Monica Perosino, La Stampa 16/11/2014, 16 novembre 2014
“IO, BOTTINO DI GUERRA E SCHIAVA DEI JIHADISTI”
Alcune preferiscono morire, e scelgono il suicidio. Altre invocano il colpo di grazia, supplicano inutilmente i miliziani che le tengono prigioniere di mettere fine alla loro sofferenza con un colpo alla testa. La maggior parte di loro da mesi continua a sopravvivere, sopportando stupri di gruppo, botte, abusi e umiliazioni.
Sono le migliaia di giovani donne yazide seppellite nelle prigioni dell’Isis, nel Nord dell’Iraq. Hanno 11, 15, 20 anni. E sono almeno 5000. Schiave, le definiscono i jihadisti, o bottino di guerra. Vengono scambiate con armi e favori, vendute al mercato, le più belle e sane costrette a matrimoni forzati dopo essere state convertite all’Islam. Lo stesso Stato Islamico ha apertamente riconosciuto la sua industria della schiavitù. In un articolo su «Dabiq», il giornale dell’Isis in lingua inglese, si spiega che si tratta «solo di far rivivere un’antica tradizione in linea con la Sharia».
I ragazzi rapiti vengono arruolati come combattenti, le ragazze «usate» come concubine. Quelle più giovani e belle vanno ai miliziani di grado più alto, le altre vengono rinchiuse nelle «stanze delle torture» e subiscono le violenze dei jihadisti meno importanti.
Gli yazidi seguono una religione influenzata da diverse fedi, tra cui il Zoroastrismo, l’Ebraismo e l’Islam. Ma lo Stato islamico li considera pagani devoti del diavolo e quindi meritevoli di schiavitù o di morte.
Il calvario degli yazidi è iniziato il 3 agosto, quando l’Isis ha lanciato un attacco nei loro villaggi, nella regione del Sinjar, che ha costretto migliaia di persone a fuggire sulle montagne vicine, al confine tra Iraq e Siria. Poi sono arrivati i rastrellamenti, e i rapimenti.
In poche sono riuscite a fuggire, per ora sono solo 150. Nessuna di loro riesce a descrivere le violenze che hanno subito. Tra le sopravvissute c’è chi ha smesso di parlare, altre si strappano i capelli senza sosta o si tagliano braccia e gambe, molte sembrano distanti, guardano nel vuoto. D. A., 15 anni, ce l’ha fatta. «Quando mi hanno preso - racconta al “New York Times” - non volevo lasciare la mano di mia mamma. Poi mi hanno puntato una pistola alla testa, e lei mi ha detto “vai, devi vivere”». L’uomo che l’ha presa, il 2 agosto, ha «scelto» anche la sua sorellina più piccola, 12 anni: «Non riusciva a parlare, non riusciva nemmeno a piangere. Sembrava non sentisse più nulla». È stata l’ultima volta che l’ha vista.
Per settimane D.A. è stata trasferita da una prigione all’altra, con gruppi diversi di altre giovani rapite: «Ci vendevano come oggetti all’asta». Raqqa, Mosul, e case sparse sul confine con la Siria. «Sentivo le ragazze che venivano prese dalle stanze comuni, anche in piena notte, mentre dormivano, per essere violentate».
Dopo mesi di supplizio l’annuncio: «Mi hanno detto che nel giro di tre giorni mi avrebbero sposata. È stato allora che ho deciso di fuggire». Con una campagna di cella riesce a passare da una piccola finestra e uscire nel buio. «Abbiamo corso per non so quanto, fino a quando ci siamo imbattute in una casa». Un uomo, un arabo, le ha aiutate, e ha organizzato un incontro con il fratello di D. A. in un’area curda della Siria. L’aiuto è costato 3.700 dollari. Ora A.D. aspetta. Aspetta di sapere se i suoi genitori, le sue cinque sorelle e il suo nipotino sono ancora vivi.
Monica Perosino, La Stampa 16/11/2014