Arianna Finos, la Repubblica 16/11/2014, 16 novembre 2014
CHRISTOPHER NOLAN
PARIGI
Christopher Nolan si imbattè nel genio di Stanley Kubrick a sette anni. «Mio padre mi portò a Leicester Square a vedere 2-001: Odissea nello spazio . Non ricordo nulla di quel giorno, né di quel che mi disse papà. Ma sento ancora l’emozione del ragazzino che scopre la potenza del cinema. Certe immagini grandiose del viaggio finale, la scena in cui il computer Hal legge le labbra degli astronauti, mi sono rimaste dentro. Ecco, da regista mi piacerebbe restituire al pubblico quella stessa eccitazione, il senso di magia, di grandezza che solo il grande schermo può regalare».
L’appuntamento è all’Hotel Le Bristol, vicino agli Champs Élysées. Davanti all’albergo delle celebrità, bloccata dietro le transenne, una piccola folla di ragazzi. Non sono cinefili ma fan in attesa di un’altra ospite famosa, Lady Gaga. In questa stessa saletta, due anni fa, l’incontro con Nolan fu cancellato all’ultimo momento, sull’onda dell’orrore della strage nel cinema di Denver in cui si proiettava il suo Il Cavaliere oscuro. Il ritorno. Era l’ultima traversia di una trilogia, quella di Batman, tanto geniale quando circondata da un inquietante alone oscuro anche fuori dallo schermo. La morte, nel 2008, di Heath Ledger, al cui Joker sarebbe stato tributato un Oscar postumo. Vari incidenti sul set e, nel 2012, la sparatoria in sala. Ultimata la resurrezione cinematografica dell’Uomo pipistrello, Nolan è uscito dal girone infernale di Gotham per rivedere le stelle.
E si è lanciato nella sua odissea spaziale e sentimentale. Il suo Interstellar è un kolossal basato sulle più moderne teorie scientifiche, ma anche il suo film più romantico: «Il cuore della storia è la relazione tra un padre e un figlio, il diverso modo in cui questo rapporto può essere interpretato o messo alla prova. E anche per questo il film è pieno di amore e di speranza».
Figlio di un pubblicitario inglese e di un’assistente di volo americana (ha entrambe le cittadinanze) Christopher Jonathan James Nolan, quarantaquattro anni, ha passato l’infanzia tra Londra e Chicago. A sette anni prese in mano la telecamera: «Ho iniziato a girare film con la Super8 di mio padre». Il fratello sceneggiatore, Jonah, di sei anni più giovane, annovera tra i primi ricordi quello di Chris che gira filmini con i pupazzetti in viaggio verso lo Spazio, in una casalinga stop motion. Ciuffo biondo ben pettinato, abiti eleganti da ufficio, una compostezza che è retaggio degli anni nel collegio a indirizzo militare. A contrastare la freddezza dell’aspetto, la timidezza con cui si racconta. Spiega così le giacche che indossa sul set e il suo non vestire casual come tanti suoi colleghi: «Sono abituato alle uniformi dai tempi della scuola. E tendo a indossare lo stesso tipo di vestiti per non perdere tempo a sceglierli. E poi le tasche della giacca possono rivelarsi molto utili per infilarvi oggetti inutili».
Nolan è abituato ai set fai-da-te. Ha iniziato a fare sul serio all’università, girando cortometraggi autofinanziati. Fu al corso di letteratura inglese che conobbe Emma Thomas, oggi sua moglie, madre dei loro quattro figli e sua produttrice. Nel 1989 il primo cortometraggio, Tarantella: «Non so nemmeno se esista ancora, da qualche parte» ride. «Era una serie di immagini messe l’una accanto all’altra a contrasto, per la pura gioia di farlo. Poi subito dopo è nata l’ambizione, la necessità di sostenere le immagini con una narrazione». Seguono due corti, Larceny e il kafkiano Doodlebug in cui un uomo insegue un insetto in una stanza per poi scoprire che si tratta di una copia di se stesso e subire la stessa sorte. Suscitano apprezzamenti, ma Nolan deve comunque pagarsi il debutto nel lungometraggio. « The Following l’abbiamo girato con un gruppo di amici nei fine settimana, una grande fatica». Il film, in bianco e nero, è un rompicapo noir che contiene già gli elementi tipici del cinema di Nolan. Gli scarti temporali, i colpi di scena, la paranoia dei personaggi. Della sua formazione da autodidatta spiega che «il vantaggio è stato il confronto fin da subito con ogni aspetto pratico e tecnico del cinema. Ho imparato a registrare il suono, a montare, a usare la camera. E questo mi ha dato una conoscenza d’insieme a la capacità di capire le qualità tecniche dei collaboratori». The Following arrivò in sala e Nolan ebbe così i soldi per finanziare Memento: «Un budget da quattro milioni e mezzo di dollari, un set vero: lì la mia vita è cambiata». Il film, infatti, gli valse l’attenzione mondiale e una candidatura all’Oscar per la sceneggiatura. Tra gli estimatori Steven Soderbergh che fece il suo nome per dirigere Insomnia, glaciale thriller con Robin Williams e Al Pacino. Forte di questo successo (113 milioni di dollari incassati nel mondo) Nolan presentò alla Warner la sua versione di Batman, che abbandonava la componente pop per abbracciare atmosfere shakespeariane. Crebbero i budget. Batman Gli inizi costò 150 milioni, Il cavaliere oscuro 185, Il cavaliere oscuro. Il ritorno 250. Accanto alla saga, altri progetti, autoriali e ambiziosi: The Prestige e soprattutto Inception.
In quattordici anni i suoi film hanno fruttato tre miliardi e mezzo di dollari. L’intento di Nolan è evidente: mettere insieme il mainstream e il cult. Evidente, e ricorrente, la sua ossessione per il tempo, nella struttura o nella narrazione. «Sono attratto dalla soggettività del tempo. E da questo punto di vista Interstellar è il culmine di un lungo rapporto di fascinazione. Perché stavolta, per le leggi della fisica, siamo entrati in territori in cui il tempo è davvero diverso, soggettivamente e scientificamente. E se c’è un antagonista in questa storia, se c’è un nemico, è proprio il tempo».
Per usare uno degli scarti temporali che tanto piacciono a Nolan, tornando al ragazzino folgorato dal cinema, in quel settimo anno di vita oltre alla scoperta di Kubrick c’è anche quella di Spielberg. « Interstellar è certamente una costola ideale di 2-001 ma i riferimenti a quell’Odissea sono più che altro tecnici, il modo in cui Kubrick ha mostrato lo Spazio e le astronavi. E poi il suo genio è inimitabile. Puoi esserne ispirato, influenzato, ma non puoi navigare nelle sue acque. La sua estetica, personalità, filosofia sono uniche. Il mio Interstellar deve molto anche a Incontri ravvicinati del terzo tipo, non a caso credo sia il film più per famiglie che ho mai fatto. Io sono cresciuto nell’età d’oro dei blockbuster, dei film di Spielberg e Lucas. Ed era un’epoca in cui l’etichetta “per famiglie” non aveva una connotazione negativa. I migliori kolossal di Hollywood di quel periodo sono per la famiglia. Stavolta ho voluto regalare un’esperienza al cinema che padri e figli potessero vivere insieme». Il nome in codice di Interstellar, sul quale, in pieno stile Nolan, si era tenuto il segreto fino all’ultimo, è stato Flora’s Book, dal nome della figlia. «La prima cosa che ho fatto è stata cambiare nel copione il personaggio del ragazzo con una femmina. Flora è la mia primogenita, mi sono molto identificato — anche se da padre di quattro ragazzini ci tengo a dire che li amo tutti allo stesso modo! Anche il personaggio di Matthew McConaughey si prende cura di entrambi i figli, sebbene la storia lo porti verso la figlia con cui condivide la passione per la scienza». La famiglia è anche un serbatoio creativo: «Da sempre lavoro con mia moglie e mio fratello Jonah. Con loro non ho bisogno di rapporti politici e diplomatici. C’è uno scambio onesto di opinioni. Con Emma, mia moglie, applichiamo i criteri con cui gestiamo la famiglia alla troupe. Abbiamo creato una sorta di compagnia itinerante, e devo dire che ci troviamo bene». Il fratello Jonah è l’alleato della scrittura: «Lavorerei sempre con lui, ma ora sta sviluppando progetti tutti suoi ed è sempre più impegnato». Nessun accenno all’altro fratello, Matthew, coinvolto qualche anno fa in una misteriosa vicenda, un omicidio da cui è stato assolto. Nolan è molto riservato, rispetto a un passato fatto di momenti anche difficili. «Se, nel film, potessi mandare un messaggio al ragazzo che ero, gli direi di non preoccuparsi. Perché tutte le cose, anche quelle brutte, succedono per una ragione. Della mia vita non vorrei cambiare niente perché quello che ho vissuto mi ha fatto arrivare dove sono ora, dove volevo essere. A dodici anni ho capito che avrei fatto il regista. Mi sarebbero bastati una telecamera e due attori. L’unica cosa a cui non avrei mai pensato è che per realizzare il mio sogno qualcuno mi avrebbe pagato».
Arianna Finos, la Repubblica 16/11/2014