Simonetta Fiori, la Repubblica 15/11/2014, 15 novembre 2014
“MAI VISTI NELLA CAPITALE QUESTI CONFLITTI ETNICI SE SI PENSA SOLO AL CENTRO LE PERIFERIE SI RIBELLANO”
[Intervista a Giuseppe De Rita] –
ROMA .
«Finora a Roma non c’erano mai stati conflitti etnici nelle microaree: questo è l’aspetto nuovo e preoccupante. Oggi rischiamo di vedere nella capitale quel che era accaduto tempo fa nelle banlieu di Parigi. Per alcuni questo è l’obiettivo». Giuseppe De Rita analizza le tensioni sociali a Roma e nel paese.
È la prima volta che succede?
«Nella cultura italiana la prossimità vince sulla differenza. E noi con bangladeshini ed egiziani, cinesi o rumeni abbiamo una consuetudine senza tensioni. Se esco di casa per andare a comprare i mandarini non mi pongo il problema che a venderli sia un egiziano o un tunisino. Questa relazione che io definisco “di prossimità” è saltata. Ed è la prima volta che succede nella microarea: da luogo della prossimità è diventata arena del conflitto».
Qui dovrebbe intervenire la politica che è mancata totalmente.
«Se al disagio sociale cresciuto nei casermoni aggiungo altro disagio estremo non faccio che buttare benzina sul fuoco. Il problema è che Roma — non solo Roma, per la verità — è amministrata dall’alto, con una cultura di vertice. E ci si è concentrati di più sulla pedonalizzazione del centro storico — via del Babuino o i Fori — che sulle periferie. Per carità, agli intellettuali e al romano medio la cosa è piaciuta molto, ma Roma non è solo grande bellezza. E questo ha allontanato la politica dalle periferie. E invece è necessario un governo accurato delle microaree, proprio per evitare che la situazione degeneri. Ed esploda nella maniera che abbiamo visto in questi giorni: non era mai accaduto che le periferie del disagio aggredissero la polizia. Succede perché c’è una doppia esclusione su cui si innesta un’altra componente non trascurabile».
Quale?
«Un universo di violenza che sta tra la politica di estrema destra e il tifo calcistico ultrà. Questa componente è stata lasciata libera in questi anni. È cresciuta, si esibisce nelle periferie, sfida le forze dell’ordine. Mette insieme cose diverse, la voglia di fare a botte e l’idea di creare una base politica, coltivata da varie case, casette, centri e associazioni. Una sorta di nuova destra antagonista».
La politica o manca
completamente oppure cerca di cavalcare la rabbia.
«Sono gruppi che tentano di soffiare sul fuoco. Poi arriva Salvini da Milano per annusare l’aria che tira tra rancore e disagio».
La politica è mancata anche nel permettere che la città crescesse male.
«Sì, Roma è costruita male. Nelle sue periferie finisce per incubare disagio, violenza e un’antropologia di “esagitazione”. Ogni tanto mi capita di farci un salto — nel quartiere Caltagirone, a Tor Bella Monaca, all’Acqua Bullicante — ed è una desolazione totale. Parlo con i parroci, che non sanno niente degli abitanti. Si ritrovano tra loro solo in rosticceria o — i delinquenti — a spacciare per strada. Roma è anche una città completamente ferma: non mi era mai capitato di vedere così tante serrande abbassate, e quelli erano i negozi che davano lavoro agli immigrati. Inoltre la città non è governata e il disagio si percepisce ovunque, non solo a Tor Sapienza. M’incavolo anche se devo aspettare l’autobus un’ora e mezza a San Giovanni, non solo in periferia».
Roma metafora dell’Italia?
«Sì, può funzionare da paradigma per molte altre grandi città, costruite male o con servizi in declino. E vale anche come monito alla politica, che non guarda più la realtà per andare in cerca degli eventi. Bisogna stare con i piedi per terra. E come diceva papa Bergoglio quando ancora era cardinale a Buenos Aires: le opinioni non radunano, la realtà è».
Seppure di segno molto diverso, il disagio sociale è molto forte nel paese: solo ieri ci sono stati venti cortei tra studenti, operai, disoccupati, centri sociali.
«Per carità, non mettiamo in un unico calderone il conflitto etnicosociale di Tor Sapienza e le manifestazioni di piazza di lavoratori, precari e pensionati. Sono fenomeni molto diversi e vanno tenuti separati: il disagio estremo della periferia e il mondo del lavoro, composto da pensionati impauriti, precari e operai disoccupati. Rischieremmo di creare il “mostro”, che poi non riusciamo più a gestire».
Giusto. Ma la diseguaglianza sembra arrivata a un livello tale da mettere a repentaglio ovunque la coesione sociale.
«Sì, l’Italia è un paese attraversato da una forte spinta alla diseguaglianza che viene da molto lontano, prima ancora della crisi industriale a Terni o a Taranto. Abbiamo perso quella dimensione di aspettativa positiva che avevamo coltivato sin dal dopoguerra. Mi costruisco la casa, mi costruisco l’azienda, esco fuori dalla povertà, mi compro la Tv e la macchina etc etc. È finito tutto, le aspettative vecchie completamente bruciate: perché comprarmi la casa caricandomi di rate se poi devo pagare le tasse? E aspettative nuove non ce ne sono. L’italiano medio oggi tende a risparmiare».
Non puoi avere aspettative se non hai lavoro.
«Ma sono le aspettative che creano ricchezza e dunque le occasioni di lavoro. La società italiana è inerte, priva di vitalità, ha definitivamente rinunciato al desiderio. Il ceto medio s’è impoverito e prevale la cultura del precariato: ci si sente esclusi dal gioco, non si può più gareggiare. E in questa palude qualcuno vince l’inerzia e la noia producendo violenza e tensione».
Ma siamo a rischio di esplosione sociale?
«No, non bisogna enfatizzare. Non siamo negli anni Cinquanta con le manifestazioni dei braccianti e degli operai Fiat. Le classi sono finite con la cetomedizzazione della società italiana, negli anni Settanta. E ora le dinamiche sono completamente diverse. Oggi è cresciuto il meccanismo della disuguaglianza e il disagio è molto diffuso: ma questo deve essere curato dalla politica».
Simonetta Fiori, la Repubblica 15/11/2014