Mattia Feltri, La Stampa 15/11/2014, 15 novembre 2014
NELLA FOTO DEL VERTICE DI MAGGIORANZA L’IMMAGINE DI UN PASSATO D’IMMOBILISMO
Tutti in campo, titolari e panchina: Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Lorenzo Guerini, Roberto Speranza, Luigi Zanda, Anna Finocchiaro (per il Pd), Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Nunzia De Girolamo, Maurizio Sacconi (per l’Ncd), Gianluca Susta, Andrea Mazziotti (per Scelta civica), Lorenzo Dellai, Lucio Romano (per Per l’Italia, e scusate il per-per), Karl Zeller per gli autonomisti, Pino Pisicchio per il misto, e poi Bruno Tabacci per il Centro democratico, Lorenzo Cesa per l’Udc e Riccardo Nencini e Marco Di Lello per i socialisti. Venti, se la contabilità è corretta. Il vertice di maggioranza dell’altra sera ha riportato alla memoria i formicai di intelligenze novecenteschi e più recenti, della Prima e della Seconda repubblica, i pentapartiti e le coalizioni in cui gli zero virgola più zero virgola portavano al cinquantuno per cento. Non ci pensava di certo ma, quando Charles De Gaulle disse che i dieci comandamenti erano concisi e concreti perché non erano stati elaborati da una commissione, parlava di noi.
L’immagine brulicante di questi leader poco più che di quartiere, tutti lì a spostare la virgola in servizio ai sommi postulati democratici, dev’essere apparsa in drammatico scialbore anche al premier che - ieri in un colloquio con la Stampa - ha promesso: era il primo e penultimo vertice di maggioranza, l’altro sarà nel 2017. Una replica, prossima all’insolenza, agli alfaniani che, saputo delle modifiche al Jobs Act, chiedevano un ulteriore e immediato tavolo di mediazione. Ma quale fosse la novità lo si era compreso, se lo si voleva comprendere, prima che l’avventura cominciasse, quando Renzi era segretario del Pd e a Palazzo Chigi stava Enrico Letta: «Fassina chi?», aveva risposto Renzi a un’obiezione dell’allora sottosegretario, poi così offeso da dimettersi. La si spacciò per una coda di rottamazione, ma era altro, era la guerra preventiva dichiarata al più pericoloso dei nemici: l’alleato. Non è necessario essere titolari di cattedre di politologia, basta il calendario di Frate Indovino: «Dagli amici mi guardi Iddìo che dai nemici mi guardo io». E qui non si tratta nemmeno di nemici attrezzati, poiché in democrazia le opposizioni non hanno i numeri per sovvertire i governi, ma soltanto la voce per preparare l’avvicendamento. Tanto è vero che la storia della Seconda repubblica è la storia di esecutivi franati per guerre intestine: Umberto Bossi lascia Silvio Berlusconi nel 1994 per non passare da sodale dell’indagato; Romano Prodi, alla guida di una comitiva di undici partiti, cade per il passaggio all’opposizione di Fausto Bertinotti e quando ci riprova, nel 2006 (altra comitiva di undici partiti più nove sigle in appoggio esterno), viene giù essenzialmente per l’addio di Clemente Mastella al culmine di una perpetua rissa con Antonio Di Pietro; Massimo D’Alema è costretto a cambiare due maggioranze in due anni, e ancora Berlusconi, nell’unica legislatura quinquennale (2001-2006) non combina nulla perché - racconta - Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini gli impediscono le riforme, e specialmente quelle di giustizia e fisco.
Ora nel centrosinistra si chiedono, colmi di stupore, quali ragioni inducano Renzi a trattare meglio Berlusconi che non l’opposizione interna, o gli alleati su cui comunque l’esecutivo poggia. Come se settant’anni di democrazia dell’arbitrato ossessivo non fossero lì da vedere: l’autentica partita politica che nella Prima repubblica si giocava fra le correnti interne della Democrazia cristiana - con spartizioni di incarichi e congiure notturne - e successivamente in questi vertici da esaurimento di ogni ordine di posti, i liberali, i socialdemocratici, i repubblicani, i socialisti, coi loro capi ormai mitologici (qualcuno ricorda Renato Altissimo o Antonio Cariglia o Franco Nicolazzi o Bruno Visentini?) invitati a raccattare il raccattabile in cambio della sopravvivenza sterile di governi sulle cui lapidi è inciso l’epitaffio andreottiano: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Ecco, forse non la pensano tutti così: nel consesso della ventina si tira a campare meravigliosamente, alla ricerca della solita via di mezzo in cui ciascuno ha il suo. Se il prossimo sarà davvero nel 2017, si stabilisce che tirare le cuoia non è così drammatico, soprattutto perché resta da vedere chi le tirerà.
Mattia Feltri, La Stampa 15/11/2014