Notizie tratte da: Januaria Piromallo # Il sacrificio di Éva Izsák # Chiarelettere Milano 2014 # pp. 160, 13,60 euro., 16 novembre 2014
Notizie tratte da: Januaria Piromallo, Il sacrificio di Éva Izsák, Chiarelettere Milano 2014, pp. 160, 13,60 euro
Notizie tratte da: Januaria Piromallo, Il sacrificio di Éva Izsák, Chiarelettere Milano 2014, pp. 160, 13,60 euro.
«Così è deciso, Éva morirà nella foresta». Servono quindici minuti prima che il cianuro faccia effetto. Un po’ di più se lo stomaco è pieno (se l’avesse saputo non avrebbe mangiato). «Quanto ci mette? – chiede Éva. – Cosa aspettiamo a farla finita...» sono le sue ultime parole. Un lungo respiro, prima di essere inghiottita dal buio. Poi si accascia, il rossore delle guance lascia il posto a un pallore di marmo. Ora a Nyuszi resta poco da fare. Riprendersi la fialetta, controllare una volta ancora che lei non abbia addosso documenti, lettere compromettenti, qualsiasi cosa che possa tradirli.
«Sorrideva poco Éva, come se dentro di sé portasse già il presentimento di una fine precoce. Ma quando sorrideva era bella come solo a quella età si può essere. Incarnato di porcellana, tratti mediterranei, non minuti ma armoniosi. Ricordava ogni frase e ti metteva alle strette in un attimo. La coerenza per lei non era un valore a cui aderire... era semplicemente nella natura delle cose.»
La faccia di Imre Lakatos, il grande filosofo, mi appare ripugnante tanto quanto gli occhi di Éva mi toccano il cuore. È perché so che è stato lui ad uccidere Éva, ovvio, eppure non riesco a non pensare che, se avessi incontrato l’uomo senza conoscere la storia, avrei comunque avuto paura. Non la rabbia che sento adesso, ma un terrore istintivo.
Perché parlo adesso? Solo adesso? Perché sono vecchia, scrive Mária nella sua prosa scarna. Perché non voglio seppellire il ricordo di Éva con me. Ho provato a lungo, ma non andava via, non passava, non sbiadiva. E così sono passati quarant’anni. Era sempre lì. Adesso ho deciso di parlare. Adesso che sto sbiadendo anche io.
Szatmár, come tutta la Transilvania, dopo la Prima guerra mondiale passa dall’Ungheria alla Romania. Rimarrà ufficialmente una cittadina rumena fino al 1940: una cittadina rumena abitata quasi soltanto da famiglie ebree ungheresi. Come gli Izsák. Éva nasce nel 1925, ultima di una piccola tribù di otto figli. Mária è la penultima, tra loro ci sono solo due anni e mezzo, mentre la differenza con la primogenita Margit è tale che potrebbe esserle madre.
Quando Eszter Izsák, nata Kain, scopre di essere incinta di Éva, ha quarantadue anni. Troppi, pensa, per dare alla luce un altro figlio. È suo marito Antal a incoraggiarla: «Non preoccuparti, sarà la gioia e la speranza della nostra vecchiaia» le dice. Éva e sua madre sono morte nello stesso anno: quello in cui ogni gioia e ogni speranza furono distrutte.
Ci sono otto figli da sfamare, le capre e le mucche da mungere, stalle e pollaio da pulire. Due volte alla settimana Eszter va al mercato a vendere qualcosa: uova, formaggi fatti in casa, le verdure coltivate nell’orto. Lei per la politica non ha tempo, mentre Antal custodisce nel cuore un’inconfessata nostalgia monarchica. Mite com’è, finge di non provare alcuna umiliazione il giorno in cui, scattando sull’attenti davanti a un ufficiale dell’esercito ungherese, quello gli risponde di girare «alla larga, lurido ebreo».
«Mária ha nove anni quando un gruppetto di giovani prende in affitto un piccolo appartamento a pochi passi da casa sua. Dal cortile, Mária ascolta i canti che risuonano nell’aria fino a tarda notte. Una volta, la mano di Éva stretta nella sua, lascia il suo cortile e si avvicina. Quello che vede è una festa: la musica incalzante, i piedi che pestano il terreno sollevando la polvere al ritmo dei tamburelli, sorrisi, colori. È la Hora, Mária la conosce, e mentre i suoi piedi accennano timidi passi di danza pensa che non l’ha mai vista ballare così, con quella forza, in un modo che non è solo ballo, ma è lotta. Da quella sera, ogni giorno, appena sentono i primi canti, Mária ed Éva si prendono per mano e vanno a vedere. E in quella stretta covano la loro passione politica, che ancora non ha nome. Sono militanti del movimento sionista Hashomer Hatzair, e reclutare nuovi membri è parte della loro missione. Nel giro di una settimana Éva, che ha appena compiuto sette anni, è la mascotte del gruppo. Occhi grandi, spalancati a catturare il mondo. Impara a usare la versione ebraica del suo nome: nel movimento lei è «Chava». Mária è ribattezzata «Miriam».
Gulliver è il leader del movimento, diventa prima il nume tutelare di Mária, poi di Éva. Si è nutrito delle idee di Nietzsche e da quelle vuole fare nascere i pilastri di una nuova era. Vuole affidare il potere al pensiero, senza il comando delle armi. Una volta al mese convoca la riunione del partito. Un affiliato – detto civetta – prepara volantini con orario e luogo d’incontro e li fa recapitare a casa di ogni militante. Il tutto avviene in un clima di grande segretezza.
«“Chi dunque vuole essere libero non desideri e non rifugga nulla di ciò che è in potere di altri: se no, inevitabilmente, diventa schiavo”... Epitteto».
«Sognavamo tutti un’Ungheria senza ingiustizie sociali e non ammettevamo di poter fallire nella missione di salvare il mondo».
Se non avessimo mai incontrato Gulliver, se quel giorno, invece di trascinarti per mano a spiare la Hora, fossi rimasta con te a giocare a nascondino in cortile saresti ancora viva, Éva mia. La coscienza di Mária si nutre di rimpianti, conta gli errori.
«Nell’orrore infinito della storia di Éva bene e male, due parallele apparentemente intangibili, si incontrano. La morte di Éva è il loro punto di intersezione».
Alla fine del 1935 Mária ha tredici anni e da qualche mese compila le schede di iscrizione dei membri a Hashomer Hatzair. Mária inizia a registrare gli eventi che le ruotano attorno e da allora non smetterà mai, portando sempre con sé pagine fitte di dati, pensieri, nomi, timori, speranze. L’anno successivo anche Éva diventa ufficialmente membro del movimento, e le viene dato l’incarico di formare un gruppo di giovanissimi «combattenti per la libertà».
«Lo so, ho sbagliato, ma nella vita è meglio sbagliare che scegliere di non scegliere». Éva lo dice puntando gli occhi in quelli del padre. Non li abbassa neppure quando vede partire il ceffone. Solo più tardi, nel letto, piange a lungo: non per lo schiaffo, né per la preoccupazione causata ai genitori. Piange perché ha pensato – ed è un pensiero che la umilia – che suo padre, il suo amato padre, non è che un pavido, uno di quelli che hanno scelto di non scegliere. Tocca a lei e a Mária lottare per tutta la famiglia. Loro sanno da che parte stare.
Da madame Zsó si respira ancora un’atmosfera di altri tempi, lei che negli anni Trenta aveva imparato a fare la sarta a Parigi ed era poi tornata in Ungheria con la ferma idea di vestire le signore e signorine di Szatmár e dintorni con linee semplici e abiti alla moda, regalando a tutte un sogno in cambio di qualche risparmio.
«Glielo faccia un po’ grande magari, e lasci un po’ di stoffa lungo le cuciture, così se continua a crescere glielo sistemiamo» dice Eszter mentre Zsó continua ad appuntare spilli su Éva. «Ma soprattutto che sia bello caldo».
«Un cappotto ben fatto può durare una vita».
È l’inizio del 1940 e da qualche mese il Führer, alla guida delle forze armate tedesche, ha invaso la Polonia. È il primo inverno che Éva porta il suo cappotto, quando un compagno informa Mária che il suo nome e quello di Éva sono finiti nelle liste nere della Sigurant ̧a: le ragazze dovranno nascondersi.
«Si proclamano «combattenti per la pace», «antifascisti», «comunisti», declinazioni diverse di un unico credo che ha come dio la Giusta Causa».
«Come facevi, Éva, così piccola, ad avere tante certezze, tanta fede? La responsabilità è forse mia, che ti raccontavo di libertà e di giustizia quando i tuoi sogni meritavano ancora fate e animali parlanti?»
Il 30 agosto 1940 è il giorno in cui le strade di Kolozsvár si riempiono di persone piene di rabbia e di speranza, che protestano contro Hitler e Horthy. In piazza ci sono anche Mária ed Éva. La gente grida «Giù le mani dalla Transilvania» e nel coro di protesta non si riconosce chi è ungherese o rumeno. Sono tutti antifascisti, oppressi che si ribellano all’oppressore. Combattenti disarmati, o armati solo di parole.
Con il Secondo arbitrato di Vienna, la Transilvania settentrionale torna all’Ungheria, mentre la polizia segreta rumena e il controspionaggio ungherese, malgrado la disistima reciproca, si alleano contro la minaccia comune dell’antifascismo. I rumeni e gli ungheresi diventano complici per neutralizzare gli avversari comuni: gli ebrei e i comunisti.
«Dice il poeta Brendan Behan che gli altri popoli hanno una nazionalità. Noi ebrei abbiamo una psicosi».
«Budapest: una città, due anime. Buda sta su una sponda e Pest sull’altra, gemelle siamesi unite e insieme separate dal Danubio.»
J. H. è bello, colto, è più grande di Éva di dieci anni. Quando lei lo sente parlare a una riunione del movimento a Nagybánya è della sua testa che si innamora. Non sono solo le cose che sa, ma il modo in cui le dice. Ha una voce calda, ferma, che non si inceppa mai.
«Se J.H. l’ha scelta, lei è speciale.»
«La natura è piena di misteri. Tra questi l’amore e la morte: due momenti in cui torniamo a essere una scintilla, polvere di stelle restituite all’universo».
«Ho una relazione con il tuo fidanzato» le dice una donna alta e bionda. Quello che prova Éva è una sensazione di orgoglio perché è la prima volta che qualcuno pronuncia a voce alta quello che lei si vergogna a desiderare, «il tuo fidanzato», ma poi la frase si distende nella sua mente e l’accento si sposta sulle prime parole che le ha detto questa donna: «una relazione». Questa donna ha una relazione con lui.
«Ho intenzione di tenermelo stretto, finché mi vorrà. Non te la prendere, è fatto così, oggi tocca a me domani a un’altra, e a me va benissimo, è questa la differenza tra noi due, Éva. Mária, invece, del racconto di Éva ricorderà solo una frase: «Sei così giovane, hai tutta la vita davanti».
«Eravamo un gruppo di ragazzi con la testa gonfia di ideali che neppure capivamo, ci riunivamo in gran segreto a casa di uno o dell’altro oppure nei boschi, in montagna, e gridavamo: “Abbasso il fascismo! Morte ai fascisti!”. Nient’altro. Le sembra che si possa chiamare “Resistenza”, questa?»
«Una vecchia che è venuta a vegliare suo padre le ha detto che in Polonia i nazisti uccidono i bambini ebrei strappandoli in due.»
Ecco la vita del clandestino: basta un istante e il luogo in cui ti nascondi si trasforma da rifugio in trappola. I compagni avvertono le due sorelle che la polizia le sta cercando, non hanno neppure il tempo di raccogliere nella valigia quel poco che si sono portate da casa: fuggono così, con i vestiti che hanno addosso e senza nemmeno uno scialle di lana a ripararle nell’aria di aprile, ancora fredda.
«Sei ebrea?». Mária scuote il capo: «No».
«Documenti.»
Mária mostra il suo lasciapassare cristiano. La guardia lo legge, poi la fissa negli occhi con aria di sfida. «Vattene» ringhia.
Alla fine di agosto, la Romania firma l’armistizio con gli Alleati. I sovietici hanno la Transilvania e minacciano l’Ungheria. In segreto, Horthy tratta le condizioni dell’armistizio con i sovietici. Il 15 ottobre alle 13 parla alla radio nazionale annunciando l’armistizio. Mária crede che l’Ungheria si sia liberata dall’oppressione tedesca. Ma alle 20.21 dello stesso giorno la radio trasmette un nuovo messaggio: a parlare è Ferenc Szálasi, il capo delle Croci frecciate. Horthy viene arrestato e costretto a revocare pubblicamente l’armistizio, proclamando Szálasi suo successore.
Le Croci frecciate sono al potere e Budapest continua a essere bombardata. Eppure Mária esce spesso, anche rischiando l’arresto e la deportazione, e osserva. Si mescola alla gente con la sicurezza e l’indifferenza di un’ariana, come camminando controcorrente.
L’ultima lettera di Éva, Mária l’ha ricevuta all’inizio di agosto. Diceva che stava bene. Qualche giorno dopo, Mária incontra Alfonz Weisz, uno dei compagni di Éva. «Dov’è Éva?» gli chiede. «Éva non c’è più.» La voce di Mária si fa sottilissima: «Cosa vuol dire non c’è più?». Ma il pianto che scoppiò improvviso significava che aveva capito. Alfonz Weisz, da dietro gli occhiali, la guardò severo: «Una vera marxista non piange, compagna Izsák».
«Durante il suo soggiorno forzato a Nagyvárad, Éva si trova rapidamente coinvolta in una cerchia di «compagni» di incerta e confusa formazione politica, alcuni cristiani, molti ebrei in fuga come lei. La mente del gruppo, il leader, è Imre Lipsitz. Lui e la sua compagna, Éva Révész, formano la perfetta «coppia marxista». Senza alcuna ragione apparente, la coppia decide che Éva Izsák, allora diciannovenne, rappresenta un pericolo per la sicurezza degli altri membri del gruppo, perché «fragile emotivamente» e «fisicamente riconducibile alla razza ebraica».
«Éva Révész ha i capelli neri, il naso aquilino e le labbra sottili sempre premute una sull’altra in una smorfia di disprezzo. Si muove goffa nei vestiti lisi e un po’ deformi, è sgraziata nei movimenti. Non sorride quasi mai, eppure proprio quella serietà forzata, e i modi bruschi, agli occhi di Éva appena arrivata, hanno la forza dell’autorità».
Imre Lipsitz convoca una riunione in cui mette ai voti il suicidio di Éva come unica via d’uscita. Nonostante ci sia la possibilità di mandare Éva da un’amica della sorella Mária, questa opzione non viene neanche presa in considerazione. Viene poi elaborato nei minimi dettagli il metodo dell’esecuzione e la decisione è presa con «obiettività marxista».
«Éva sa che una zuppa di lenticchie molto annacquata sfama comunque e che la buccia di uno spicchio d’aglio usato nei giorni precedenti basta da sola a insaporire una zuppa.»
«Mi hanno fatto notare che perdo troppo tempo in smancerie. Sono proprio stupida (oddio, sarà anche questa una smanceria?), ma credo che la compagna Révász abbia ragione: lei e il compagno Lipsitz si amano ma non hanno certo bisogno di ripeterselo in continuazione. E così noi, Mária.»
Fino alla metà di maggio il clima è freddo, e quando va in paese Éva indossa sempre il cappotto blu, non si accorge delle occhiate invidiose dell’altra Éva.
Imre Lipsitz è sorpreso dall’ostinazione con cui la sua donna vorrebbe liberarsi della ragazzina. Qualche notte fa l’ha presa in giro, come solo raramente accade, insinuando che sia vittima di una banale e vergognosa gelosia. La sua reazione di stizza l’ha divertito.
Nel 1922 a Mosca viene pubblicato a puntate, su una rivista, il romanzo di Aleksandr Tarasov-Rodionov. È la storia di Zudin, capo della polizia segreta russa, costretto a una punizione esemplare per un crimine ridicolo che non ha neppure commesso in prima persona: sua moglie ha accettato del cioccolato in regalo e lui pagherà con la vita. Alcuni anni dopo la pubblicazione in Russia, il comunista Béla Kun – ex governatore della fallita Repubblica sovietica ungherese – ne ordina, con particolare enfasi, la traduzione nel suo paese. Imre Lipsitz fa leggere il libro ai propri amici e ai propri compagni di partito che trovarono Chocolate «di grande ispirazione». Ma chissà se avranno capito, leggendo il libro, che la stessa sorte sarebbe toccata a uno di loro? Avranno capito chi sarebbe stato sacrificato?
«Éva si è sottomessa alla morte, non è stata costretta. Ha accettato di morire quando le è stato detto che la sua morte avrebbe salvato altre vite e lei non ha esitato a sacrificare la sua per comprare la libertà degli altri».
«Farei qualsiasi cosa per la Causa.» «Grazie, Éva.» È la prima volta che l’altra Éva le rivolge la parola con dolcezza e le sorride.
«Pensi che esista un modo sicuro per dimostrarci che questa affermazione è vera, compagna?»
Éva ha la testa vuota. La sua bocca dice: «Metterla in pratica?». «Vuoi dire che sacrificheresti tutto per il bene della lotta che stiamo portando avanti?» «Sì.»
«Anche la vita?» «Sì.» «Sarebbe un’azione di grande coraggio, esemplare.» La sua bocca dice: «È l’unica cosa da fare?». «Crediamo di sì, compagna Izsák.» Ti stiamo sacrificando e siamo sicuri che capirai il perché.
Cosa siamo disposti a fare per essere ricordati? Dove possiamo arrivare per non sparire tra le pieghe della grande storia? Mi faccio queste domande mentre penso a Éva e al suo sacrificio inutile, una beffa del destino.
Il cappotto blu ha ancora l’odore della ragazza quando Éva Révész se lo infila per aspettare il suo compagno davanti alla porta di casa. Un modesto e trasandato accessorio di vanità è diventato il simbolo della sua vittoria. «Che ne dici?» «Dove l’hai preso?» Lipsitz non sorrideva. «Nella sua valigia... Di certo il prossimo inverno lei non soffrirà il freddo.»
«L’abbiamo fatto perché serviva» disse Éva, ma le tremò la voce. «Hai ragione, serviva. A me, per esempio, è servito a capire che sei una donnetta capace di mandare a morire una compagna perché ti fa saltare i nervi. O vuoi dirmi davvero che eri preoccupata per la nostra sicurezza? Guardati. Guarda me. Non sembriamo certo meno ebrei di lei.»
L’uomo è il più terribile e crudele di qualsiasi altro animale. Non c’è nessun’altra specie che uccide la sua stessa specie. Solo l’uomo e la colomba; non è un caso che una specie omicida abbia scelto un’altra specie omicida come simbolo di pace. Una tigre uccide quando ha fame, l’uomo in ogni momento, in ogni luogo... Sotto quali condizioni l’uomo preistorico uccideva?
Quando si sentivano minacciati, gli uomini conoscevano un solo modo per placare l’ira degli dei, offrivano loro la vita di un membro della tribù. E così per molti millenni.
«Éva aveva solo diciannove anni e mezzo, ma è come se avesse vissuto tre vite: brevissime ma intense. La prima è stata l’infatuazione politica, la seconda la fuga, la terza la tragedia. Poche persone come lei hanno saputo, in un così striminzito lasso di tempo, onorare la vita e la morte».
«È stato un olocausto dall’interno. Una “soluzione finale” fatta in casa, da un gruppo di compagni, di amici. Lakatos non è stato l’assassino fisico, ma quello morale. Lui, l’infame, è stato l’autore. Le responsabilità di questo delitto sono tutte sue. Solo sue. Lui è stato il carnefice, un vampiro assetato di sangue. Per sancire il proprio potere, per esibirlo. Éva è stata la sua vittima innocente. Un sacrificio umano sull’altare pagano. Questo omicidio è blasfemo. Da qualsiasi prospettiva lo si guardi». Imre ha ragione. Per quanto possa inventarmi la sua breve vita, per quanto possa immaginarla forte, e orgogliosa, e fiera, restituirle un ruolo nel costruire il suo destino, cambiare angolatura dello sguardo, non riesco ad affrancare Éva dal ruolo che la storia le ha assegnato: una vittima, ecco cosa è stata, e Imre Lakatos è stato il suo carnefice».
Diverse date di nascita, la stessa data di morte: 1944. Una fila di sassolini, come da usanza ebraica, al posto dei fiori. Il sasso non si deteriora, è eterno. Sotto ogni sasso una preghiera, un pensiero in ricordo del defunto. Ma il nome di Éva non c’è, su quella tomba.
Imre Lakatos è morto nel 1974 per un attacco cardiaco. Una morte precoce dovuta forse agli stenti e alle privazioni durante gli anni di prigionia. Su di lui non è calata la polvere dell’oblio. Ci sono i suoi libri, le sue ricerche, le registrazioni delle sue lezioni, le sue lettere raccolte in un archivio, una biblioteca dedicata in una delle università più prestigiose d’Europa, un premio che porta il suo nome da assegnare ogni anno ai migliori filosofi della scienza in circolazione. Eppure la mente del grande filosofo è la stessa che ha deciso, pianificato e portato a termine l’omicidio – perché di questo si è trattato e voglio gridarlo ad alta voce: omicidio – di una ragazzina.