondo alla nascita della prima Casa penale invalidi - sezione maniaci di Aversa. Una iniziale sistemazione legislativa venne però contemplata solo nel 1889, con il Codice Zanardelli, che identificò il ricovero in manicomio come «misura di sicurezza».

Manicomio criminale 2 Nel 1886, a Montelupo Fiorentino, un’antica villa fu riaperta come manicomio criminale. Nel 1897 venne inaugurato quello di Reggio Emilia, ricavato all’interno di un convento. Reparti per gli imputati in osservazione psichiatrica furono predisposti in alcuni manicomi civili, come il Santa Maria della Pietà o i manicomi di Imola o di Nocera Inferiore.

Padiglioni Nei manicomi donne e uomini dovevano essere sistemati in complessi distinti e divisi in padiglioni destinati ai malati in osservazione, ai malati tranquilli, ai semi-agitati, agli agitati, ai pericolosi e, a volte, ai sudici, ai clamorosi e ai criminali.

Manicomio-villaggio Santa Maria della Pietà, a Roma, venne progettato secondo lo spirito del «manicomio-villaggio». Composto da diversi edifici distribuiti su centocinquanta ettari di terreno e collegati da circa sette chilometri di strade, fu inaugurato dal re nel maggio del 1914. Era il manicomio più grande d’Europa.

Parco 1 Il Santa Maria della Pietà aveva un grande parco con alberi ad alto fusto, giardini e alte siepi, che servivano a nascondere le reti di recinzione. Il muro di sicurezza venne previsto solo per delimitare il padiglione XVIII, quello destinato ai criminali.

Parco 2 I tetti rossi, romanzo di memorie e ricordi di Corrado Tumiati – psichiatra che lavorò prima nel manicomio di Pesaro, poi in quello di Siena e infine, dal 1913, in quello di Venezia –, fornisce una descrizione delle impressioni che si potevano ricavare dall’osservazione del parco di un manicomio e dal brulicare della vita che vi si svolgeva: grandi alberi «rigidi, contorti» e «solenni»; «squarci d’azzurro fra i rami verdissimi. Sotto le fronde un popolo bizzarro», che «oscilla senza mèta in un clamore confuso».

Sovraffollamento Nel 1925 il manicomio di Trieste giunse a ospitare settecentocinquanta malati su un totale di cinquecento posti. L’anno successivo, un’inchiesta condotta dallo psichiatra Gustavo Modena rivelò che la proporzione tra il numero di medici presenti nei manicomi pubblici e il numero dei malati risultava essere di uno ogni centotrentotto. Nel 1930, gli oltre 3700 pazienti registrati a Mombello fecero aggiudicare all’istituto lombardo il primato nazionale per il numero dei ricoverati.

Nuovi 1 Nuovi ospedali psichiatrici provinciali edificati durante il fascismo: a Bisceglie (1922-33), Rovigo (1930), Agrigento (1931), Reggio Calabria (1932), Siracusa e Trapani (1934), Vercelli (1937) e Varese (1939).

Nuovi 2 Nel 1925 furono ultimati i lavori del manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, la cui costruzione era stata interrotta dopo il terremoto del 1908. Negli anni successivi alla marcia su Roma erano stati eseguiti lavori di ampliamento anche ad Aversa. Nel 1939, il ministero di Grazia e Giustizia stipulò infine una convenzione con l’Ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere per l’apertura della nuova sezione giudiziaria.

Nota di gaiezza Ogni padiglione dello stabilimento per criminali alienati di Barcellona Pozzo di Gotto, ospitava un’area di circa mille metri quadrati destinata al passeggio, e poi vigne, orti, larghe zone alberate e giardini che, a parere del suo direttore Vittorio Madia, dovevano infondere «una nota di gaiezza» a quel «luogo di dolore». All’inaugurazione del 6 maggio 1925 era intervenuto anche il ministro Alfredo Rocco. L’anno successivo sarebbe stata posta una lapide a testimonianza della collocazione del fascio littorio sull’ingresso principale: l’emblema fascista – recitava l’epigrafe – era stato innalzato «su questo calvario di vivi» come «simbolo di luce e di commossa umanità».

Senza inferriate Il manicomio di Vercelli, uno degli ultimi ad essere inaugurato (nel 1937), ospitava tredici padiglioni, tra i quali uno destinato ai paganti, con «camerette ad uno o due letti», corredate dai «più moderni conforti igienici». Solo i cortili per gli agitati erano delimitati da un muro di cinta; tutti gli altri da rete metallica. Le sbarre alle finestre erano ridotte al minimo. Al piano terra del padiglione per tranquilli e in tutti i locali destinati a refettorio o ai bagni, scriveva con una punta d’orgoglio Eldo Broggi, il primo direttore dell’istituto, non esistevano «inferriate». L’interno di tutti i padiglioni era «molto luminoso, ben areato» e tinteggiato con colori «armonici e riposanti».

Abiti e svaghi Ai ricoverati a volte venivano consegnati vestiti di diverso colore invece delle classiche divise bianche o grigie, così da riprodurre condizioni quanto più possibile vicine alla quotidianità. Potevano inoltre essere previsti dei momenti di svago, differenziati secondo la classe sociale di appartenenza: scacchi, musica, teatro e passeggiate «per quelli di civile condizione»; bocce, pallone e marionette per tutti gli altri. A volte, oltre ai refettori e ad altri locali comuni, i manicomi potevano ospitare anche sale da biliardo o per ascoltare musica.

Ergoterapia L’Ospedale psichiatrico di Rovigo, attivato nel 1930, occupava circa la metà dei ricoverati nei lavori per l’orto interno, il frutteto, l’allevamento del bestiame e altre attività che, nell’ambito della distribuzione dei riconoscimenti indirizzati ai protagonisti delle battaglie per l’autosufficienza alimentare, fece conseguire all’istituto la Medaglia d’argento per la Battaglia del grano. A volte, gli stessi internati si rendevano protagonisti degli sforzi per strappare alla natura terreni da mettere a coltivazione. La colonia agricola del manicomio di Vercelli, aperta nel 1937, «per ragioni insite alla natura del terreno» aveva richiesto opere «attente» e «intelligenti». In quei campi erano occupati in media quaranta malati al giorno per circa ottomila giornate lavorative l’anno. Oltre al «notevole vantaggio dal punto di vista di una fattiva ergoterapia», la vendita di prodotti in eccesso cominciava a generare persino degli utili. Qualora si fosse riusciti a conquistare altre porzioni di terreno da mettere a coltivazione, si compiaceva il direttore, si sarebbe compiuta «un’opera autarchica non indifferente».

Messa I cappellani dei manicomi giudiziari celebravano messa tutti i giorni festivi, e, «prima o dopo il servizio divino», dovevano «impartire» agli internati «istruzioni di catechismo». In giorni e orari stabiliti, inoltre, tenevano delle «conferenze morali ed educative» a cui tutti gli internati non soggetti all’isolamento continuo dovevano obbligatoriamente partecipare, concentrando la predica «sui doveri verso Dio, verso lo Stato e verso la società».

Cure La maggior fonte di preoccupazione per la psichiatria manicomiale degli anni tra il 1920 e il 1930 era rappresentata dal problema della cura. Le terapie in uso erano infatti considerate legate a tradizioni e metodi obsoleti. In manicomio si praticava ancora la «clinoterapia» – ovvero il riposo forzato a letto – l’«idroterapia» – ossia la permanenza in acque calde a 35 o 37 gradi – e l’iniezione di sedativi – come il bromuro di potassio, la scopolamina o la morfina – quando gli altri trattamenti risultavano inefficaci per tranquillizzare il degente. Nel corso degli anni trenta, inoltre, anche le convinzioni rispetto alla reale efficacia dell’ergoterapia cominciarono a incrinarsi.

Malarioterapia 1 Nel 1917, il neurologo austriaco Julius Wagner von Jauregg era riuscito ad approntare la «malarioterapia», sperimentandola per la prima volta su alcuni soldati, poi effettivamente guariti. Il trattamento consisteva nell’iniezione del parassita responsabile della malaria nei soggetti colpiti da paralisi progressiva in conseguenza della sifilide. Tale cura funzionò da apripista per la «ricerca di terapie somatiche» che, seguendo la logica «chiodo scaccia chiodo», si prefiggevano il compito «di curare la malattia mentale a partire dall’idea di uno scontro/opposizione tra patologie». Negli anni successivi la scoperta di Wagner, nel mondo scientifico si diffuse la convinzione che questo tipo di shock poteva avere dei buoni risultati anche sugli schizofrenici e sui soggetti colpiti da delirio.

Malarioterapia 2 Alcide, un giovane anarchico maceratese, morì in manicomio alla fine del 1929 in seguito agli accessi febbrili causati dalla malarioterapia. Secondo la sua cartella clinica, dopo l’iniezione del sangue infetto, «la febbre malarica» aveva «ben attecchito»: Alcide aveva cominciato a presentare «una serie di forti attacchi (sui 40°)» che erano comparsi per dodici giorni ed erano «stati preceduti da brivido intenso e seguiti da copiosa sudorazione». Il giovane aveva «sopportato l’infezione senza manifestare segni di debolezza». La febbre era poi «del tutto scomparsa e l’individuo, buon mangiatore», si era «rifatto fisicamente». Non esprimeva «più le paradossali idee di grandezza» e manteneva «un contegno quieto, ordinato». La cura sembrava aver fatto effetto: «già si alza», aveva annotato il medico. La sera di Natale, dopo essere stato in piedi «tutto il giorno senza accusare alcuna sofferenza», Alcide aveva però bussato «fortemente alla porta del dormitorio». L’infermiere era accorso subito e si era sentito dire: «Sento qualcosa sul cuore, mi sento morire». Alcide spirò poco dopo.

Elettroshock L’elettroshock, invenzione italiana, sperimentata sui maiali e poi testata sull’uomo l’11 aprile del 1938. Alla fine del 1940 le applicazioni si contavano già a migliaia.

Contenzione fisica Durante il ventennio fascista, in alcuni manicomi giudiziari la contenzione fisica poteva essere una pratica consueta, almeno per i nuovi arrivati. A Montelupo Fiorentino, ad esempio, c’erano sedici letti per «gli agitati», solitamente destinati ai «pazzi morali» trasferiti dai penitenziari «a sezioni di rigore». La contenzione assumeva inoltre i contorni della punizione. Spesso erano i ricoverati indisciplinati e ribelli ad essere legati più frequentemente. Non rappresenta un caso il fatto che, durante gli anni trenta, gli stessi anni in cui si svilupparono rivolte e proteste organizzate dai detenuti, si assistette a una crescita costante del ricorso alle misure di sicurezza detentive – come appunto gli internamenti in manicomio giudiziario – che passarono dai 778 casi del 1931 agli oltre 5800 del 1939.

Corpetti di forza Secondo il manuale per gli infermieri di manicomio scritto da Giuseppe Guicciardi (direttore del San Lazzaro di Reggio Emilia dal 1906 al 1929), l’isolamento e la coercizione dovevano essere utilizzati «con funzione calmante» da applicarsi ai pazzi «impulsivi e violenti». Per l’isolamento dovevano essere usate celle buie: «il silenzio, la calma e la tenebra» aiutavano infatti a sedare «in breve tempo» la «collera» e l’«esaltazione». Gli infermieri, prima di chiudere il paziente in cella, dovevano farlo spogliare e perquisirlo; per evitare che portasse con sé «oggetti raccattati». Fasce, «polsini» e «corpetti di forza» dovevano essere usati per «legare il malato e impedirgli i movimenti», quando, a giudizio dei sanitari, si riteneva che questo fosse tentato dal nuocere a se stesso o a chi gli stava a tiro.

Puzzo atroce Nelle camere di contenzione la situazione igienica era pessima. Margherita Adamo, ricoverata a Siena nel 1940, ha ricordato il «puzzo atroce» proveniente dalle «quattro camere delle donne legate e graveolenti», dove si urlava, si piangeva «notte e giorno», si facevano «cose che la fantasia normale non può concepire». Nell’ora dei pasti, ha raccontato, «l’inferno» aumentava: «relitti» umani, legati mani e piedi, venivano «imboccati come polli da ipernutrire. Spesso, mentre la bocca masticava, si apriva il retto». Accanto qualcuno vomitava.

Zuppe d’urina Della sua esperienza al Santa Maria della Pietà, Amilcare Marescalchi ha ricordato il rito a cui assisteva quotidianamente nel reparto XII, quando, ogni mattina, un signore «che tutti chiamavano l’“ingegnere”, faceva il giro della corsia e radunava» alcune parti dei singoli letti che doveva sostituire: «tutte zuppe di urina», sporcate da quei malati che, legati, «non potevano recarsi» nell’«angolino» a loro disposizione.