Filippo Fiorini, La Stampa 15/11/2014, 15 novembre 2014
“IO, SCAMPATO A QUELLA NOTTE DICO CHE I MIEI AMICI SONO VIVI”
È bruciata la porta del palazzo del governo a Città del Messico, è bruciato il parlamento dello Stato di Guerrero, sono state bruciate innumerevoli automobili sulle strade di tutto il Paese e sono bruciate anche tante candele commemorative. Nessuno di questi fuochi, appiccati nelle proteste che nell’ultima settimana hanno battuto il Messico, è riuscito però a far luce sul posto in cui siano andati a finire i 43 studenti scomparsi nel nulla da quasi due mesi, dopo aver affrontato la polizia in una manifestazione ed essere stati consegnati a una banda di narcotrafficanti, che si crede possa averli uccisi.
Genitori e compagni, che ormai hanno perso fiducia nelle autorità, ma non nella possibilità di ritrovare i ragazzi vivi, accolgono con ottimismo notizie come quella di ieri, secondo cui nessuno dei loro Dna è presente tra i corpi estratti dalla prima delle due fosse comuni segnalate dai pentiti. «L’errore che fa la procura è quello di cercare dei morti, quando invece dovrebbe cercare dei vivi», dice Severo, uno dei sopravvissuti a quella tragica notte, in cui lui e gli altri studenti delle magistrali di Ayotzinapa sono arrivati a Iguala con l’intenzione di sequestrare due pullman e partire per la capitale, dove era in programma la marcia commemorativa per le rivolte del Sessantotto messicano.
«Gli autisti lo sapevano già, erano d’accordo perché li paghiamo meglio che un servizio normale», si giustificano dalla scuola, quando gli si chiede perché abbiano dirottato gli autobus, scatenando la reazione spropositata delle forze dell’ordine. «Mio fratello ha chiamato a casa quando hanno iniziato a sparare contro i finestrini e sono morti i primi tre ragazzi. Papà gli ha detto che se erano poliziotti, gli conveniva sdraiarsi. Poi si è sentito in colpa, perché ha rischiato di fargli fare la fine degli scomparsi. Io però credo lo abbia salvato: Aldo, che era accanto a lui, è corso via e l’hanno colpito alla testa. Ora è in coma irreversibile».
A parlare è Josh De La Cruz, che si trova alla Normale nel tentativo, per ora inutile, di convincere il fratello a cambiare aria, dopo che è tornato vivo da Iguala. La faccia di suo padre fa il giro delle tv messicane da quando si è alzato in piedi durante un incontro col presidente Enrique Peña Nieto e gli ha chiesto di dimettersi, accusandolo di essere personalmente responsabile della tragedia. Come tutte le matricole, il giorno che il minore dei suoi figli è entrato alla scuola che un tempo frequentò anche lui, è stato rasato e battezzato con un soprannome: «Acapulco, perché veniamo da lì».
Frequentare queste magistrali equivale ad abbracciare un’appartenenza politica. «Maestro, il tuo salario sorge dal popolo che saprai educare», ripete Ernesto, citando il motto della scuola a cui vanno i figli dei contadini e dei militanti di sinistra. «Questo posto mi ha salvato - racconta - i miei si sono separati che avevo 16 anni. Volevo fare il pilota e quando ho superato il test all’accademia, mia madre mi ha detto che voleva regalarmi una vacanza, perché non mi aveva mai dato niente. È stata l’ultima volta che l’ho vista. Quando sono tornato, c’era solo mio fratello piccolo. Ci aveva abbandonati».
La scena segnò l’inizio di quelli che ricorda come tempi duri: «Non so dire granché del lusso, ma potrei parlare a lungo della fame - dice fiero - la Normale era la scuola più vicina e più economica. Potevo studiare e lavorare, adesso ho uno stipendio e soprattutto una famiglia». Per già due volte dal 27 settembre, lui e gli altri ragazzi di Ayotzinapa si sono sentiti dire che il mistero dei loro compagni era stato risolto nel peggiore dei modi.
Prima, due sicari della banda dei «Guerreros Unidos» hanno raccontato di aver giustiziato e tentato di bruciare i loro corpi in una discarica, ma la squadra argentina dei periti forensi ha dimostrato invece che quei resti sono il frutto di un’altra strage attribuita sempre al crimine organizzato. Poi, la settimana scorsa, tre delle 74 persone arrestate finora per questa storia, hanno detto che i ragazzi erano stati uccisi e bruciati in un altro luogo. Prendendo per buona una versione sorretta da prove deboli, che i genitori degli scomparsi hanno già rigettato e che semina scetticismo anche tra il resto dei messicani, bisognerebbe comunque rassegnarsi all’idea che sarà difficile estrarre il Dna dai pochi reperti trovati.
Sebbene non sia probabile che qualcuno possa nascondere 43 ragazzi (che alcuni pittori messicani hanno iniziato a ritrarre) a tutte le forze di sicurezza del Messico, le speranze di parenti e amici non sono del tutto irrazionali: «Riceviamo continue soffiate e cerchiamo di scremare quelle attendibili - spiega Severo - qualche giorno fa alcuni contadini hanno detto di aver sentito delle grida in una chiesa abbandonata. Abbiamo annunciato che stavamo andando lì e quando siamo arrivati, c’erano solo scarpe, zainetti, vestiti». Lui è sicuro che fossero loro, anche se a dargli ragione, ormai, non sono in molti.
Filippo Fiorini, La Stampa 15/11/2014