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 2014  novembre 16 Domenica calendario

SONO UN BUFFONE, MATTO E VOLGARE MA ALMENO POSSO DIRE LA VERITÀ

[Intervista a Remo Remotti] –
La salute è incerta, la memoria labile: “Uno dei problemi più grandi dei vecchi è che non si ricordano più un cazzo”, la barba bianca e lunga: “Ho interpretato Marx, Freud e anche Eugenio Scalfari, grazie alla barba. Tutte persone intelligenti, no?” Oggi, domenica, Remo Remotti compie novant’anni. I primi cinquanta, errabondi, tra la Germania, il Sudamerica, i matrimoni falliti, gli arresti e gli ospedali pschiatrici: “In manicomio sono andati pure Van Gogh e Nietzsche, anche se il mio è stato un percorso breve, ero in buona compagnia”. I secondi quaranta sul palco. Canzoni. Quadri. Disegni. Libri. Poesie. Televisione. Molto cinema, da Nanni Moretti a Ettore Scola: “Sul set de La terrazza, Scola era tanto caruccio. La produzione però si dimostrò pidocchiosa. Neanche un caffè ci offrirono. Ce ne fregammo e indignati, scendemmo al bar in venticinque. ‘Pagano quelli sopra, quelli in doppiopetto’”. Tra gli artisti: “Tutti indistintamente mitomani, egocentrici e megalomani” Remotti occupa un posto a margine. Ha pubblicato con Einaudi e recitato per Francis Ford Coppola, ma non ha avuto padrini: “Fatta eccezione per Renato Mambor che nel ’75, dal nulla, mi fece salire sul palco dell’Alberico”. Nato sotto il segno dello Scorpione: “Gente perennemente oscillante tra bene e male, gente scossa da individualismo, egoismo e orgoglio” alla stanzialità della tana sicura, Remotti ha preferito la fuga. Ora che scappare non si può e l’orizzonte è una poltrona da cui osservare l’autunno con un cappello sulla testa, Remotti vorrebbe essere più giovane e tornare nel paese delle meraviglie: “L’età è una fregatura. Una porcheria. Ti fa male tutto, devi chiedere aiuto e arrivi a farti schifo”. Un tempo, dice, era diverso: “Sarà stato il 1934 e andavamo in pellegrinaggio dai nostri parenti, il ceppo ricco della famiglia, nella loro villa ai Monti Parioli. C’erano il giardino, il campo da tennis, il garage per le automobili, la governante, la cuoca, il broccato giusto. Io giocavo con i miei cugini, quattro ragazzini biondi e portavo la vita, il caos e le parolacce in un microcosmo immobile, educato e gelido. ‘Remo, facci il buffone’ mi dicevano. E io li accontentavo. Mettevo in scena piccoli spettacoli d’arte varia, li facevo contenti. Da allora sono rimasto pagliaccio e mi sento molto fortunato. Sarebbe potuta andare peggio”.
Per i suoi novant’anni le dedicano una mostra in un’importante galleria romana. Opere, disegni, schizzi, bozzetti.
E pensare che nel ’75, nauseato dai meccanismi del mondo dell’arte, vendetti i miei quadri a prezzi stracciati tappezzando Roma di manifesti con il mio volto. “Remotti è matto” c’era scritto.
Ed era vero?
Secondo Mario Gozzano, il direttore della Clinica di malattie mentali dell’Università di Roma, qualche problema c’era. Me lo scrisse nel 1968. In una lunga lettera. All’epoca vivevo in Germania e gli avevo chiesto consiglio per la mia nevrosi. La addebitavo alla mia prima moglie, Maria Luisa Loy, la sorella di Nanni. Gozzano, sul punto, fu chiaro.
E cosa le scrisse?
Che ero un nevrotico senza rimedio e che la mia nevrosi non dipendeva dai difficili rapporti con mia moglie, ma che i rapporti tra noi erano impossibili proprio a causa della mia nevrosi. A Maria Luisa, una donna che si era innamorata di uno strano tipo che parlava un bizzarro italiano fitto di spagnolismi e consumava mezzi litri di pessimo Frascati nelle bettole, ero legato. Per conquistare la nostra libertà, prima di scoprire differenze e abissi, si chiuse molte porte alle spalle. Pensare che io l’avevo anche avvertita per via epistolare. Le avevo scritto una poesia: “E tra madonne, cere e candelotti/ Maria Luisa Loy diventerà Re-motti. Ma se tu per marito non mi vuoi/ mi ripiglio il Remotti e tu rimani Loy”.
Nel 1968, all’epoca del ‘consiglio’ di Gozzano, lei aveva già 44 anni.
Ed avevo già vissuto in Perù per quasi dieci. Mio padre morì quando avevo dodici anni. Era un uomo meraviglioso e la sua scomparsa incasinò ogni cosa. Mia madre si attaccò ossessivamente a suo figlio e io mi sentii soffocato, iperprotetto, perduto. Se non fossi scappato di casa, nonostante la scuola dei marinaretti di Via Flaminia e la succursale “Caio Duilio”, dove tra una vogata e l’altra i precettori non dimenticavano di ricordarci la necessità di essere virili: “Che fai? Piangi? Me ce li hai i coglioni?”, sarei sicuramente diventato un ‘frocio’ da pisciatoio.
Lei Remotti non ama le metafore.
Il problema è che sono un caso patologico. Amo il sesso e mi piace la volgarità. Confina spesso con la chiarezza. Con la verità. Se dico che mi piace la fica sono volgare? Non credo. Sono onesto. E lo era anche il sommo Giocchino Belli, strano caso di intellettuale, censore di se stesso in vita e poi censurato da morto.
Cosa diceva il Belli?
“Bona la santa fede e chi l’insegna/ bona la castità, mejo la fregna”.
Chiarissimo.
Di queste cose, comunque, a casa non si parlava. Papà faceva canottaggio e prima di morire aveva fatto in tempo a portarmi sul Tevere. Del fiume, dei remi e delle lunghe ore passate a prendere il sole sulla riva, mi innamorai seduta stante. Ci passavo le giornate. Curavo il fisico e lo spirito. Osservavo con ammirazione i ragazzoni che presto sarebbero andati a rimpinguare i grandi set americani di stanza a Roma.
Sognava anche lei una comparsata in Ben Hur?
Ero un inetto. Un gaudente buffone assolutamente incapace di prendersi le sue responsabilità. A volte il disimpegno era pigrizia, altre azione sacrosanta. Quando il signor Mussolini, per dire, richiamò gli ex Balilla a Salò, mi guardai bene dal partire. La guerra non era fatta per me. Avevo un difetto. Una patologia.
Quale patologia?
Pensavo alla sorca e basta, ma della vita non capivo niente. Contestavo l’ambiente ma in realtà desideravo solo bighellonare in giro. In Italia c’erano i bordelli, ma quando andavi con due lire in tasca, facevi capire che ti saresti trattenuto poco e promettevi improbabili ricchezze future: “Domani torno per la doppia”, venivi trattato come un pezzente: “Sbrigati stronzo”. Ben prima che di tirare il sipario sulla festa si occupasse Lina Merlin, emigrai in autostop verso Svezia e Danimarca. Prendevi un passaggio verso Stoccolma, andavi a letto con una ragazza senza drammi o mercimoni e la mattina dopo, al risveglio, sua madre ti portava anche il caffè. Una serena promiscuità. In Italia, a parità di condizioni, sul vassoio non trovavi la colazione, ma gli schiavettoni della Polizia.
Lei li ha incontrati varie volte.
Un paio di volte me li hanno messi, sì. In Germania mi ammanettarono nudo come un cane e in cella, da recluso, per un istante mi sentii anche io un gangster senza patria, dio, né famiglia. Un gangster, in carne e ossa, in un modesto albergo di Napoli, prima di partire per il Perù nel 1950, l’avevo incontrato veramente. Mi attraversò con lo sguardo passandomi accanto. Occhi freddi. Cattivi. Circondato dal rispetto degli sgherri che guardava altero, protetto dai suoi occhiali con la montatura in oro, in quella stanza era entrato Lucky Luciano. Se non mi posso chiamare Lucky Remotti, pensai, in Italia non torno.
Perché si era imbarcato per il Sudamerica?
Perché dopo qualche mestiere passeggero e dopo aver servito con relativo zelo il Comando Alleato e la Twa, l’unico impiego che sembravano disposti a darmi, un cartellino da timbrare alla Comit, somigliava a un sarcofago. La banca non mi avrebbe avuto e le mignotte non bastavano più.
Così raggiunse Lima.
In Sudamerica ho fatto qualunque mestiere. Il padroncino per una cooperativa di tassisti, l’impiegato di una compagnia aerea, il contabile di una fabbrica di plastiche. Dopo qualche anno tra i poveri di Lima e le luci abbaglianti del Waikiki, dopo aver frequentato una scuola di pittura e aver passato un mese e mezzo in un ospedale psichiatrico per una mattana al locale tennis club, feci ritorno in Italia. Non avevo un soldo e dopo sette anni in Perù indossavo gli abiti del pugile suonato. Il primo colloquio di lavoro, con il mio bel vestitino pulito e la mia laurea in tasca, lo feci con Furio Colombo al tempo addetto alla valutazione del personale per la Olivetti.
E come andò?
Colombo emanava efficienza, intelligenza e sicurezza. Mi fece decine di domande. Si informò sui libri che avevo letto, sulla politica sudamericana, sui miei interessi. Dopo il colloquio mi congedò con i suoi migliori auguri. Non era andata bene. Andai a ubriacarmi.
Negli anni 60 si divide tra Milano e la Germania.
Nel ’59 corsi a cercare un impiego a Milano. Lo trovai alla Lepetit. Di giorno giacca e cravatta in ufficio, alle prese con i prodotti farmaceutici, di sera a imbrattare le tele comprate dalla signora Crespi, seguendo l’ispirazione. Con gli amici del Bar Jamaica, i Dondero e i Pomodoro, ci ritrovavamo attovagliati dalle sorelle Pirovini. Da loro mangiavamo a prezzo fisso, ma non ci sentivamo accattoni come a Roma.
Perché?
A Milano l’arte aveva cittadinanza. Io avvertivo la netta sensazione di aver perso molto tempo. Fino ad allora avevo girato a vuoto. Ero un pittore e per scoprirlo, mi ero sottoposto a un viaggio transcontinentale e a sette anni di esilio neocoloniale in Perù. La Bohème, a Milano, era bivalente.
In che senso?
La spinta artistica attraversava universi che per estrazione sociale non avrebbero dovuto incontrarsi. Abbatteva gli steccati e sotto il tetto di un’unità tematica, riuniva una notevole fauna. Dipingere o scolpire ti permetteva di incontrare le persone più diverse. Potevi osservare il silenzio di Antonio Recalcati e chiederti come da tanta tristezza apparente e da tanta alienazione, riuscissero a nascere quadri così rabbiosi, dialogare con Arturo Schwarz, chiedergli la quotazione di un quadro e dopo una pausa infinita sentirsi rispondere: “È molto caro” o far visita allegra e irrituale a Lucio Fontana nel suo studio.
Fontana era già molto famoso.
A suo dire non aveva neanche il tempo di andare a pisciare. Me lo disse la prima volta che lo incontrai, così, prima ancora di salutarmi. Fontana era simpaticissimo, generoso, originale. Aiutava i giovani, solidarizzava, dava consigli e organizzava incontri di gruppo. Mi chiese cosa facessi di preciso e come avanzassi nella giungla di un mondo che lui ormai conosceva benissimo. “Vado piano” dissi “Però ho ancora il tempo per pisciare tranquillamente”. Ci abbracciammo. Non tutti erano come Fontana, comunque.
Incontri sgradevoli?
Emilio Vedova, ad esempio, era un despota. Lo aiutai in Germania, in vista di una grande mostra che avrebbe tenuto a Kassel. Con il cappello da rivoluzionario, la magrezza ascetica e i canti della resistenza spagnola sparati a tutto volume, Vedova dall’alto del suo metro e novanta ci trattava più o meno come schiavi.
Esempi?
A Ruggero Albanese chiedeva di lavargli la macchina, a me di pulire il pavimento e preparargli il caffè. Dava ordini militareschi e si aggirava nello studio che prima di lui era appartenuto allo scultore preferito da Hitler, Arno Breker. Noi avevamo il compito di lasciargli il legno di bianco per poi abbandonarlo solo, a urlare, bestemmiare e imprecare con i pennelli in mano e i contenitori con il colore sparsi a pioggia per la stanza. In quella furia c’era qualcosa di Pollock. Contro il legno armava un vero e proprio scontro fisico. Usava mazze e catene, era posseduto. Il legno rappresentava lo smarrimento dell’uomo nella società capitalistica e la missione di Vedova – provvedeva sempre a informarci il maestro prima di dar vita a una sessione – era rappresentare questa alienazione devastando le tavole. A lavoro finito, Vedova era annichilito. Lo ritrovavamo in posizione fetale, sudato, stravolto, a pronunciare il nome di Goya, felice di aver creato.
Lei ha visto uno strano mondo.
Quello dell’arte e dei mostri avidi, degli ‘intenditori’ che ne presidiavano i confini era anche un mondo di figli di mignotta. Bisognava difendersi. Imparare a leggere le regole. Reagire. L’istinto a rubare l’ho sempre avuto, ma quando mi accorsi che un avvocato romano, mesi dopo avermi comprato due tele era ancora insolvente, mi introdussi nel suo ufficio e mi ripresi il maltolto.
Lo minacciò?
Mi bastò appostarmi a ragionevole distanza dal portone e aspettare che uscisse. Accadde. Entrai con una scusa e in due minuti uscii con un voluminoso pacco sotto il braccio. Ogni cosa ha il suo tempo e io ne sono la dimostrazione. Gli avvenimenti, importanti della mia vita, i colpi di fortuna, gli incontri decisivi, dall’amore al cinema, sono arrivati tutte fuori tempo massimo.
Esordio con Marco Bellocchio.
Bellocchio mi vide a teatro e mi chiamò per Il Gabbiano. Con notevole faccia da culo, mi giocai la carta a film concluso. Ero tornato a Roma e sul giornale avevo letto una pagina di elogi sul nuovo fenomeno del cinema italiano, Nanni Moretti. Decisi di telefonargli: “Ho appena lavorato con Bellocchio, vorrei incontrarla”. Nanni preparava Ecce Bombo. “Certo, vieni pure”. Suonai alla porta del suo appartamento. Scese. Cercò invano una Sacher torte. Si affacciava sulla porta del bar, di più di un bar, metteva le mani dietro la schiena e poi diceva: “Avete la Sacher?”. Non ce l’aveva nessuno, così Moretti si accontentò di un gelato qualunque e ci accordammo perché venisse a vedermi a teatro. Mettevo in scena I Remotti sposi, a quel tempo.
E venne?
Sì, ma io non recitai. Non c’erano spettatori e così quella sera decisi di saltare. Fece un salto anche Moretti e per chiamarmi su un suo set fece passare qualche anno.
La chiamò per Sogni D’oro, Bianca e Palombella Rossa.
Sul set di Palombella Rossa, con la donna che sarebbe diventata la mia seconda moglie, Luisa Pistoia, una donna, mi lasci dire, con due palle gigantesche, concepii mia figlia Federica, a 65 anni. Un miracolo. Di Moretti non mi piacciono tante cose. Pensavo fosse dei nostri, della squadra di quelli uguali a me e invece con me non c’entra un cazzo, ma non posso dire di non essermi molto divertito con lui. Mi ha lasciato carta bianca. Tutto sommato gli sono grato.
E a chi altri è grato, Remotti?
A quelli che mi hanno sopportato e voluto bene. Una volta mi raccomandavo: “Molto sesso prima del decesso”, viaggiavo e vivevo solo per la sorca. Adesso abito in una città in cui se escludi il sole non è rimasto niente e non ho più consigli, ma solo desideri residui. Aiutano a vivere anche quelli. Mi passerebbe un bicchiere d’acqua?
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 16/11/2014