Carlo Verdelli, la Repubblica 16/11/2014, 16 novembre 2014
IL MATTEO DI DESTRA CHE PICCHIA DURO SULLE PAURE D’ITALIA “LA CAPITALE MI AMA”
[Matteo Salvini] –
Dove c’è casino, lui c’è. Appena gli sarà possibile, ha promesso, varcherà il Po e andrà a Tor Sapienza, periferia romana incendiata dagli scontri tra abitanti esasperati e residenti di un centro per rifugiati. Qualche giorno fa, ha provato a entrare in un campo rom di Bologna dopo che una consigliera leghista era stata schiaffeggiata. L’ha fermato prima, con bellicoso disprezzo, un gruppo di antagonisti.
Al netto delle botte che ha rischiato in Emilia, del parabrezza sfasciato, della paura e della pallidissima solidarietà ricevuta dai colleghi della politica “per l’infame agguato dei centri sociali”, Matteo Salvini ha comunque ottenuto un saldo attivo. Dopo aver postato su Facebook la foto della sua macchina ammaccata, con l’amichevole scritta “noi stiamo bene, bastardi”, i suoi like sono aumentati di 25 mila in tre giorni. Sembrerà una cretinata ma per lui non lo è affatto. Quando è diventato segretario della Lega, 11 mesi fa, Salvini stava a 100 mila fan. Adesso ne conta 454.409 contro i 750 mila di Renzi: lui con un partito che ha preso il 6 per cento alle Europee 2014 (veniva
dal 4 delle Politiche 2013), l’altro il 40. Lui, il Matteo di destra, erede di una Lega stramazzata dagli scandali e dal tragico tramonto di Bossi. L’altro, il Matteo di sinistra, travolgente vincitore di primarie e più giovane presidente del Consiglio della storia repubblicana.
Quarantuno anni il primo, 39 il secondo. La somma fa 80, due più di Berlusconi, e con Grillo che va per i 67. La terza Repubblica, quale che sarà, avrà parecchio a che fare con l’anagrafe, almeno a stare ai sondaggi. I due Mattei sono in ascesa libera, ma quella che più colpisce è la crescita a balzi impetuosi del Salvini con felpa proletaria, orecchino al lobo destro, barba rada e occhio scuro: nell’indice di popolarità parrebbe aver raggiunto il 30 per cento, a distanza ancora siderale da Renzi ma già sopra Grillo e l’ex Cavaliere. La molla di questa impennata? Picchiare a tamburo sulle paure di un’Italia angosciata: no all’euro, no ai clandestini, no alle Fornero e ai “Job Act”, no ai diritti dei gay o a quelli degli immigrati in generale. Un nuovo fronte nazionale, già alleato con la Francia a chiusura stagna di Marine Le Pen e in avvicinamento rapido con l’altrettanto autistica Russia di Putin.
Messi amabilmente in soffitta i totem che hanno fatto prima grande e poi marginale la Lega (secessione, celodurismo, camicie verdi, ampolle e spadoni), Salvini ha rapidamente traslocato il suo movimento dalla pianura immaginaria della Padania a quella ben più vasta e politicamente redditizia della rabbia e dell’impotenza di un intero Paese. «Lo sa che Roma è la seconda città per amicizia che ho su Facebook? ». Con buona pace del polveroso “Roma ladrona”, la capitale nel mirino ora è diventata Bruxelles. L’opa ostile è quella sul regno che fu di Forza Italia e An. E al posto della guardia padana, un presidio militare dei social network.
Sì, ma i voti? Prossima verifica, il 23 novembre per le regionali in Emilia Romagna. Salvini la sta battendo città per città, stanco ma instancabile, attirandosi odi e uova per poi rilanciarli come boomerang con twitter o selfie. «Partiamo dal 5%, conto di raddoppiare. In realtà, spero di più». Tipo? «Tipo dar fastidio al Pd». Renzi le ha mandato un sms dopo “l’infame agguato” di Bologna? «Niente. Di persona l’ho visto una volta sola. Siamo molto diversi, anche di carattere. Lui è più spregiudicato, certamente più cattivo, visto come ha fatto tabula rasa di tutti quelli che c’erano prima. A me non viene facile, sono più comunitario. Comunque, il vero nemico di Renzi non sono io né Grillo né qualcun altro: è Renzi stesso».
Matteo Maria Salvini, un metro e 80 per 85 chili, milanese di zona Bande Nere, famiglia piccolo borghese, diplomato con 48 su 60 al liceo classico Manzoni, non laureato in Storia medievale alla Statale («mi mancavano 5 esami, ma ero francamente troppo fuoricorso») diventa bossiano a 17 anni grazie a un manifesto, “Sono lombardo, voto lombardo”, che tiene ancora nel suo ufficio, insieme a un variegato Pantheon di eroi tra cui Franco Baresi, capitano storico del Milan. «Sì, erano i primi anni Novanta, la Lega era stata appena fondata. A scuola comandava la sinistra. Mi vennero a prendere in classe, i compagni, e giù calci in culo perché facevo attacchinaggio per il Carroccio». Molta militanza, rapida carriera: consigliere comunale (il più giovane a Milano), deputato, europarlamentare, e dal dicembre 2013 segretario federale, sia pure di un partito a brandelli. Tutto troppo in fretta? «Guardi che in Europa si fa il ministro a 28 anni».
Che la Lega, dopo l’ictus al grande capo e le conseguenti prodezze del cerchio magico (dal Trota a Rosi Mauro, da Belsito a Reguzzoni), fosse sull’orlo del baratro, lo dimostra la sede storica di via Bellerio, zona Affori, estremo nord di Milano. Un casermone su due piani di un brutto giallo, che in origine ospitava una fabbrica di medicine, lungo 80 passi e largo 130. Nei tempi belli, quando le falangi padane arrivarono a contare 180 parlamentari (1994, primo governo Berlusconi), qui si faceva, o meglio si provava a disfare, l’Italia. La colta trama federalista di Miglio irrorava e indirizzava il vigore simil-celtico di militanti pronti a tutto. Le stanze, ciascuna con la sua targhetta, ospitavano deputati e senatori in gran frotta. Garrivano le bandiere col sole delle Alpi, si moltiplicavano le iniziative: Telepadania, Radiopadania, persino un asilo nido, “Orsetti padani”, ora passato a gestione privata e con solo 5 bambini a balia. Uno svuotamento che dal piccolo, anzi dai piccoli, si è esteso a macchia, ovunque. Via Bellerio somiglia a quelle caserme dove il battaglione se ne è andato ed è rimasta solo la guardia, 30 persone in un posto che ne conterrebbe 300, interi corridoi chiusi, l’ufficio di Bossi che resiste al secondo piano e dove lui passa ogni lunedì e venerdì, lasciando nell’aria ferma la scia lunga del sigaro. A fine mese se ne andrà per sempre anche la Padania, l’ultimo giornale di partito che era rimasto: il direttore Aurora Lussana, 38 anni, figlia di macellai bergamaschi, chiude le smilze edizioni rimanenti con fiera tristezza padana.
Lei, come gli altri reduci rimasti nel fortino semi deserto, hanno però due antidoti alla depressione. Il primo è che Bossi resterà Bossi in eterno, che Gemonio è come Betlemme e che «solo un figlio di cane può non essergli riconoscente ». Il secondo è che Salvini ha una marcia in più di tutti e con lui si torna in alto. Con lui, o con Flavio Tosi, lo scalpitante sindaco di Verona? C’era un patto e Salvini dovrebbe ricordarselo. O no? «Nessun patto, giusto una chiacchierata: Maroni alla Lombardia, io segretario, Tosi candidato premier. Comunque, sono dispostissimo alle primarie della Lega. In generale, direi che Tosi è tra le persone più capaci che abbiamo, conto che capisca la strada che stiamo prendendo». E qual è? «La Lega ha salde radici, il verde lombardo ce l’ho dentro anch’io, solo che bisogna rivolgersi anche ad altri colori. Sono andato in Scozia e Catalogna per i referendum indipendentisti, ci mancherebbe, ma l’emergenza adesso è il lavoro, a Milano come a Taranto. Lavoro e immigrazione incontrollata ». Fuori tutti? «No: dentro alcuni». E’ cattolico? «Sì, se posso vado in Chiesa, i miei due figli accendono le candeline». Se la sua bimba più piccola, da grande, le portasse a conoscere il fidanzato e fosse Sidney Poitier, un nero? «Felice lei, felice io. Dire stop all’invasione mica significa essere razzisti». Beh, se non altro significa che magari si prenderà un po’ di destra, ma il centro pare difficile. «Guardi che i cosiddetti moderati sono sempre meno moderati. Dal 2008, su 144 mila imprese piccole o medie, ne sono sparite 31 mila, una su 5. Proporremo un’aliquota fiscale unica, 15% uguale per tutti. Poi vediamo come reagisce il centro tartassato». C’è tempo per verificarlo: il premier Renzi ha parlato di elezioni nel 2018. «Allora vuol dire che si vota l’anno prossimo». E la Lega che fa?
Matteo Salvini, fin qui sbrigativo, rallenta un po’. «Al nord abbiamo 1300 sezioni e 300 sindaci, e quindi ci presenteremo come Lega Nord. Sul resto d’Italia ci stiamo ragionando». Anticipi un twitter. «Lega dei popoli. Con Salvini nel marchio. Ma è solo un’ipotesi». E per il Quirinale, quando Napolitano lascerà? «Giuro, non saprei». Impossibile. «Ci penso un po’ e poi le mando un sms. Guardi», e mi gira il tablet che ha davanti. «Da quando parliamo su Facebook solo aumentato di 834 followers. In mezz’ora, non male».
Un giorno dopo, alle 23.11, arriva un sms: «Zero idee per il quirinale, sorry… Matteo».
Carlo Verdelli, la Repubblica 16/11/2014