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 2014  novembre 16 Domenica calendario

STORIA DI Q. BIMBO LASCIATO IN CONGO COME FOSSE UN PACCO

Sono 5140 i kilometri che dividono Roma da Kinshasa, la capitale del Congo. Una distanza che Elena ha percorso in 12 ore di volo, quando aveva 29 anni, animata solo da un’irresistibile attrazione per l’Africa. Avrebbe dovuto farvi ritorno 8 anni più tardi, questa volta insieme a suo marito Valerio, per stringere tra le braccia suo figlio adottivo Q. che nel 2013 non aveva ancora 7 anni. Distanze geografiche che diventano cosmiche, se di mezzo c’è la burocrazia internazionale e l’inefficienza delle istituzioni italiane. Conserva ancora il biglietto aereo, Elena, e me lo mostra tirandolo fuori da un faldone rosso zeppo di documenti come fosse un cimelio. “Era il 28 settembre. Il cuore ci esplodeva di gioia.” – mi racconta con una voce rotta dalla commozione – “Era tutto pronto: visti, documenti, passaporti, il biglietto del ritorno fissato per il 30 ottobre. Dovevamo trascorrere un mese a Kinshasa tutti insieme, come previsto dalle regole del governo congolese. Volevamo partire ben equipaggiati”. Mi mostra gli ingombranti bagagli, stipati in un armadio. “Non li abbiamo mai disfatti da allora. È un rito scaramantico. Un gesto di buon auspicio. Tiene viva la speranza di poter finalmente conoscere nostro figlio”.
Cai, dopo gli errori solo confusione e silenzio
A interrompere bruscamente il sogno di Elena e Valerio, e di oltre cento coppie italiane, è stata una telefonata da parte dell’Ente che ha seguito fin dall’inizio la loro pratica, come previsto dalle procedure italiane, uno dei 66 autorizzati dalla Cai, l’organo governativo con il compito di garantire che le adozioni di bambini stranieri avvengano nel rispetto dei principi stabiliti dalla Convenzione de L’Aja del 1993 sulla tutela dei minori. “Tre giorni prima della partenza ci dicono che la Dgm, un organo del Ministero degli Interni congolese, aveva sospeso per un anno il rilascio dei permessi di uscita dei nostri bambini. Avevo le vertigini. Mi è sembrato che il cuore si fermasse. Ero esasperata, delusa. Ho chiesto spiegazioni. Si sono limitati a farfugliare che c’erano state gravi irregolarità nei percorsi adottivi di alcune coppie americane. L’Italia non c’entrava niente. Tutto si sarebbe risolto per il meglio. Da quel giorno il buio totale. Solo un’attesa cieca e senza parole”. Nel 2012 Elena e Valerio, hanno ottenuto l’abbinamento con Q. Nello stesso anno, una Sentenza del Tribunale Congolese concedeva l’adozione, ufficialmente riconosciuta dal governo italiano. Da allora Q. ha il cognome dei suoi genitori italiani. “Non è stato affatto facile. L’iter adottivo è stato un calvario, un’esperienza grottesca. Devi districarti tra procedure, controlli medici, legali, economici, colloquiconassistenti sociali, psicologi, attese, carte bollate, burocrazie giudiziarie e amministrative, visti consolari, costi stellari, molto superiori a quelli indicati dalla Cai. Pensi che è richiesto addirittura il consenso dei nonni”, mi spiega Elena con un sorriso amaro di chi ha imparato ad avere a che fare con l’assurdo. Dopo il blocco congolese, i genitori si sono riuniti in un comitato, per fare pressioni sulle istituzioni. “Io e Valerio volevamo adottare un bambino del Mali o del Burkina Faso. Come altre coppie, siamo stati incitati a scegliere il Congo, perché il numero dei bambini disponibili era maggiore e i tempi più rapidi. Nessuno ci ha informato degli enormi rischi che correvamo. Il Congo non ha stipulato nessun trattato bilaterale con l’Italia in materia di adozioni e non figura neppure tra i paesi firmatari della Convenzione de L’Aja. La Cai dovrebbe vigilare perché i suoi principi siano rispettati, ma come può farlo con un Paese che non li ha accettati? Non le sembra tutto assurdo? Questa è una delle tante responsabilità che imputo alle istituzioni italiane”.
Nei mesi successivi, molti hanno chiesto di partire per raggiungere i loro bambini. “Ma ci hanno detto che era una mossa sbagliata – incalza Elena – Che si trattava di un caso diplomatico. Intanto, agli inizi di novembre, 26 coppie della lista partono per portare a casa i loro bambini, ma restano bloccati a Kinshasa. Da chi sono stati autorizzati a partire è ancora un mistero. Altro che attività diplomatiche, le istituzioni italiane hanno prodotto solo caos. Hanno agito con superficialità, incompetenza e senza nessuna trasparenza”.
Dalla Kyenge a Renzi il pasticcio non si risolve
Stando alle dichiarazioni ufficiali dell’allora ministro e Presidente della Cai, Cécile Kyenge, la partenza era stata il frutto della sua visita diplomatica in Congo e degli accordi ottenuti. Accordi smentiti dai fatti, oltre che dai successivi comunicati della stessa ministra che intanto, passava la palla alla Farnesina. Le ombre si addensano sempre di più. Il 5 dicembre 2013, due coppie seguite dal Naa rientrano in Italia con i bambini. La notizia trapela solo a cose fatte. “Una decisione - aveva spiegato in una dichiarazione ufficiale la presidente del Naa, Ingrid Maccanti - presa in accordo con la Cai, per evitare che si generasse troppo clamore. E questa la chiamano trasparenza! È evidente che il caso è fuori controllo e che ogni Ente usa tutti i mezzi a sua disposizione per agire”, riprende Elena.
“Le famiglie che nel frattempo non si sono mai mosse dall’Italia sono state abbandonate da tutti. Non è più trapelata una sola informazione. Il sito della Cai era, e resta, in aggiornamento perenne”. Passano i mesi e cambiano le facce e i nomi della politica italiana. S’insedia il giovane, dinamico, ‘governo dei fatti e non delle parole’. “Con il governo Renzi le cose sono peggiorate. Al danno si è aggiunta la beffa. Renzi ha usato la nostra sofferenza per farsi propaganda, presentandosi come l’uomo che cambia le cose. Dall’aereo atterrato a Ciampino lo scorso 28 maggio, sono scesi 31 bambini e Q., come molti altri, non era nella lista. È stato uno spettacolo mediatico ridicolo e sadico con una testimonial d’eccezione, la ministra Boschi che, fino a prova contraria, si occupa di Riforme, ma forse era solo la più telegenica della squadra di governo. Il Presidente del Consiglio ha parlato di un intervento umanitario, che però ha riguardato solo alcuni. Quali sono stati i criteri della selezione? Di quale lieto fine si riempie la bocca, Renzi?”.
È davvero difficile frenare le parole di Elena, il suo racconto diventa sempre più fitto. “Da maggio sono passati altri sei mesi. A settembre, con una circolare, la Cai ci ha addirittura intimato di ‘mantenere discrezione e riservatezza’. Vogliono anche tapparci la bocca! Ho contattato la Rai. Mi hanno risposto che non sono interessati a questa vicenda. Recentemente ci siamo attivati per manifestare, minacciando di creare disordini. Solo così abbiamo ottenuto una convocazione da parte della Cai. Vedremo cosa hanno da dirci”.
Disegni e giocattoli La vita continua
Mentre parla, Elena tira fuori, questa volta da un faldone più piccolo e verde, l’ultimo disegno che ha ricevuto da Q. al quale invia regolarmente lettere, vestiti e giocattoli. “Cerco di fargli sentire che ci siamo, che lo amiamo. Ci occupiamo delle cure mediche, della sua istruzione. Il pensiero che stia crescendo lontano da noi mi uccide.
Nei suoi disegni, Q. ci ritrae sempre insieme, mano nella mano. E in cielo, sul tetto di una casa, un aereo. Gli operatori dell’istituto mi dicono che si addormenta con le nostre foto sul petto e intanto, aspetta che l’aereo arrivi anche per lui ”. Elena resta ferma, con le mani appoggiate ai suoi due faldoni. “Ho deciso di dividere la burocrazia dai sentimenti - Mi spiega - Da una parte cartastraccia, parole miserabili che non mi hanno ancora permesso di abbracciare mio figlio – dice – dall’altra le sue foto, le letterine, tutto l’amore di questi lunghi anni che Renzi, la Boschi, dovrebbero innanzitutto imparare a rispettare. Pensi - aggiunge con un filo di voce - Roma/Kinshasa sono solo 12 ore di volo”.
Graziella Durante, il Fatto Quotidiano 16/11/2014