Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 16/11/2014, 16 novembre 2014
LA VERA LIBERTÀ È RISPETTARE REGOLE ASSURDE
Una linea immaginaria, e dell’immaginario, lega Jacopo da Lentini, il notaio duecentesco che ha istituito il sonetto, a Raymond Queneau, che settecento anni dopo ha incominciato a porsi domande al riguardo: come se uno fosse il sogno dell’altro, o la sua ombra. Cosa significa scrivere poesie composte da due quartine e due terzine di endecasillabi, in cui si alternano quattro rime? Cosa significa scrivere un romanzo senza usare la lettera “e”?
Due affermazioni di Queneau aiutano a capire. Da giovane, Queneau era stato surrealista, aveva bazzicato i luoghi di elucubrazione della «scrittura automatica» e se ne era allontanato. Disse di sé di avere frequentato la «negazione della letteratura» (lo scardinamento surrealista di ogni forma precedente, per esempio il sonetto) e di avere poi negato anche quella negazione. Propugnava un ritorno alla letteratura classica? Sì e no. Negli anni Trenta la sua crisi esistenziale, oltre che letteraria, fu superata proprio con un viaggio in Grecia: al ritorno affermò che il poeta classico che scrive una tragedia seguendo regole che conosce è più libero del poeta contemporaneo che scrive quello che gli passa per la testa ma è schiavo di altre regole, a lui ignote.
La libertà della scrittura automatica, della fantasia onirica, dell’inconscio svincolato non produce opere. L’artista cerca il gioco fra la propria libertà espressiva e le restrizioni di una grammatica o di una tradizione artistica casomai da trasgredire. Nei primi anni Cinquanta si incominciò a parlare di creatività, cercando di ancorare a qualche fondamento tecnico o scientifico la passata visione idealistica dell’ ispirazione.
Nel 1960, dopo un convegno assai conviviale sull’opera di Queneau, a lui e al matematico François Le Lionnais venne l’idea di fondare un gruppo di studio e di sperimentazione: nacque l’Ouvroir de littérature potentielle (Oulipo). Il gruppo e il suo modo di lavorare assieme non assomigliava ad alcun precedente, salvo forse all’impresa patafisica di Alfred Jarry. Nel gruppo, ma possibilmente in ogni partecipante, dovevano convivere l’intelligenza letteraria e la scientifica. Il tono di ogni lavoro e di ogni riunione doveva risultare costantemente semiserio, senza che mai l’aspetto del rigore prevalesse sullo spirito giocoso e gioioso, né l’inverso. Né puro seminario scientifico né puro cabaret letterario ma un continuo compenetrarsi delle due modalità: una interminabile jam session di parole. Al centro dell’attenzione, la contrainte, traducibile come «vincolo» o «restrizione», a metà strada fra la regola di gioco e l’istituto letterario (ma l’Oulipo ha avuto anche un interessante spin off pittorico). Occorreva provare a inventare nuove contraintes, mirando idealmente alla stessa potenza generativa della rima, del verso metrico, della tragedia classica. Il senso di queste operazioni è indicato dall’aggettivo che compare nel nome del gruppo, e che definisce l’orizzonte aperto dalla contraintes: potentielle.
La letteratura potenziale è la possibilità non ancora esperita, la forma che non ha ancora trovato la materia in cui sostanziarsi. Un esempio: la riduzione delle poesie più note in strofette che sembrano haiku giapponesi (o poesie di Sandro Bondi). Si ottiene mantenendo solo le parole finali di ogni verso.
«Vita/oscura,/smarrita./Dura/ e forte/paura./Morte/vi trovai...». Da una sottrazione nasce un testo nuovo: era lì, in potenza, e la contrainte lo ha messo in atto. Questo lo spirito della letteratura potenziale: una burla scientificamente condotta che gioca con i veri strumenti che producono la poesia. E finisce per farceli conoscere meglio.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 16/11/2014