Matteo Radaelli, MilanoFinanza 15/11/2014, 15 novembre 2014
SE IL DRAGONE RALLENTA
Dopo essere stata il traino della crescita economica nel mondo, la Cina potrebbe prendersi una pausa di riflessione. Ma solo per svincolarsi da un’eccessiva dipendenza dagli investimenti in capacità produttiva, soprattutto nei settori orientati all’esportazione, e puntare più sullo sviluppo dei consumi interni, che poi è anche la strada per mantenere stabile la società del Paese. E il fatto che la domanda di consumi si mantenga stabile indica che Pechino ha scelto la strada giusta. Questa è la conclusione che si può trarre dopo che i dati pubblicati in settimana hanno confermato il rallentamento della crescita della seconda economia mondiale e l’aumento delle pressioni deflazionistiche. Con riferimento a queste ultime, le indicazioni peggiori sono arrivate dall’andamento dei prezzi alla produzione, scesi del 2,2% anno su anno in ottobre dal -1,8% di settembre, mentre quelli al consumo sono rimasti invariati all’1,6% sempre su base annua.
Oltre all’entità della riduzione, quello che pensare è che per i prezzi alla produzione si tratta del trentaduesimo ribasso mensile consecutivo, segnale di come le pressioni al ribasso dei prezzi nel comparto manifatturiero stiano peggiorando a causa dell’eccesso di capacità produttiva accumulato negli ultimi anni. Tra i settori più coinvolti ci sono l’immobiliare, la chimica, il minerario e il fotovoltaico (produzione di pannelli solari). Una sovraccapacità che avrà anche la conseguenza di rallentare gli investimenti, e quindi la crescita economica, nei prossimi anni. Un primo segnale in tal senso si è avuto dal forte calo del tasso di crescita degli investimenti fissi nel mese di ottobre. Questi sono saliti del 15,9% nei dieci mesi del 2014 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Sembra tanto, invece è il tasso più basso dal 2001, che per di più segna un rallentamento del 4% rispetto all’anno scorso.
La deflazione nel comparto manifatturiero potrebbe pesare sul sistema finanziario a causa dell’incremento del debito visto negli ultimi anni. Gli economisti di Standard Chartered hanno calcolato che in Cina il debito totale potrebbe avere raggiunto il 250% del pil. Società molto indebitate faranno fatica a saldare i debiti poiché i prezzi dei loro prodotti saranno in discesa.
In questo scenario si capisce come anche i prezzi al consumo potrebbero proseguire nella corsa al ribasso dopo essere rimasti invariati all’1.6% su base annua in ottobre, quando cinque mesi prima l’inflazione era al massimo dell’anno, con il 2,5%. Si tratta, comunque, di un valore ben inferiore al 3,5% programmato dalla Banca centrale cinese per l’anno in corso.
Tra gli altri dati pubblicati in settimana che hanno indicato prospettive meno rosee per l’economia cinese, ci sono quelli sui nuovi prestiti, scesi da 857 miliardi a 548 miliardi di yuan, e quello sulla massa monetaria M2, aumentata del 12.6% annuo, contro attese del consensus che indicavano un dato invariato al 12,9%. Ulteriore segno di debolezza è arrivato dalla produzione industriale, la cui crescita ha rallentato dall’8 al 7,7% annuo, pur mantenendosi ben sopra il minimo di agosto del 6,9%. La dinamica delle vendite al dettaglio è invece rimasta sostanzialmente stabile, con la crescita solo in leggera flessione, dall’11,6 all’11,5%. È questo il dato che evidenzia come il governo abbia scelto la strada giusta per riequilibrare l’economia.
Certo, un netto miglioramento di quest’ultima nei prossimi mesi sembra alquanto improbabile dato che i fattori che ne hanno provocato il rallentamento dovrebbero restare ben presenti. Oltre all’eccesso di capacità produttiva, non va dimenticato il ruolo importante che sta giocando il calo dello Yen. Così come la debolezza dello yuan negli ultimi anno ha giocato un ruolo fondamentale nello spingere in deflazione il Giappone secondo un recente studio di due economisti della Bank of Japan, ora i ruoli sembrano essersi invertiti e la debolezza dello Yen potrebbe avere lo stesso effetto su quella cinese.
A questo punto la palla passa alle autorità monetarie cinesi, i cui tempi di reazione sono ancora da valutare. Per ora l’intenzione di non espandere troppo i volumi di credito al fine di ridurre gli eccessi sul sistema finanziario e sul mercato immobiliare ha favorito solo interventi di minore portata dalla parte della banca centrale cinese, per di più concentrati sulle banche più piccole. Qualora lo scenario dovesse peggiorare, con la crescita del pil in discesa al 7% nel 2015, un intervento più deciso non sarebbe da escludere. Secondo gli economisti di Berenberg il punto di rottura sarebbe il mercato del lavoro: un aumento del tasso di disoccupazione spingerebbe le autorità monetarie a intervenire. Il tasso di finanziamento medio per le imprese commerciali è stato del 6,97% in settembre, un valore che lascia ampi spazi di intervento. Un’altra area d’intervento potrebbe essere il mercato valutario, visto che il legame con il dollaro Usa sta pesando sulle società cinesi.
In questo scenario, la People’s Bank of China potrebbe unirsi, anche se non nel breve termine, a quella giapponese nell’immettere liquidità sui mercati, in modo da rendere più agevole la transizione desiderata da Pechino, e in questo dando il cambio alla Fed che ha, invece, riposto nel cassetto il proprio quantitative easing.
Matteo Radaelli, MilanoFinanza 15/11/2014