Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 16/11/2014, 16 novembre 2014
“GLI SCRITTORI SONO CREATURE INFEDELI LE CORNA PEGGIORI? QUELLE DI SICILIANO E ANDREA DE CARLO”
[Intervista a Gian Arturo Ferrari] –
Quando deve spiegare perché non racconterà la storia della peste, capitolo 33, Manzoni cita l’autore di un volumetto sull’epidemia “raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le descrizioni più celebri di pestilenze”. E il nostro – grandissimo, ironico, amatissimo scrittore – chiosa: “Da tante cose dipende la celebrità de’ libri!”. Appunto: siamo qui per capire più precisamente da quali cose e per “qui” s’intende l’attico nella Casa Rustici di Corso Sempione, realizzata negli Anni Trenta dagli architetti Terragni e Lingeri. Tralasciando la bellezza razionalista del tutto, non si può omettere di citare il ponte: un corridoio lunghissimo, tutto vetri e volumi, attualmente ordinati “fino alla lettera P”. Gian Arturo Ferrari ha il suo da fare per contenere la vivacità del cane India, mentre si passano in rassegna stanze e ancora stanze. Soprattutto scaffali. Naturalmente non è strano perché il padrone di casa ha trascorso l’intera vita tra i libri: lunga carriera, molto potere, incontri importanti. Poi: scontri all’arma bianca e amicizie fraterne. “L’editoria”, ha detto “è uno strano mestiere. Usa lo spirito per fare soldi, e i soldi per fare lo spirito”. Molto prima di Mondadori – perché sia chiaro: in questa storia la capitale è Segrate – bisogna spostarsi di qualche chilometro fino a Gallarate. “Mia madre era una maestra, mio padre un impiegato: entrambi di origini emiliane. Abitavano a Milano, ma nell’estate del ‘43, io ero in arrivo, cominciarono a bombardare la città. E i miei sfollarono a Gallarate, dove ho avuto la ventura di nascere e dove sono rimasto fino alla terza elementare. Maturando un odio inestinguibile per Gallarate e per quello che rappresentava”.
Che le hanno fatto a Gallarate?
Ho avuto lo straordinario privilegio di vedere la rivoluzione industriale con i miei occhi. Gallarate era una factory town: terribile. Una selva fitta di ciminiere, filature, tessiture e tintorie. Per lo più piccole imprese, dal che io ho tratto abbastanza precocemente l’idea che le piccole aziende, contrariamente a quanto si ritiene, sono molto peggio delle grandi. Era una vita scandita dall’urlo delle sirene. Una società durissima, feroce, gerarchica. In classe – tutti in blusa nera – eravamo sistemati in rigoroso ordine di censo. I figli di quelli che allora si chiamavano industriali e oggi si chiamano imprenditori stavano in prima fila, poi c’erano i figli dei professionisti, i figli degli impiegati tra cui il sottoscritto, dietro i figli degli operai. Gli ultimi erano i figli degli operai più poveri, quelli che avevano entrambi i genitori in fabbrica e che usufruivano della refezione: erano veramente dei parìa. I voti erano in proporzione. Così quando a metà delle elementari arrivai a Milano, m’innamorai della città perché era il contrario dell’ambiente da cui venivo: una società aperta, social democratica, fondata su un principio di reale uguaglianza, e meritocratica. Era una specie di New York, in piena ricostruzione. Avevo un maestro simpatico, bravissimo con noi bambini. Un uomo molto cattolico che venerava padre Pio e al quale Padre Pio aveva sconsigliato di prendere i voti. Era stato un ottimo consiglio, perché poi il maestro avrebbe poi fatto sei figli.
Dopo le elementari?
Tutto al Berchet: una scuola straordinaria. Ho scelto di fare Lettere antiche all’Università perché avevo avuto al liceo un eccezionale professore di Latino e greco, si chiamava Arturo Brambilla, era il migliore amico di Dino Buzzati. Tra l’altro ci fu un evento tragico, perché praticamente morì in classe nostra, a tre mesi dalla maturità. Ma già allora io volevo lavorare in editoria: tanto che prima di iscrivermi all’Università scrissi alla Mondadori chiedendo di essere assunto. Mi risposero con una gentile lettera - l’ho tenuta sempre appesa nel mio ufficio - in cui mi dicevano che in quel momento non avevano bisogno, ma magari in un futuro...
Profetici!
Per me l’editoria è stata davvero una vocazione, fin da quando ero ragazzo. Erano i tempi in cui il mito assoluto era l’Einaudi di Cesare Pavese: allora credevo persino che fosse un grande scrittore. Nessuno sapeva che l’anima dello Struzzo era Giulio. Mi piaceva l’idea di fare i libri: mi piaceva quel tanto di alchemico e poco chiaro che c’è nel fare i libri. Nessuno riesce a definire precisamente in cosa consiste. C’è un aspetto creativo, ricettivo, etico. Ma c’è anche l’aspetto commerciale. Il libro dell’editoria industriale è un ibrido: non è un distillato puro, è un cocktail.
Torniamo all’Università.
Mi sono laureato in Filologia classica, ma durante gli studi ero stato legato a un professore, un logico, che si chiama Ettore Casari e insegnava Filosofia della scienza a Pavia. Il caso vuole che lui fosse un consulente della Est, cioè l’Enciclopedia della scienza e della tecnica di Mondadori. Nel ‘70, dopo un paio di borse di studio post laurea, mi proposi a varie case editrici tra cui Mondadori. In quel momento la Est cercava un redattore, perché avevano avviato una nuova opera. E siccome nel mio curriculum citavo anche Casari, mi fecero un colloquio e mi presero. Facevo ancora il militare: dalle otto alle due stavo alla caserma di piazza Novelli qui a Milano, uscivo e in divisa andavo al lavoro. Nel ‘73 la mia più cara amica, Renata Colorni, andò a lavorare alla Boringhieri di Torino. Poco tempo dopo lei fece il mio nome per l’Universale Scientifica Boringhieri: mi assunsero. Solo che nel frattempo avevo fatto il concorso per andare a insegnare all’Università. Ero entrato in ruolo, e allora decisi di mollare il lavoro in casa editrice. Per fortuna Paolo Boringhieri, uomo molto saggio, mi disse: “Senta, nei giorni in cui non va all’Università, venga qui da noi”. Lavorai da loro, a mezzo tempo, per dieci anni.
Di nuovo a Segrate dopo.
Nell’84 tornai in Mondadori a fare l’editor di saggistica: mi piacque subito moltissimo. Mondadori - che è la casa editrice dove ho passato la maggior parte della mia vita - mi fece lo stesso effetto di Milano: grande, aperta, senza puzza sotto il naso. Il direttore generale allora era Leonardo Mondadori: sono stato davvero suo amico e anche sommamente irritato da lui. Me ne sono andato dalla Mondadori proprio per non stare più con lui: era invadente, interferiva in continuazione. Gli devo moltissimo però: mi fece fare il salto più importante della mia carriera, quando ero il più giovane degli editor. Ma nell’86 non ne potevo più, me ne andai a Rizzoli. Leonardo aveva degli incomprensibili innamoramenti...
...letterari?
Ma sì, oddio veramente aveva anche degli innamoramenti veri che complicavano molto il lavoro. Comunque Marco Polillo, che era già stato il mio capo, mi fece una proposta per raggiungerlo a Rizzoli. E dissi di sì. Poi feci retromarcia nell’88, quando arrivò De Benedetti. L’ingegnere ci chiamò, a me e Polillo, lui per fare il direttore generale e io il suo vice.
Com’è stata la guida di De Benedetti?
All’ingegnere piaceva l’idea di mostrare quanto la sua Mondadori fosse ardita. Con lui pubblicammo Rushdie, quando nessun editore europeo aveva voluto saperne di far uscire i Versetti satanici. Per pubblicarlo ricorsi direttamente a De Benedetti. A Berlusconi invece interessava il marketing, voleva allargare il perimetro dei lettori, cioè dei clienti. E lo fece!
Come avete vissuto, dentro, la guerra di Segrate?
Bè male. Sono anni - dall’88 al ‘91 - davvero turbolenti, con i giornali sempre addosso. Non è che le circostanze influissero sul lavoro, ma il clima era pesante. Comunque la vera trasformazione in Mondadori era avvenuta quando la famiglia aveva smesso di gestire l’azienda: cambia la natura, quando proprietà, management e direzione editoriale si separano.
Ingerenze di De Benedetti e Berlusconi?
Ingerenze non è la parola. Qualche piacere. Non linee politiche, non indirizzi. Cose che succedono ovunque. Mi ricordo, al tempo di De Benedetti e Corrado Passera, che c’era una poetessa comasca con dei guantini di pizzo e insomma bisognava a tutti i costi pubblicare i versi di questa signora. E così altri casi: iniziavano dei tira e molla lunghissimi. Stessa cosa con Berlusconi.
Parliamo dell’affaire Saramago, quando Einaudi censurò il Quaderno.
Ma non è stata censura! Abbiamo chiesto a Saramago di cambiare una parte in cui dava del “delinquente” a Berlusconi, e lui non era ancora stato mai condannato. Sono stato io personalmente a dire no: sosteneva una cosa obiettivamente falsa. Lui non ne volle sapere di cambiare e s’indignò: era anche un signore molto in là con l’età. Berlusconi, glielo assicuro, non sapeva nulla. E poi Mondadori è un ministero, è impossibile inserirsi nella catena di comando. Ci provava perfino Franco Tatò - un altro mio storico amico, poi nemico, ora di nuovo amico - e lui è stato il più grande manager che io abbia mai visto all’opera. Cercava di intervenire nel merito delle scelte editoriali, ma non ci riusciva. Comunque alla fine tutti vogliono una cosa: che l’azienda funzioni.
Due nomi di grandi autori che ha incontrato.
John le Carré: uno che si atteggiava come un aristocratico inglese, in realtà era il figlio di un truffatore. Ma che attore straordinario! E poi Philip Roth: una persona impressionante, un essere magnetico, una personalità fortissima, carisma puro.
E gli italiani?
Quando ho conosciuto Giorgio Bassani, scrittore che io ho amato moltissimo, era già nella fase finale della sua vita. Carlo Fruttero, che è stato prima di tutto un amico, mi ha insegnato la precisione. Lui aveva una visione rigorosa della letteratura, come del resto ce l’ha Pietro Citati, un’altra persona cui sono molto legato.
Calvino?
L’ho incontrato tardi. Uno scrittore straordinario, non si può dire nemmeno che abbia creato un genere: ha aperto degli orizzonti sconosciuti prima di lui. Nulla è paragonabile a Calvino, in tutta la letteratura italiana del dopoguerra. Mi spiego meglio: noi abbiamo avuto un grandissimo scrittore che è stato Fenoglio. Una questione privata è un libro meraviglioso, ma non è un unicum. Calvino invece ha introdotto un livello di realtà diverso. Di questo lui era consapevole: sapeva di essere un esplosivo viaggiante, sapeva di vedere cose che gli altri nemmeno immaginavano. Era, con le persone che non conosceva, di una timidezza inimmaginabile: iperdifeso. Balbettava, come del resto facevo io, e non poco, da ragazzo. Poi sono guarito parlando in pubblico.
A un certo punto arriva a Segrate uno sconosciuto ragazzino di Napoli: Roberto Saviano.
Girava intorno a Nuovi argomenti di Enzo Siciliano, un altro con cui ho avuto un rapporto molto tumultuoso, di grande affetto e violenti contrasti pubblici. Roberto aveva pubblicato pezzi di quello che sarebbe diventato Gomorra su Nazione indiana. Lo presero, ma io nemmeno lo sapevo. Quando il libro era in procinto di uscire Massimo Turchetta, che allora era il capo di Mondadori, me lo segnalò. All’epoca ero il direttore generale di tutte le case editrici del gruppo e chiaramente non potevo più leggere tutti i libri. Insomma mi danno sto libro e io - erano le vacanze di Pasqua - parto per un viaggio In Uzbekistan con mia moglie Elena e mia figlia Silvia. Ci spostavamo per sei ore al giorno, e lì lessi Gomorra. Ne rimasi impressionatissimo. Tanto che al ritorno dissi ai miei collaboratori : “Guardate che questo è un capolavoro”. Loro erano un po’ perplessi dal mio entusiasmo, anche perché l’avevano già stampato in 4500 misere copie. Pensavo che avrebbe potuto vendere 50mila copie, non i milioni che avremmo poi tirato. Non l’ho trovato io, ma il primo che ha detto “questo è un grande libro e bisogna farlo funzionare” sono stato io. E l’ho fatto: cioè dicevo a tutti, a tutti!, quelli che incontravo: “Leggete questo libro”. Poi il vero marketing a Gomorra l’ha fatto la ‘ndrangheta con la strage di Duisburg. Fu il vero lancio del libro.
Si è rumoreggiato sul fatto che il manoscritto sia stato molto cambiato dagli editor.
Ma va! È assolutamente falso: è tutta roba sua.
Capitolo premi letterari. Soprattutto lo Strega: come sono stati i suoi?
Mi glorio di aver trasformato in una scienza il pacchetto di voti.
Non c’è molto di cui gloriarsi!
Facevo il mestiere che dovevo fare. Lo Strega è il più importante riconoscimento letterario italiano e io credo che abbia sbagliato, nel corso delle sue 68 edizioni, poco e solo per omissione. Voglio dire che alcuni dei più importanti scrittori italiani - Calvino, ma anche Gadda, Pasolini - non hanno ricevuto il premio. A parte questo, secondo me ci ha quasi sempre azzeccato. La sua bellezza è che è fondato stabilmente sul tradimento, è quello che lo rende interessante. Premiare la virtù è molto meno intrigante. Io ho introdotto la fondamentale distinzione tra voti sicuri e voti non sicuri. Su alcuni ci si poteva giurare, su altri c’erano vaghe possibilità. Tutta la politica andava fatta sui primi, per consolidarli oltre ogni ragionevole dubbio.
Ma li mandava i suoi collaboratori a convincere le vecchie signore a votare per voi?
Non ci siamo capiti: delle vecchie signore mi occupavo personalmente, erano la mia specialità.
Perché lo Strega è fondato sul tradimento?
Perché è un’enclave, un insieme di votanti chiuso: ci conosciamo tutti molto bene. Se lei si presenta al premio, io non le direi mai “non la voto”. Il guaio è che lo direi a tutti gli altri concorrenti. Alla base ci sono menzogna e tradimento.
Ne ha persi?
Quando c’era Anna Maria Rimoaldi: era lei che decideva, più o meno verso la fine dell’anno. Io le ho voluto molto bene, era una donna simpatica, pratica, priva d’illusioni. Se andavamo d’accordo, generalmente vincevamo lo Strega. Se no, l’ultima parola ce l’aveva sempre lei.
L’impresa più ardita al Ninfeo?
Nell’89: Anna Maria appoggiava incondizionatamente Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso, che aveva il favore di tutti. Noi avevamo Pontiggia con La grande sera, che non è il suo libro più bello. Però secondo me meritava di vincere: e ce l’ho fatta.
La sconfitta più bruciante?
Tante. Luigi Malerba contro Maria Teresa Di Lascia nel 1995. La Rimoaldi era talmente inacidita nei confronti di Malerba che fece di tutto per non farlo vincere.
A proposito di tradimenti, in editoria sono frequenti. Gli autori svolazzano da un editore all’altro con disinvoltura. Le corna più dolorose?
Enzo Siciliano, di cui parlavamo prima. E poi Andrea De Carlo, che era un autore Mondadori: con lui a un certo punto dovevamo discutere il contratto per il nuovo libro. Era stata una trattativa faticosa, lunga, in cui alla fine avevamo ceduto noi. Avevamo un appuntamento per la firma, lui mi chiamò mezzora prima: “Gianni, non posso venire, devo andare dal dentista. Mi faccio vivo io”. Aveva già firmato con Rizzoli, l’ho capito all’istante. Ma gli autori son fatti così: non sono i cavalieri della tavola rotonda.
Il più grande abbaglio che ha preso?
Nel 2007 con Giochi sacri di Vikram Chandra. L’anno prima avevamo fatto un’asta all’ultimo sangue con Rizzoli per Il codice Da Vinci di Dan Brown. E l’avevamo preso. Quella volta Rizzoli s’impuntò e noi anche. Solo che loro furono più abili e ci lasciarono col cerino in mano. Lo pagammo una cifra incredibile. Cominciai a sudare freddo perché quell’anno alla Buchmesse di Francoforte il Paese ospite era proprio l’India e io cominciai a vedere che i giornali internazionali, facendo la rassegna dei principali scrittori indiani, non menzionavano mai Chandra. Lo pubblicammo e fu un disastro. Gran parte del mestiere dei libri poggia sull’assunto che tu hai un particolare naso per i gusti e gli umori dei lettori.
L’autore che si è lasciato scappare?
Tantissimi. Così su due piedi mi viene in mente Donato Carrisi, che ha davvero un grande successo. Io dissi no subito e sbagliai alla grande. Però questo è un errore di omissione. Peggio è, come è accaduto con Chandra , quando tu spendi una barca di soldi per un autore e il libro poi non vende.
Il mercato editoriale è in caduta libera.
Ormai cronicamente.
Nel mondo ci sono due elementi che s’incrociano: uno è la crisi economica, l’altro il passaggio al digitale, che è una rivoluzione radicale di cui per il momento non si vede l’esito. Non tanto sulla previsione, scontata, che i consumi si orienteranno prevalentemente sul digitale. La questione è se la forma libro cambierà. Il libro è una forma, concettuale, di organizzazione dello spazio mentale. Ed è stata costruita così dalla stampa e dall’editoria industriale. L’Italia sta un po’ peggio perché ha un mercato più ristretto.
Per la lingua?
Soprattutto per via di una tradizione che vede la lettura di libri associata ai buoni, agli ottimi, alle élite. Non è concepita come un fatto allargato. E qui l’eredità cattolica pesa: basta pensare che in Italia la Bibbia in volgare era all’indice. La ristrettezza del mercato - coloro che leggono sono pochi - lo rende particolarmente sensibile a qualunque scuotimento.
Non c’è un peggioramento nella qualità letteraria?
In generale, non in Italia, ci sono scrittori interessanti come Emanuel Carrère. Il problema vero secondo me è ancora altrove. La grande fortuna dell’editoria industriale è stata la letteratura d’intrattenimento: romanzi d’amore, gialli, noir, thriller. Tutto questo ampio settore di letteratura d’evasione viene eroso, per esempio, dalle serie televisive. Che sono fatte e scritte benissimo e sono molto lunghe. La serie televisiva riproduce il meccanismo della lettura, che è protratto nel tempo. La lettura non è qualcosa che si può risolvere in due ore, come un film al cinema. Io sono sempre stato progressista, credo nel progresso e nel miglioramento. Le teorie della decadenza non mi hanno mai convinto fin da quando ero giovane: allora si tuonava contro la crisi della borghesia e il “capitalismo maturo”, sottintendendo che fosse sul punto di cadere come una mela e di marcire. Mi sembra che non sia andata proprio così, no?
@silviatruzzi1
Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 16/11/2014