Antonio Gnoli, la Repubblica 16/11/2014, 16 novembre 2014
TOPAZIA ALLIATA
[Intervista] –
Lo scorso settembre Topazia Alliata ha compiuto 101 anni. Vive a Roma Topazia, il cui nome le fu dato dal padre, Enrico Alliata, duca di Salaparuta. Di professione sognatore. Vado a trovarla dopo aver letto Love Holidays ( pubblicato ora da Rizzoli). Si tratta dei quaderni d’amore, le lettere, i diari che Fosco Maraini e Topazia Alliata si sono scambiati, dopo essersi conosciuti: «Fu una storia intensa, arricchita dai miei disegni e dalle sue foto, ristretta qui agli anni 1934-35. Poco prima che ci sposassimo. Mi riporta a un tempo remoto, da cui affiora una gioia indicibile, quasi sfacciata». È intensa Topazia mentre chiude gli occhi e si morde il labbro. Ha guardato il secolo in faccia, ne ha visto gli aspetti migliori e peggiori.
Lo ha sofferto e amato. Provo per lei anzitutto un moto di ammirazione biologica. È ancora bella: il naso affilato, gli occhi chiari, l’ovale scavato senza che gli anni l’abbiano compromesso. Siede su una poltrona. Chiede solo che le parli ad alta voce. È ironica: «Per sincerarsi che fossi ancora viva sono venuti recentemente due impiegati del comune. Era per il rinnovo della carta d’identità. “Cosa scriviamo?” hanno chiesto tra l’incerto e il meravigliato. Scrivete quello che volete. “Allora scriviamo: capelli brizzolati e occhi verdi”. Ho riso, dentro di me. Poi ho pensato: la vecchiaia è un luogo senza etichette. Ho ancora bisogno di un’identità? Il mondo vive di leggi, spesso inutili, e di avvilenti burocrazie. Quei due impiegati erano una specie di avamposto kafkiano. Io il loro enigma».
Non la soluzione?
«In che senso avrei potuto esserlo?».
Una centenaria gode di uno status particolare. Già solo la presenza fisica è una risposta ai nostri assilli e angosce.
«Spero di non diventare un fenomeno da baraccone. L’altro giorno mi ha telefonato Gillo Dorfles, che di anni ne ha compiuti 104. Era un po’ che non lo sentivo. Topazia, mi ha detto, la prima volta che vengo a Roma ti passo a trovare. Ho pensato che c’era qualcosa di comico in questa sfida alle leggi della natura».
È sempre così caustica?
«No, di solito appaio più mansueta. Ma, ancora adesso, ho il bisogno di sentirmi libera. Non le dico quando ero giovane: la libertà era la scossa elettrica che accendeva la mia città interiore».
A proposito, dove è nata?
«A Palermo. Anche se le origini degli Alliata sono pisane. Nel Quattrocento alcune famiglie furono esiliate. La mia, come quella dei Vanni, approdò in Sicilia. Siamo stati ricchi. Ma eravamo soprattutto aristocratici. Esserlo da noi implicava uno status diverso».
Cioè?
«Come una forma di disincanto che nasceva dal bisogno di frequentare le culture più diverse. Fu una delle ragioni che mi spinse ad interessarmi di Fosco».
Fosco Maraini è stato un grande orientalista, un viaggiatore curioso, un bravissimo scrittore. Come vi siete conosciuti?
«Il padre di Fosco era uno scultore che contribuì a fondare la Biennale di Venezia. I Maraini vivevano a Firenze e fu lì che il vecchio Antonio mi invitò dopo aver visto certi miei lavori di pittura».
Lei dipingeva?
«Sì, ero iscritta all’Accademia delle belle arti di Palermo. Con me, al corso, c’era anche un giovane: Renato Guttuso. Presi a dipingere e ad essere apprezzata. Firenze era un modo per allargare i contatti. Fu lì che per la prima volta vidi Fosco. Era bello, originale, privo di qualsivoglia formalità. Al limite dello sciatto per il modo in cui vestiva».
Che anno era?
«Mi pare fosse il 1932. Fosco aveva conseguito la laurea in etnologia e come premio il padre gli regalò una motocicletta Bmw. Con quel mezzo affrontò un durissimo viaggio in Sicilia. Venne a dichiararsi».
Come reagirono i vostri genitori?
«Il padre di Fosco era profondamente contrario. Aveva altri progetti per il figlio. La madre, Yui, una donna irlandese e polacca, si schierò dalla nostra parte. Quanto a mio padre ci fu immediatamente un’intesa perfetta con Fosco. Il giorno in cui si conobbero papà aveva tra le mani i discorsi del Budda. Che buffo, disse Fosco, ho appena finito di leggerli anch’io. Si piacquero perché in fondo erano due nature senza conformismi».
Suo padre di cosa si occupava?
«I suoi veri interessi erano per la teosofia. Aveva letto con entusiasmo Rudolf Steiner. Ricordo che da bambina a Palermo mi faceva partecipare alle sedute di un circolo steineriano. Amava Tolstoj. E il mondo contadino. Era vegetariano, pacifista. Infine mise a punto delle tecniche innovative nella preparazione del vino. Il Duca di Salaparuta fu all’origine delle fortune del “Corvo”».
E lei sposa Fosco.
«Ci unimmo nel 1935 e per un certo periodo andammo a vivere a Fiesole. Furono anni di ristrettezze e di contrasti con il padre. In seguito Fosco vinse una borsa di studio che richiedeva un lungo soggiorno in Giappone. Decisi di seguirlo. Partimmo con la piccola Dacia per il nord del Giappone. Non sapevamo che quel viaggio avrebbe cambiato le nostre vite».
Esattamente cosa vi andava a fare?
«Ebbe l’incarico di studiare una popolazione del nord del Giappone, gli Ainu. Era la fine 1938. Passammo il primo periodo a Hokkaido. Furono anni intensi. Belli. A contatto con una cultura raffinatissima. Su ogni cosa, notavo, c’era il sigillo della cura e dell’attenzione».
Come reagiste all’entrata in guerra del Giappone?
«La guerra si svolgeva sul Pacifico. Non avevamo molta consapevolezza. Lì a Nord, non lontano da Sapporo, la nostra vita scorreva lenta e prevedibile. Ricordo inverni freddissimi. La sera ci si riuniva con studenti e giovani intellettuali giapponesi. Non immaginavamo ciò che di lì a pochi anni sarebbe accaduto».
Cosa esattamente?
«Dopo l’8 settembre del 1943 il governo giapponese chiese a me e a mio marito un giuramento di fedeltà alla Repubblica di Salò. Rifiutammo. Ci trattarono come spie al servizio del nemico. Fummo arrestati. Si aprì un incubo al quale non eravamo preparati».
Finiste in un campo di concentramento?
«Ci misero in un edificio alla periferia di Nagoya. Eravamo un piccolo gruppo formato da una quindicina di italiani. La nostra famiglia, nel frattempo, era cresciuta. Tra il 1939 e il 1941 erano nate Yuki e Toni. Sentivo lievitare la disperazione. Come le avremmo accudite, nutrite, protette? Ci tolsero progressivamente il cibo. Ci ridussero alla fame. A volte erano i contadini a darci qualcosa da mangiare. Nelle torture che i poliziotti del campo avevano ideato c’era quella che non potevamo poggiare la schiena contro la spalliera, né contro il muro. Ci urlavano, ci colpivano con i loro bastoni. Mai ho visto tanto odio e ottusità».
Cosa si aspettava dal futuro?
«Niente. Guardavo all’alba il sole che si alzava e non sapevo se lo avrei visto risorgere. Caddi in depressione. Mi ammalai. Un giorno qualcuno riuscì a farci arrivare una ciambella di pane. I poliziotti se ne accorsero e la sequestrarono. Poi, per sfregio, ce la restituirono imbrattata di escrementi. Ridevano. Fosco la pulì e la rimise al forno. Dividemmo quel pane come fosse sacro. Eravamo giunti allo stremo delle forze».
Cosa accadde?
«Nell’esasperazione Fosco fece l’unica cosa che avrebbe potuto rompere quella catena di odio. Si tagliò un dito, il mignolo. Era un gesto inaudito. I giapponesi lo chiamano yubikiri. Che può voler dire sia una promessa di intesa, di amicizia tra due persone che di sfida. Quell’amputazione, molto drammatica, fu accolta come una prova di grande coraggio. Alla fine ci trattarono un po’ meglio».
Quando terminò l’incubo?
«Con la capitolazione del Giappone. Fummo liberati e portati a Tokyo nel settembre del 1945».
Sapevate nulla della bomba di Hiroshima?
«Noi eravamo a un centinaio di chilometri quando fu fatta esplodere nell’agosto. Venimmo a sapere qualcosa grazie a un gruppo di olandesi, prigionieri di un campo non lontano dal nostro. Ma niente era verificabile. Non quantomeno la sua devastante potenza distruttrice».
E tornaste in Italia?
«Tornammo sì, nel settembre del 1946. Ci imbarcammo su una nave che ci avrebbe portato in Francia e da lì – con mezzi di fortuna – arrivammo a Palermo. Non fu per niente facile».
Si annunciavano i drammi del dopoguerra.
«Già. Provai a rimettere in piedi l’azienda vinicola. Quell’anno mio padre morì. Tutto cominciò ad andare storto. Ci si mise anche la crisi con Fosco. Lui voleva tornare in Giappone. Io ne avevo abbastanza. Alla fine ci separammo. Vendetti per poco l’azienda, pagai i debiti, e mi trasferii a Roma».
E le sue inclinazioni artistiche?
«Avevo chiuso con la pittura attiva. Ma c’erano pur sempre i ricordi e gli amici. Tra questi Guttuso».
Che relazione fu la vostra?
«Le ho detto che ci conoscemmo all’accademia. Renato si innamorò di me. Mi fece diversi ritratti. Il primo quando avevo 18 anni. Lui era più grande di un anno. Ci scambiammo un solo bacio. Compresi che non lo desideravo come amante. Da quel momento fu solo una bella amicizia».
Perché? In fondo era bello, affascinante, talentuoso. E con un gran futuro davanti.
«Tutto vero. Ma mi innamorai di un altro. E poi Renato era già allora spiccatamente ideologico. Rapido nell’impadronirsi delle situazioni».
Cosa intende?
«Le racconto un episodio. Nel 1931 insieme a mia madre Sonia facemmo un lungo viaggio a Londra e a Parigi. Per una buona signorina educata all’internazionalità erano tappe obbligatorie. A Parigi fui presentata a Paul Guillaume, gallerista e collezionista insigne. Fu lui a farmi conoscere Picasso, Modigliani, Picabia. Alla fine mi regalò delle fotografie dei dipinti di Picasso. Tornata a Palermo le feci vedere a Guttuso. Lessi nel suo volto un misto di ammirazione e smarrimento ».
Non lo conosceva?
«No, assolutamente. Ma la cosa fantastica fu che pochi giorni dopo scrisse un articolo per L’Ora in cui sembrava che i due fossero vecchi amici. Potenza della suggestione!».
Torniamo al suo trasferimento a Roma. Quando avvenne?
«Alla metà degli anni Cinquanta. Dal punto di vista artistico era una città incredibile. Niente da invidiare alle altre grandi capitali. Decisi perciò di aprire una galleria. Potei farlo nel 1959. Avevo frequentato artisti americani, goduto dei rapporti con Palma Bucarelli e Peggy Guggenheim. Mi ero appassionata alle vicende dell’astrattismo. Ebbi forse il merito di organizzare le prime mostre nella capitale di Piero Manzoni, Jan Kounellis, Pino Pascali. Per lungo tempo il mio punto di riferimento divenne Corrado Cagli. Fu un artista notevole per il quale, tra l’altro, il padre di Fosco – onesto fascista – rischiò il posto di segretario generale della Biennale di Venezia. Cagli era ebreo e alle autorità non era piaciuto che esponesse alla Biennale».
Lo aveva chiamato Maraini?
«Sì, il padre di Fosco. Alla fine fu risoluto. Disse: per me conta solo che è un artista e sono pronto a dimettermi. Ad ogni modo, Cagli - che dopo le leggi razziali si rifugiò negli Stati Uniti e combatté con l’esercito americano - mi consigliò e aiutò ad allestire la galleria. Mi fece conoscere Rudolf Arnheim le cui competenze nel cinema e nella psicologia mi aiutarono a comprendere meglio la percezione che si ha di un dipinto».
In tutto questo non capisco perché ha smesso di dipingere. Perché ha smesso di fare la cosa che più le piaceva?
«Ho qualche difficoltà a darle una risposta adeguata. È probabile che sentissi finita una stagione creativa. Ho cercato di motivarlo con la nascita dei figli, le vicende del Giappone, la povertà che ci assalì nel dopoguerra. Ma credo che alla fine interrompere equivalga al rumore di un click. A una luce che si spegne. Non sai perché accade. Ma accade. Fosco voleva che riprendessi a dipingere. Sei brava, diceva. E ripensavo ai ritratti che gli avevo fatto. Quasi sempre con sullo sfondo le montagne. Che lui amava, di un amore che mi trasmise. Come non ho mai smesso di amare la pittura. Ma il destino ha voluto altrimenti. Mi consola vedere ora questi miei disegni in questo nuovo libro. Le piacciono?».
Sì, sono belli, ironici, accattivanti.
«La ringrazio. Sono belle anche le foto di Fosco. Straordinario anche come fotografo. Era tutto sepolto nella mia memoria da più di 70 anni. È strano».
Cosa?
«Rivedersi, ripensarsi, ritrovarsi. La mia invidiabile memoria. La sola cosa che ho dimenticato è il dolore».
Antonio Gnoli, la Repubblica 16/11/2014