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 2014  novembre 16 Domenica calendario

SPETTACOLI. MUSICA RIBELLE

[Intervista a Robert Wyatt] –
«Is it worth it?», ” Ne vale la pena?”, cantava Robert Wyatt con la sua voce dolce e straziante in Shipbuilding, una ballata contro la guerra delle Falkland composta nel 1982 da Elvis Costello. Ascoltarla procura un brivido lungo la schiena, ancora oggi. Segno che il cantautore di Canterbury, dove negli anni Sessanta si era formata una nuova scena musicale d’avanguardia in cui si fondevano rock psichedelico, jazz ed elettronica, ha davvero dentro di sé il fuoco sacro della musica. Fondatore dei Soft Machine e dei Matching Mole, due band che hanno scritto con i Pink Floyd la storia della psichedelia inglese, in cinquant’anni di attività segnati anche dalla sua militanza nel partito comunista, Wyatt ha collezionato innumerevoli collaborazioni con artisti del calibro di Brian Eno, Syd Barret, David Gilmour, Phil Manzanera, Paul Weller e Mike Oldfield. Non solo: con un pugno di altre band quali The Wilde Flowers, Gong e Caravan, Wyatt è il creatore di un’evoluzione della psichedelia chiamata “progressive rock” e di un particolare sottogenere particolarmente colto e adorato dalla critica che prende proprio il nome di “Canterbury sound”.
Nato a Bristol nel 1945, da quando ha ventotto anni vive su una sedia a rotelle per via di un drammatico incidente (cadde da una finestra al quarto piano durante un party alcolico a Londra, e rimase paralizzato). Wyatt oggi risiede a Louth, nel Lincolnshire, dove lo abbiamo raggiunto al telefono in occasione della pubblicazione di Different Every Time, un doppio album che raccoglie i brani più rappresentativi del suo vasto repertorio, da Just As You Are a The Age of Self fino a Moon in June dei Soft Machine, unitamente a una nuova biografia curata da Marcus O’Dair per l’editrice Serpent’s Tail, che sarà presentata dal cantante il 23 novembre alla Queen Elizabeth Hall del Southbank Centre di Londra.
A gennaio compirà settant’anni, ma è da tempo che lei ormai conduce una vita da eremita della musica. Come mai?
«È vero, mi piace la solitudine. Vorrei anzi essere molto più solo, ma non sono un monaco e sfortunatamente non vivo in un monastero. Mi accontento di una solitudine che non è mai totale, ci sono gli amici e poche altre persone che vedo ogni tanto, ma da tempo ho smesso di suonare in giro. Sono concentrato più che altro nel mettere ordine nella mia vita. Per la musica ho vissuto in modo spericolato e adesso sto provando solo a comportarmi meglio. Poi, certo, a volte mi capita ancora di suonare per qualcuno, ma accade davvero molto raramente. L’ispirazione però continua ad arrivarmi. Possono essere delle piccole linee melodiche o armoniche che sento nella mia testa, o magari mentre sono al pianoforte, oppure quando suono la tromba. Ma possono arrivare anche mentre cammino per strada, così, all’improvviso».
Nel suo album Comicopera del 2007 ha reinterpretato una canzone dei C.S.I. di Giovanni Lindo Ferretti, cantando in italiano una cosa come «il nostro mondo è adesso». Come vede il presente? Si sente fuori dal nostro tempo?
«In un certo senso vorrei allontanarmene, ma non ci riesco. È come quando c’è una guerra in corso. È molto difficile chiudersi nel proprio mondo quando il mondo è in guerra. Non si può rimanere indifferenti. La cosa più difficile per me è quando avverto la sensazione di trovarmi sempre dalla parte sbagliata: l’establishment e l’opinione pubblica prendono molto spesso delle posizioni che divergono nettamente dalla mia».
Nella musica ha sempre cercato lo scambio. Perché le sue collaborazioni con altri artisti sarebbero, come dice lei, delle «dittature benevole»?
«Perché se lavoro a un disco mio e invito qualcuno a suonarci, sono io che mi assumo la responsabilità di quello che sarà il risultato finale. E così divento una specie di dittatore. Viceversa se sto suonando per il disco di un altro, non spetta a me decidere come produrlo o come fare il mixaggio o come registrare l’audio».
Con Björk, che la volle per Submarine, l’intesa fu totale.
«Björk è magica. È lo specchio della sua terra, l’Islanda, che è fatta di ghiacci ma anche di vulcani e di geyser da cui sgorga acqua calda. Incarna la potenza del fuoco e la purezza del ghiaccio, ci mette coraggio e onestà in quello che fa, nella sua musica, nel modo in cui canta. Per questo colpisce molto chi l’ascolta. È stato bello cantare per lei, anche se ero un po’ teso».
Tornando indietro, al 1968, cosa ricorda del tour americano dei Soft Machine con la Jimi Hendrix Experience?
«Una energia nervosa, eccitante. Un brano dietro l’altro, velocissimi. Non c’era tempo di accordare gli strumenti, di provare i microfoni. Si saliva sul palco e si suonava. One, two, three, four, bang! Hendrix era grandioso, e anche molto carino e gentile con tutti noi. Anche gli altri del suo gruppo lo erano. Alla fine del tour il suo batterista, Mitch Mitchell, mi regalò la sua batteria. È la stessa che ho poi suonato negli anni successivi, soprattutto nel ’69, nel ‘70 e nel ’71. Guardando Hendrix, Mitch e Noel Redding ho imparato molto. Lì con loro, sul palco, sembravamo una slot machine».
Guido Andruetto, la Repubblica 16/11/2014