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 2014  novembre 15 Sabato calendario

“NOI, TRA LE BOMBE E GLI UOMINI NERI” COSÌ SI VIVE A RAQQA AI TEMPI DEL CALIFFATO

Una città fantasma, abbandonata dai suoi abitanti ma anche dalle milizie islamiste, con pochi guardiani lasciati a presidiare i palazzi occupati fino a un paio di mesi fa dagli imam del Califfato. Così è Raqqa dal 10 settembre scorso, giorno in cui Obama dichiarò guerra allo Stato Islamico annunciando che non avrebbe esitato a colpire anche la Siria. Da allora, la roccaforte dei fondamentalisti s’è improvvisamente svuotata. «Il califfo e i suoi fedelissimi sono scomparsi in poche ore: hanno nascosto i loro carri armati e lasciato le loro basi per mischiarsi tra i civili», dice Mohammed, avvocato e politico locale che raggiungiamo via Skype, nel breve intervallo di tempo in cui a Raqqa arriva elettricità. «Non so dove Al Baghdadi abbia registrato il suo ultimo proclama, ma di certo non qui».
Immagini della “sposa della rivoluzione”, così i chierici del terrore hanno ribattezzato la città, c’erano giunte qualche tempo fa grazie a un video girato da una ragazza temeraria, al riparo dal suo niqab. Quello straordinario documento mostrava ovunque miliziani armati, pronti a redarguire ed eventualmente punire chi infrangesse le regole dell’Islam più radicale. Ma la Raqqa che descrive Mohammed è tutt’altra cosa. Dice l’avvocato: «Adesso la nostra vita segue il ritmo dei bombardamenti, che sono quotidiani e violentissimi, e che si abbattono su ogni quartiere anche più volte al giorno. Non ci sono strade al riparo dai caccia statunitensi, che hanno comunque i loro bersagli prediletti, quali, per esempio, l’aeroporto Al Tabaka o alcuni palazzi del centro dove si erano acquartierati molti jihadisti stranieri».
Ma ormai la maggior parte di queste bombe non uccide più nessuno. I raid sembrano destinati a terrorizzare o a esasperare i pochi miliziani ancora a Raqqa, che sono per lo più siriani e che occupano gli ultimi gradini della scala gerarchica del Califfato. Dice ancora Mohammed: «Gli altri hanno trovato rifugio nei villaggi qui attorno, assieme a migliaia di famiglie anch’esse scappate dalla città, o hanno marciato verso Kobane, che da qui dista un centinaio di chilometri, con il sogno di conquistarla e farne una nuova capitale ». Ieri, intanto, sono giunte altre testimonianze di ciò che avviene in aree recentemente conquistate dalle brigate nere. A Mosul e in altre città della piana irachena di Ninive, le scuole hanno riaperto, ma con altri corsi e altri libri di testo: non si insegna più né la storia né la geografia, bensì ad amare la jihad. Inoltre, i colori sono rigorosamente vietati.
Mohammed appartiene a quella coalizione anti-Assad che ha nell’Esercito libero siriano il suo braccio militare. È la componente più fragile della rivolta contro Damasco, perché stretta tra due fuochi, quello del regime e quello islamista. L’avvocato ricorda l’arrivo delle milizie di Al Baghdadi lo scorso gennaio, quando la città era nelle mani di formazioni ribelli tutt’altro che moderate. «Per prima cosa gli uomini del califfo sterminarono tutte le fazioni presenti, comprese quelli più estremiste, per non dover spartire il potere con nessuno. Da allora è cominciato l’abominio che tutti conoscono, pubblicizzato ad arte dagli stessi jihadisti che ne hanno fatto la loro principale arma di propaganda. C’erano giorni in cui non potevi attraversare alcuni quartieri perché eri assalito dal fetore dei corpi decollati che marcivano sul ciglio delle strade. Per non parlare delle teste mozzate, che nella macabra messinscena degli islamisti erano infilate su picche di legno e lasciate come monito per gli abitanti di Raqqa o per quelli dell’intero pianeta».
Lo scorso luglio, rientrando a casa di sera lo stesso Mohammed ha assistito suo malgrado all’amputazione della mano di un disgraziato. «Non ho mai capito quale crimine avesse commesso: forse aveva rubato o forse s’era semplicemente acceso una sigaretta. Tre uomini l’hanno immobilizzato e un quarto gli ha tranciato la mano con un’ascia molto pesante. Nel frattempo c’era almeno una ventina di giovani che riprendeva la scena con il cellulare. Vuole sapere qual è stato il colmo dell’ipocrisia? Ebbene, dopo averlo reso monco, l’hanno caricato su una macchina e l’hanno portato di corsa in ospedale per medicarlo».
Quando gli chiediamo se i raid americani sono serviti a qualcosa, Hamed risponde: «Sì, perché hanno quasi del tutto liberato Raqqa dalle feroci brigate dello Stato islamico. Ma qui non c’è più vita, la corrente arriva sì e no un paio d’ore al giorno, e chi è rimasto vive murato dentro casa, perché c’è ancora il rischio di fare brutti incontri per strada. Adesso spero che gli americani la smettano di bombardarci, e che comincino finalmente ad aiutare l’Esercito libero siriano. È l’unico modo per evitare che Raqqa passi dalle mani insanguinate degli islamisti a quelle altrettanto insanguinate del regime di Damasco».
Pietro Del Re, la Repubblica 15/11/2014