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 2014  novembre 15 Sabato calendario

SAYONARA ALLA DEFLAZIONE

A fine ottobre c’è stata una duplice svolta nel panorama economico mondiale: mentre la Fed ha concluso il Qe3, l’allentamento quantitativo iniziato il 13 settembre 2012 che ha comportato l’acquisto di asset per 4.500 miliardi di dollari tra titoli di Stato immesso, la Banca del Giappone ha aumentato ancora la posta del suo Qqe (Quantitative and qualitative easing), volto ad assicurare il ritorno in tempi brevissimi a un tasso di inflazione del 2%. L’uscita dalla deflazione monetaria è diventata l’obiettivo principale dell’intero sistema giapponese, che ha constatato l’insufficienza della ultraventennale politica economica basata su tassi di interesse infimi e sulla contrazione dei salari reali a vantaggio dei prezzi, per migliorare la competitività estera.
Fra il 1990 e il 2014, il pil reale giapponese è cresciuto di quasi un terzo (+28,3%), mentre l’indice dei prezzi al consumo è aumentato di soli 5,5 punti (passando da 94,5 a 100): se, quindi, il peso del debito pubblico in rapporto al pil si è ingigantito a causa della bassa crescita nominale, la dinamica della domanda interna non è stata in grado di far riprendere quota agli asset finanziari e immobiliari, continuando a penalizzare gli investitori. Aver destinato tutti gli incrementi di produttività ai profitti, riducendo la quota dei salari sul reddito nazionale, ha ridotto i consumi interni, a loro volta rinviati dalla prospettiva di una continua riduzione dei prezzi.
A quasi 25 anni dal crollo del Nikkei, i valori correnti sono ancora inferiori di oltre la metà rispetto ad allora, contribuendo alla diffusione di un «effetto povertà» che ha rallentato le dinamiche di consumo e di investimento.
Il Giappone vuole uscire da questa sorta di lutto monetario, riportando l’inflazione stabilmente al 2%: con una votazione a stretta maggioranza, con 5 voti a favore e 4 contrari, ha portato ad 80 mila miliardi di yen l’aumento annuo della base monetaria, sostanzialmente concentrato negli acquisti di titoli di stato (JGBs). Questa detenzione, che nel 2012 era di 89 triliardi di yen, è già passata a 142 triliardi al termine del 2013, e arriverà a 190 triliardi a fine 2014. Nel corso di questi ultimi due anni, quindi, la Banca del Giappone ha comprato sul mercato titoli di Stato per 100 triliardi di yen, pari a circa mille miliardi di euro. Dal punto di vista degli andamenti del bilancio pubblico giapponese, tra la fine del 2011 e la fine del 2014, il debito è aumentato di 114 triliardi, per cui l’intervento della Banca del Giappone ha avuto sostanzialmente una funzione di completa sterilizzazione dell’assorbimento dei capitali privati che erano stati destinati alla sua copertura. Questo sembra essere il punto centrale della politica monetaria della BoJ, unitamente al fatto che l’acquisto di titoli pubblici non comporta la monetizzazione del debito, in termini di immissione di nuova liquidità: nel passivo della banca centrale, infatti, il valore delle Banknotes rimane sostanzialmente stabile, passando da 87 triliardi del 2012 a 90 di quest’anno. Aumentano, invece, i current deposit del sistema bancario, che passano da 47 a 175 triliardi di yen.
In Giappone, la politica di bilancio è rimasta estremamente espansiva, visto che ancora quest’anno il deficit è stato del 7% del pil, mentre scenderà al 5,8% l’anno prossimo. Il rapporto debito-pil tenderà a stabilizzarsi attorno al 245%, rispetto al 183% registrato nel 2007, con un incremento di +62 punti. Al confronto, il debito pubblico italiano è cresciuto della metà, essendo passato negli stessi anni dal 103% al 136% del pil.
La svolta giapponese è chiara. In primo luogo, la competitività sull’estero, se sostenuta dalla sola compressione dei salari al fine di ridurre i prezzi all’esportazione, ha come contropartita il crollo del potere d’acquisto interno, dei consumi e degli investimenti. Questa strategia competitiva viene completamente vanificata nel caso di una variazione esogena dei cambi valutari, come quella verificatasi dopo la crisi del 2008, quando un forte afflusso di capitali in cerca di rifugio ha apprezzato fortemente lo yen sul dollaro e l’euro. In secondo luogo, la stasi dei prezzi che deriva dalla contrazione della domanda interna, se combinata ad un elevato deficit pubblico finalizzato a sostenere la domanda, porta ad una dinamica incontrollata del rapporto debito-pil.
Il Giappone ha adottato sin dal gennaio del 2013 una politica monetaria fortemente espansiva, volta innanzitutto a ripristinare immediatamente gli equilibri valutari pre-crisi: era quella la prima condizione per assicurare la sopravvivenza del suo apparato produttivo, rivolto alle esportazioni. Non ci sono state tentazioni strane, come quelle che percorrono ancora oggi l’Europa in lungo ed in largo, di riequilibrare i conti con l’estero dei singoli Stati contraendo i consumi oppure adottando ulteriori misure di flessibilizzazione del lavoro o di contrazione salariale per guadagnare quote di mercato: la lunga deflazione già sperimentata dal Giappone ha reso immediatamente chiaro che queste strategie di riforma strutturale sarebbe state un harakiri. Gli acquisti del debito pubblico da parte della BoJ hanno la finalità di restituire agli operatori finanziari le risorse necessarie per nuovi investimenti nell’economia produttiva: è una politica dell’offerta, market-driven, che si affianca a quella della domanda trainata dal deficit pubblico. Le condizioni di basso costo del denaro e di cambi sostenibili completano questo quadrilatero aureo.
La sospensione da parte del governo giapponese del già previsto nuovo aumento dell’Iva è particolarmente importante: sarebbe un aumento dei prezzi assai artificioso perché determinato fiscalmente, che potrebbe provocare un nuovo brusco crollo della domanda e del pil. È la domanda che deve aumentare, con i prezzi che salgono per adeguarsi, e non viceversa. Della politica economica americana abbiamo visto gli esiti, finora tutti positivi: il mix di un eccezionale accomodamento monetario, con una graduale riduzione del deficit federale, ha portato la crescita economica al 3,5%, la disoccupazione al di sotto del 6%. L’Eurozona è ancora in stallo, con un pericoloso avvitamento tra contrazione economica e riduzione dei prezzi: il mix di severità fiscale e di tassi di interessi accomodanti non è riuscito nel suo intento.
Si ragiona da tempo sulla opportunità di un allentamento quantitativo anche da parte della Bce, con l’acquisto di titoli di Stato, per superare una fase di inusitata debolezza dell’Eurozona, con un andamento dell’inflazione sempre più basso rispetto all’obiettivo del 2% annuo. È una questione altamente controversa, innanzitutto dal punto di vista istituzionale e politico: in primo viene rappresentata come una iniziativa che infrange il divieto di finanziamento diretto dei debiti pubblici, la cosiddetta monetizzazione del debito vietata dai Trattati europei sin dall’accordo di Maastricht. Politicamente la Germania vi si oppone strenuamente.
L’Europa dovrebbe riflettere sugli errori commessi. Non ha imparato la lezione americana, quella della crisi del 29: ha intrapreso, con il governatore della Bce Trichet, una exit-strategy tanto veloce quanto improvvida, che ha determinato un innalzamento dei tassi di interesse sui mercati penalizzante per i titoli di Stato emessi dopo la crisi a tassi irrisori e per le banche che li avevano sottoscritti. Poi, ha avviato una stretta sui bilanci pubblici per paura di perdere il controllo sui debiti: c’è stata così la ricaduta, soprattutto per chi ha dovuto seguire questa ricetta, come l’Italia. Poi si è andata baloccando con le riforme strutturali, per ridurre il costo del lavoro al fine di recuperare la competitività internazionale, con il solo supporto dei tassi di interesse molto bassi e senza controllare il cambio dell’euro: non ha imparato neppure la lezione giapponese, e sta cadendo in stagnazione e deflazione. È pronta per il Triple dip.
Il Giappone, dopo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ha dimostrato che il governo della moneta non consiste solo nell’alzare o abbassare i tassi ufficiali di interesse e che il canale creditizio non è sufficiente per far riprendere l’economia dopo una crisi finanziaria. Quando una banca centrale acquista titoli di Stato, libera le risorse necessarie per investire nell’economia reale e sui mercati. Affermare che la sovranità si perde quando il debito è troppo alto è un’altra forzatura: in Europa l’abbiamo persa per via delle regole assurde che ci siamo dati, unici al mondo. Chi è causa dei suoi mal pianga se stesso.
Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 15/11/2014