Bruno Arpaia, la Repubblica 15/11/2014, 15 novembre 2014
L’ENIGMA DEL PIÙ GRANDE MATEMATICO DEL MONDO
A nessun matematico, neppure di quart’ordine, c’è bisogno di spiegare chi era Alexander Grothendieck: lo sa. Nessun cultore dei numeri e della geometria ignora, infatti, che l’eccentrico e geniale ottantaseienne morto ieri all’ospedale di Saint-Girons, nell’Ariège, non lontano da Lasserre, il villaggio di duecento anime nel quale si era ritirato e nascosto fin dal 1991, è stato il più grande matematico del Ventesimo secolo, le cui idee, come ha detto Pierre Deligne, uno dei suoi allievi, «sono penetrate nell’inconscio» degli studiosi di questa disciplina. I suoi pari spesso lo paragonano a Einstein, con il quale Grothendieck condivide il mediocre profitto scolastico.
E anche l’indipendenza di pensiero, la potenza immaginativa e una stupefacente capacità di lavoro. Faticano, invece, a trovargli un equivalente tra i grandi matematici: secondo loro, né Hilbert, né Cantor, né Poincaré, né André Weil possono dirsi esattamente alla sua altezza. Noi profani dobbiamo fidarci. Tuttavia, a giudicare dai riconoscimenti ottenuti, il suo talento sembra immenso: nel 1966 ottiene la medaglia Fields (il Nobel dei matematici, assegnata ogni quattro anni), nel 1977 gli viene attribuita la medaglia Émile Picard, dell’Accademia delle Scienze francese, poi, nel 1988, vince il premio Crafoord dell’Accademia di Svezia. Lui, se ne frega: la medaglia Fields la rivende e trasferisce il denaro al governo del Vietnam del Nord nel pieno della guerra contro gli Usa; la seconda la trasforma in uno schiaccianoci «molto efficace», come dirà a un amico; il terzo, coronamento di qualunque carriera, semplicemente lo rifiuta.
Ma, a quel punto, la svolta radicale della sua vita è già av-venuta da un pezzo: a contatto con gli “arrabbiati” del maggio francese, infatti, ha lasciato l’insegnamento e ha smesso di pubblicare, per la costernazione di tutto il mondo scientifico, abituato alle performance e alle invenzioni matematiche del genio venuto dal nulla, dell’apolide naturalizzato francese soltanto nel 1971, quando era sicuro che nessuno l’avrebbe più chiamato a fare il servizio militare.
Grothendieck era nato, infatti, nel 1928 a Berlino da un padre fotografo e da una madre giornalista che, nel 1933, per sfuggire al nazismo, lasciano il figlio a un amico e si trasferiscono in Francia, per poi prendere parte alla guerra civile spagnola nelle milizie anarchiche. È solo nel 1939 che l’undicenne Alexander li raggiunge nel sud della Francia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, però, il primo ministro francese Daladier decide di trasferire gli esuli tedeschi antinazisti, insieme ai “sospetti” di ogni risma, in terribili campi d’internamento. Vi finiscono Walter Benjamin, Hannah Arendt, Arthur Koestler… E la famiglia Grothendieck. Il padre sarà poi mandato ad Auschwitz, dove morirà, e Alexander e la madre nel campo di Rieucros. Lì, però, i ragazzi possono andare a scuola, e Grothendieck farà il liceo a Mende, a tre chilometri dal campo. Bravo studente, ma non brillante, si metterà in luce soltanto quando, per la tesi di laurea all’università di Montpellier, verrà mandato a Parigi e poi a Nancy. Incaricato di seguirlo è Jean Dieudonné: un po’ per gioco, un po’ per metterlo alla prova, il grande matematico gli sottopone quattordici problemi irrisolti da molti anni e gli dice di provare a sviscerarne almeno uno. Pochi mesi dopo, il giovane Grothendieck si ripresenta dal professore: li ha risolti tutti, e in maniera fortemente innovativa.
I vent’anni che seguono, tra il 1950 e il 1970, sono quelli della sua massima produttività scientifica, sebbene, essendo un apolide, sia complicato trovargli un posto statale. Risolverà il problema un’istituzione privata, l’Ihes. Lì Grothendieck scrive i suoi Elementi di geometria algebrica , che rivoluzionano gli studi matematici così come lo spazio tempo einsteiniano ha rivoluzionato la nostra stessa idea di mondo, descrivendo con precisione estrema spazi esotici in cui aritmetica e geometria sono un tutt’uno. Fonda la geometria algebrica, formula la “teoria dei fasci”, inventa il concetto matematico di schema che generalizza il concetto di “varietà algebrica”. Come ha scritto Luca Barbieri Viale, «il profano che si accosta all’opera di Grothendieck dovrà abbandonare il senso comune che guarda al matematico come un problem solver e provare veramente a guardare la matematica come un’arte e il matematico come un artista».
Il Sessantotto verrà a spezzare quest’incantesimo: Grothendieck si ritira dall’insegnamento, abbandona la comunità scientifica e fonda Survivre et vivre, un’associazione che si batte per l’ecologia radicale. Poi, per qualche altro anno, torna a insegnare a Montpellier, scrivendo e lavorando molto, ma senza mai pubblicare nulla né frequentando i colleghi, finché, nel 1988, il suo ultimo atto pubblico è il rifiuto del premio Crafoord. Alexander Grothendieck vive già da tempo come un eremita, ma nel 1991 va oltre: sparisce. Prima di far perdere le sue tracce, affida 20mila pagine di appunti e di lavori conclusi a un amico, con l’ordine di distruggerli: sono cinque scatoloni che resteranno per anni in un garage prima di essere affidati all’Università di Montpellier. L’ultimo segno di vita di Grothendieck si materializza quattro anni fa: ai curatori del sito www.grothendieckcircle.org, che aveva pubblicato studi su di lui e alcuni suoi testi, arriva un biglietto brusco in cui il grande matematico ingiunge di far scomparire dalla circolazione ogni sua opera e ogni suo scritto. E ai responsabili del sito non resta altra scelta che obbedire.
Per fortuna l’amico a cui aveva affidato le 20mila pagine di appunti si è comportato come Max Brod con Kafka, e non ha distrutto i suoi inediti. E forse adesso i suoi eredi, penetrando finalmente in quella casetta sperduta sui contrafforti dei Pirenei dove nessuno poteva mettere piede da più di vent’anni, troveranno altri appunti e scartafacci. Ci vorrà del tempo, molto, per sviscerarli tutti. E per aggirarsi insieme ad Alexander Grothendieck nei meravigliosi spazi che ha studiato, descritto e inventato. Per addentrarsi nella sua storia romanzesca.
Bruno Arpaia, la Repubblica 15/11/2014