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 2014  novembre 14 Venerdì calendario

APPUNTI SU GABANELLI, MONCLER, OCHE ECCETERA


SERGIO RAME, IL GIORNALE.IT 14/11/2014
Dopo l’amministratore delegato di Prada, Patrizio Bertelli, anche Oliviero Toscani prende posizione contro la giornalista. In onda durante la trasmissione radiofonica La Zanzara, il fotografo attacca la giornalista: "Gabanelli? Un’oca, voleva bastonare Moncler". "La Gabanelli sbaglia come nella storia della pizza - ha detto Toscani - è chiaro che le oche vengono spennate, lo sappiamo tutti. Da dove arrivano le piume delle oche, dal cielo?". E incalza: "Che scoperta che ha fatto la Gabanelli – aggiunge - i prodotti li fanno all’estero! Lo fanno molte altre ditte meno chic e lei va a bastonare la Moncler". Secondo il fotografo, Bertelli non avrebbe dovuto nemmeno risponderle. Piuttosto, ha continuato, avrebbe potuto "mandarle un’oca e dire: ho mandato il tuo ritratto".

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PATRIZIA VACALERBI, ANSA.IT 11/11/2014 -
A distanza di una settimana, la puntata di Report condotto da Milena Gabanelli, sul lusso, delocalizzazione e spiumaggio delle oche, fa ancora divampare polemiche. Il ceo di Prada, Patrizio Bertelli, a una domanda fattagli durante il Milano Fashion Global Summit risponde così:"Portare in tv il tema dei maltrattamenti causati alle oche per riempire giacche e piumini fa parte di una cultura del passato ormai sorpassata, per questo la Gabanelli è stata stupida". Pronta la replica della Gabanelli: "lui è un furbo indagato per elusione di 470 milioni di tasse, nonostante sia uno degli uomini più ricchi del mondo".

Insomma l’argomento è ancora bollente, anche se, a farne le spese finora, è stato il marchio Moncler, penalizzato da un ribasso delle azioni quotate a Piazza Affari, all’indomani dell’inchiesta di Report, del 4,88%. Nonostante una nota dell’azienda guidata da Remo Ruffini avesse subito smentito il rifornimento da produttori non certificati. La risposta del brand spiegava che "Moncler utilizza solo piuma acquistata da fornitori obbligati contrattualmente a garantire il rispetto dei principi a tutela degli animali". Ma a poco e’ servito perchè gli animalisti si sono scatenati con migliaia di tweet indignati contro l’azienda e qualche giorno dopo hanno anche protestato davanti al negozio Moncler a Milano.

"In questo modo non capisco la distinzione tra una gallina e una balena - aggiunge Bertelli -. È naturale che in un mondo globalizzato un’impresa cerchi risorse produttive con costi più contenuti, per esempio in Ucraina o in Slovenia, e non si può impedirlo in un mercato liberale. Questo non vuol dire che noi dobbiamo fare i carabinieri sui produttori ai quali ci affidiamo. Lo stesso discorso vale per Prato, dove il popolo orientale ha trovato una opportunità economica e l’ha sfruttata".

"Bertelli, che vuol dire Prada, ha ragione nel darmi della stupida - risponde Gabanelli - sono orgogliosamente stupida, perché le mie tasse le verso fino all’ultimo centesimo; mentre lui, indagato per elusione per 470 milioni (nonostante sia uno degli uomini più ricchi del mondo) può propriamente definirsi ’furbo’. Nessuno impedisce a Bertelli di andare a produrre in Transnistria (un paese nemmeno riconosciuto dalla Nazioni Unite) per 30 euro i suoi giacconi in vendita a 2.000, ma non si stupisca se qualcuno lo racconta e si chiede perché non produrre qui, visto che il lusso è il settore che ha i ricarichi più alti. Il consumatore ha il diritto di essere informato e poi sceglierà come meglio crede. Bertelli - chiude la giornalista - investe molte risorse nel monitorare la stampa, ne potrebbe investirne un po’ nel monitorare i suoi fornitori, altrimenti i codici etici sono tutta fuffa. Per quel che riguarda il maltrattamento animale, non appartiene ad un mondo passato come sostiene Bertelli, perché la spiumatura da vivo avviene ’oggi’, come ampiamente documentato. Se poi non conosce la distinzione fra una gallina e una balena gli rispondo che esiste l’ignoranza colpevole".

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SABRINA GIANNINI, CORRIERE.IT 7/11/2014
Il giorno dopo la messa in onda a Report dell’inchiesta “Siamo tutte oche” Moncler ha dichiarato: “I nostri fornitori sono obbligati a garantire il rispetto dei principi a tutela degli animali, come riportato dal codice etico”. Ma la comparsa del paragrafo sulla tutela degli animali nel citato codice etico dell’azienda è misteriosa.

Quando lo abbiamo scaricato dal sito di Moncler, qualche mese fa, non vi era alcun riferimento alla tutela animale. Nell’ultima versione del codice etico è stato aggiunto un punto al paragrafo numero 6, proprio quello sul “rispetto dei principi a tutela dell’ambiente e degli animali". A noi risulta che la modifica sia stata fatta il 7 ottobre scorso, quando Moncler era a conoscenza dell’inchiesta che stavamo realizzando. E quando avevamo già concluso le interviste in Ungheria.

Moncler nell’annunciare azioni giudiziarie contro Report ha utilizzato (anche) questa argomentazione. Chi l’ha pubblicata avrebbe potuto approfondire la “smentita” di Moncler. Noi l’avremmo fatto nel corso del contraddittorio che abbiamo più volte richiesto. Sarebbe stato interessante approfondire un dubbio sulle date, che non tornano.

Sul documento che mostriamo anche nel video si legge: il presente codice etico è stato adottato dal gruppo Moncler con delibera del consiglio di amministrazione della Moncler s.p.a. in data 24 gennaio 2014. È stato modificato senza delibera? Non serve? Perché non viene dichiarato? Domande rimaste senza risposta. Per quello che può valere un codice imposto dall’azienda ai fornitori, non controllabile da un organismo terzo (e tanto meno da una autorità non essendo obbligatoria la tracciabilità). Esistono sistemi di tracciabilità della filiera certificati, proprio per evitare la spiumatura illegale, di cui per esempio si è dotata il marchio Patagonia.

Moncler scrive nel comunicato che acquista la piuma “principalmente in Francia e Italia ed in parte in Nord America”. Dobbiamo dedurre che non la compra dall’Ungheria? Ma in Italia gli allevamenti di oche e anatre si contano su una mano. I fornitori italiani di Moncler infatti comprano dall’estero e mischiano le piume di varia provenienza, anche dall’Ungheria.

Il suo fornitore Molina nel sito aziendale scrive: “Sembra una favola e invece è una bellissima realtà. Le oche di Békés in Ungheria, vivono libere all’aria aperta (…) abili mani delle contadine, prelevano solo il piumino, dal petto e sotto le ali delle oche mature. Un po’ come avviene per la tosa delle pecore, questa operazione è assolutamente innocua per l’animale”. Assolutamente? Quasi.

Infatti, soltanto dopo il servizio di Report aggiusta il tiro e in un comunicato congiunto con Assopiuma scrive: “In riferimento alla pratica illegale di “live plucking” non possiamo negare che casi sporadici si possano ancora verificare da parte di chi non rispetta le leggi"… Assicurano che le piume vengono da “ allevamenti e i macelli (…) controllati dalle autorità sanitarie locali, dove un ufficiale veterinario attesta e certifica, oltre allo stato igienico delle piume, anche la salute degli animali, di conseguenza qualsiasi violenza inferta sarebbe immediatamente rilevabile”. Se controllassero però.

Il punto dolente è proprio la tolleranza dell’illegalità e un regolamento europeo che consente di far passare per “innocua tosatura” la tortura. Mentre un reportage televisivo mostrava per la prima volta le “abili mani delle contadine” che strappavano la carne insieme alle piume per procedere velocemente alla spiumatura, sottopagata, non c’era l’ombra di ispettori ungheresi e tantomeno dei veterinari del Food and Veterinary Office della DG SANCO della Commissione europea che dovrebbe occuparsi di salute umana e benessere animale .

Il presidente Remo Ruffini vorrebbe che l’azienda "Moncler un giorno diventasse sinonimo di piumino come la Bic è sinonimo di biro”, un’arma a doppio taglio che poteva essere usata per indignarsi (insieme a molti altri) e chiedere il bando radicale della spiumatura da vivo, una tracciabilità obbligatoria e controllata dalla Commissione europea e non accontentarsi delle garanzie o certificazioni di chi gli vende il piumino. Tra questi, nemmeno tanto tempo fa, pare ci fosse l’ungherese Németh toll, il cui titolare è stato arrestato per frode fiscale e chissà con quale accuratezza ricercava la piuma “tosata” e “legale”.

Ma Moncler non ha voluto svelare chi siano i suoi fornitori, è stata vaga sui luoghi e sui numeri. Ha preferito minacciare un’azione legale. E mostrare come una medaglia il codice etico che garantisce “il rispetto dei principi a tutela degli animali”. Per la prossima collezione.

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MATTIAS MAINIERO, LIBERO 12/11/2014
Mettiamola così: Milena Gabanelli sta dalla parte delle oche. Oche: ovvero, secondo un vecchio stereotipo, stupidità fatta persona. E Patrizio Bertelli, patron di Prada, glielo dice chiaro e tondo: cara Milena, il tuo servizio è «una dimostrazione della stupidità umana». Gesù mio, a sinistra, ormai, si spennano anche sulle oche, dopo essersi spennati sull’articolo 18, la riforma elettorale e su tutto ciò che ben sappiamo. Chissà, forse domani si prenderanno a balene in faccia o a buchi dell’ozono sulla zucca. Dobbiamo ricapitolare: domenica 2 novembre, su Rai3, va inonda Report, la trasmissione della Gabanelli.
Si parla di oche e piumini d’oca, scene da brivido sullo spiumaggio negli allevamenti ungheresi. La Moncler, una delle aziende accusate di aver localizzato all’estero e di lucrare sul maltrattamento degli animali, smentisce tutto e precisa: «Usiamo solo piume acquistate da fornitori obbligati contrattualmente a garantire il rispetto dei principi a tutela degli animali».
Il mondo di internet si scatena, ondata di indignazione sui social network. Tonfo in Borsa del titolo Moncler: meno 4,88%. Un pandemonio. Ma siamo a sinistra, luogo dove la conservazione delle specie (sbagliate), e delle polemiche, ha sempre avuto un posto di rilievo. Non può finire qui. E infatti non finisce qui. Ieri, “Fashion Global Summit” di Milano.
A Patrizio Bertelli, Ceo di Prada e marito di Miuccia, viene chiesto un giudizio sulla trasmissione.
Risposta: portare in televisione il tema dei maltrattamenti alle oche fa parte di una «cultura oramai sorpassata, per questo la Gabanelli è stata stupida». Di più: «Naturale che in un mondo globalizzato un’impresa cerchi risorse produttive con costi più contenuti, per esempio in Ucraina o in Slovenia, e non si può impedirlo in un mercato liberale. Questo non vuol dire che noi dobbiamo fare i carabinieri sui produttori ai quali ci affidiamo.
Lo stesso discorso vale per Prato, dove il popolo orientale ha trovato un’opportunità economica e l’ha sfruttata». Replica di Milena Gabanelli: «Non è illegale produrre all’estero, come non è illegale essere avidi. Ricordo al signor Bertelli che io non sono indagata per elusione fiscale di ben 460milioni». Aggiunta, altrettanto velenosa: «Bertelli investe molte risorse nel monitorare la stampa, ne potrebbe investire un po’ nel monitorare i suoi fornitori, altrimenti i codici etici sono tutta fuffa».
Signori animalisti e non animalisti, dimenticatevi le oche e le crudeltà sugli animali, le balene che si estinguono e i Panda che, a dispetto di tutto ciò che ci avevano raccontato, stanno sempre lì, anche un po’ più numerosi di prima. Ovattata, e mica tanto, da una coltre di piume, chiusa in una giacca a vento ma straripante da tutte le parti, qui c’è una storia diversa. Qui c’è la sinistra che si prende a sberle.
C’è Patrizio Bertelli che sale sul palco della Leopolda come esempio dell’Italia virtuosa e dice ai presenti: «Io Matteo lo conosco da molti anni, non sono venuto qua all’ultima ora» (Matteo, è ovvio, è Renzi, la sinistra imprenditoriale, cene con i vip e milioni di euro). E c’è l’altra sinistra.
C’è Milena Gabanelli, la prescelta (per poche ore) dei Cinquestelle alla presidenza della Repubblica, che con quel suo modo di fare giornalismo difende le oche, anche giustamente, e intanto, molto ingiustamente, affossa in Borsa un’azienda simbolo del made in Italy. Qui c’è l’eterna, intramontabile dicotomia rossa: i ricchi e i poveri, gli intelligentoni e le oche giulive, gli imprenditori e gli operai. In un’Italia in cui -e scusate il gioco di parole - a rimetterci le penne siamo tutti, anche per via di questa sinistra e queste dicotomie.
Qui c’è la Gabanelli, che lavora in Rai, tv istituzionale, canone pagato da noi, antenne una volta asettiche almeno nelle buone intenzioni puntualmente distrutte dalla quotidiana prassi, la Gabanelli che potrebbe dire quattro parole in sua difesa e chiuderla lì. E invece a testa bassa carica: «Bertelli, che vuol dire Prada, ha ragione nel darmi della stupida, sono orgogliosamente stupida, perché le mie tasse le verso fino all’ultimo centesimo; mentre lui, che è indagato per elusione per 470 milioni, può propriamente definirsi furbo».
Disse Pietro Sansonetti, uomo di sinistra che della sinistra ha fatto la sua casa, uomo onesto: Renzi è ostaggio di «due grandi potenze, la magistratura e la Gabanelli, e quando questi vogliono una cosa, la si fa». Dice la Gabanelli a proposito delle industrie che vanno all’estero: «Posso capire una piccola azienda con un margine di guadagno di pochi euro che decide di delocalizzare per sopravvivenza. Capisco molto meno le aziende che hanno margini di guadagno altissimi come Prada». Diciamo noi, umilmente: a quanto pare, i meno ricchi possono, i più ricchi no, non devono permettersi.
Siamo costretti a ripeterci: cari ambientalisti e non ambientalisti, animalisti e nonanimalisti, eccola qui, la sinistra di sempre che decide chi può e chi non può, pesa i portafogli e un sermone dopo l’altro, tra una patrimoniale e uno scoop tutto da dimostrare, ci spenna come fossimo oche. Fine della strasmissione, con il terrore che, fra pochi giorni,arriverà il bis. Non necessariamente su Rai3,Report, conduce Milena Gabanelli. Lo spiumaggio degli italiani è ubiquitario. E di antica data.

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IL POST.IT 6/11/2014 -
Dopo l’inchiesta di Report sull’utilizzo della piuma d’oca da parte di alcune industrie dell’abbigliamento di lusso, come Moncler, e la replica in cui la stessa Moncler ha negato di avere mai utilizzato piume ottenute spesso in modi brutali da animali vivi, oggi il quotidiano Libero è tornato sull’argomento pubblicando parte della corrispondenza avuta dal suo giornalista Nicolò Petrali con Sabrina Giannini, l’autrice dell’inchiesta andata in onda su RaiTre. Lo scambio di email è avvenuto durante la scrittura e in seguito alla pubblicazione di un articolo di Petrali su Libero di mercoledì 5 novembre, nel quale si davano diverse informazioni sulla vicenda e sull’annuncio da parte di Moncler di volere avviare iniziative legali contro Report.
Dopo aver dato conto delle reazioni dello stilista Stefano Gabbana, che aveva pubblicato alcuni tweet molto critici nei confronti di Report e a sostegno di Moncler, Petrali ha riportato alcune dichiarazioni della conduttrice del programma, Milena Gabanelli, che aveva spiegato di non temere iniziative legali e ricordato che sulle etichette dei piumini Moncler non viene indicata “alcuna filiera tracciata contro la spiumatura a vivo”. Gabanelli aveva inoltre ripetuto quanto sostenuto in trasmissione sul tema dei ricarichi applicati da Moncler ai suoi capi di abbigliamento: “si evince dai fatturati e dai costi della materia prima e di confezione che Moncler potrebbe produrre comunque in Italia, invece ha preferito chiudere i laboratori nel sud Italia”.
Nel suo articolo Petrali ha riportato anche la risposta di Moncler alle accuse di Report, nella quale si spiega che la società fa unicamente ricorso a “fornitori altamente qualificati che aderiscono ai principi dell’ente europeo EDFA (European Down and Feather Association)” e che i ricarichi applicati ai prodotti sono quelli tipici del settore del lusso. L’articolo di Libero si concludeva con una critica nei confronti di Report: “Le leggi del mercato, storicamente, non sono prerogativa di quell’area politica a cui fa di fatto riferimento anche Report”.
In seguito alla pubblicazione dell’articolo, scrive oggi Libero, la giornalista di Report Sabrina Giannini ha inviato alcune email a Petrali per rispondere alle critiche contenute nel suo articolo. La corrispondenza è stata pubblicata integralmente da Libero, affinché “il lettore si faccia la sua opinione”.
Nelle prima mail, citata nell’articolo del 5 novembre, Giannini spiega che Moncler era stata contattata durante la realizzazione dell’inchiesta in modo da riferire anche la sua versione, ma che questa ha declinato l’invito limitandosi a dare una breve risposta scritta senza dare informazioni sulla quantità e l’origine dei suoi fornitori di piume. Giannini ha spiegato che Moncler non ha nemmeno risposto alle domande sul fatto se fosse dotata o meno di particolari certificazioni legate al trattamento degli animali e di non avere dato informazioni di una “filiera tracciata appositamente contro la spiumatura dal vivo”. Secondo la giornalista, Moncler avrebbe quindi dato solo risposte “sommarie” e “oggi dice di essere stata inascoltata”.
La seconda email contiene diverse critiche di Giannini nei confronti di Petrali, accusato di non averle segnalato che parte della sua precedente email sarebbe stata riportata nell’articolo del 5 novembre con un virgolettato. La giornalista invita poi a distinguere tra i giornalisti “sul trespolo”, cioè che fanno più che altro lavoro di redazione, e quelli come lei che lavorano “sul campo”. Giannini conclude spiegando che “l’ideologia non conta” e ricordando a Petrali “cosa ho fatto a Di Pietro e sai come la penso”. (Report fece una puntata piuttosto dura su Antonio Di Pietro e alcune presunte malversazioni legate al suo partito, l’Italia dei Valori.)
Le email di Giannini sono piuttosto dure e contengono frasi poco generose nei confronti dei suoi colleghi a Libero. Petrali viene per esempio accusato di non avere “la schiena dritta”, mentre il direttore del giornale viene citato “a proposito di oche”. Giannini conclude la seconda email chiedendosi perché perdere tempo “a farti lezioni gratis di giornalismo”.
La scelta di pubblicare la corrispondenza da parte di Libero è stata criticata, perché non sembra fosse molto chiaro a Giannini che ciò che aveva scritto sarebbe stato pubblicato sul giornale. Petrali ha risposto alle critiche con un post pubblico sul suo profilo Facebook ricordando che con Giannini si è “qualificato come giornalista: è come se l’avessi intervistata in pratica. […] Io ricevo una mail in cui si tira in ballo il giornale e la rendo nota a chi di dovere. Dopo di che il mio compito finisce lì”.
Sempre il 5 novembre, Libero aveva pubblicato in prima pagina un articolo di Filippo Facci con alcune critiche positive a Report, tra le poche trasmissioni ad avere iniziato a dedicare inchieste alle grandi multinazionali ricordando che “scrivere contro Renzi o Berlusconi è facilissimo, il problema è farlo contro un’industria di moda, di automobili, di acqua minerale, un gruppo farmaceutico o telefonico, colossi che governano le nostre vite mentre noi giornalisti ci accapigliamo intorno al patto del Nazareno”.

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IL POST.IT 3/11/2014 -
Moncler, l’azienda italiana di abbigliamento che dallo scorso dicembre è quotata in borsa, ha perso nella mattina di lunedì 3,5 punti percentuali sul mercato. Secondo diversi analisti, la perdita in borsa è stata determinata in parte da alcune valutazioni negative fornite dalla banca francese BNP Paribas, ma in parte anche dalle critiche ricevute dall’azienda in seguito a un servizio del programma televisivo Report andato in onda su RaiTre domenica sera, a proposito di alcune tecniche di produzione della piuma d’oca tra fornitori ungheresi utilizzati, secondo gli autori del servizio, anche da note aziende di moda europee.
La piuma d’oca è tra i principali materiali di imbottitura di uno dei prodotti più famosi e più venduti di Moncler: il piumino, nel senso della giacca trapuntata. Alcuni analisti di mercato italiani hanno detto che la pubblicità negativa di Report avrebbe avuto un impatto sulla clientela italiana.
Moncler ha pubblicato lunedì sulla homepage del suo sito una nota in cui avvisa che l’azienda “utilizza solo piuma acquistata da fornitori obbligati contrattualmente a garantire il rispetto dei principi a tutela degli animali”. Nella puntata di Report di domenica, dal titolo “Siamo tutti oche”, è stato riferito di alcune pratiche di “spiumatura” su oche vive – piuttosto violente – diffuse in Ungheria, uno dei paesi con la più alta concentrazione di allevamenti. L’autrice dell’inchiesta, Sabrina Giannini, sostiene che alcune grandi e popolari aziende di moda, per risparmiare sui costi, si riforniscano in questi territori e in altri – alcuni anche non riconosciuti dai Paesi membri dell’ONU, come la Transnistria, in Moldavia – in cui non esiste una regolamentazione delle attività di spiumatura.
Le normative europee citate durante la trasmissione prevedono che le piume delle oche vengano raccolte un numero limitato di volte all’anno e tramite la tecnica della pettinatura, che causa meno dolore agli animali. Report sostiene inoltre che per ragioni economiche molti produttori utilizzino anche le piume di altre specie animali meno “costose”, come le anatre, il cui piumaggio ha però una qualità inferiore rispetto a quello dello oche.
In un successivo comunicato diffuso lunedì pomeriggio – che cita esplicitamente la trasmissione Report, riconoscendo di fatto un danno d’immagine – Moncler ribadisce che l’azienda “utilizza solo piuma di alta qualità” e per quanto riguarda le tecniche di produzione fa riferimento a un punto del Codice Etico dell’azienda (pdf) che nega la possibilità di ricorrere a pratiche illegali e vietate. Moncler scrive che la sua produzione non ha “alcun legame con le immagini forti mandate in onda riferite a allevatori, fornitori o aziende che operano in maniera impropria o illegale”, e che quelle immagini “sono state associate in maniera del tutto strumentale a Moncler”, perché i suoi fornitori di piuma “sono tutti basati in Italia, Francia e Nord America”.
Nella puntata di Report si parlava, in particolare, di delocalizzazione della produzione da parte delle grandi aziende di moda, per ragioni di riduzione dei costi, e veniva citata la produzione di Moncler in paesi esteri. Nel comunicato Moncler risponde dicendo che “non ha mai spostato la produzione come afferma il servizio, visto che da sempre produce anche in Est Europa”. Un’altra parte della puntata si concentrava su “ricarichi” dei costi di vendita da parte dell’azienda, e a questo proposito Moncler ha risposto annunciando, in conclusione, possibili azioni legali:

Per quanto riguarda i ricarichi, il costo del prodotto viene moltiplicato, come d’uso nel settore lusso, di un coefficiente pari a circa il 2,5 dall’azienda al negoziante, a copertura dei costi indiretti di gestione e distribuzione. Nei vari Paesi la distribuzione applica poi, in base al proprio mercato di riferimento, il ricarico in uso in quel mercato. È evidente quindi che le cifre menzionate nel servizio, che prendono in considerazione solo una piccola parte del costo complessivo del prodotto, sono del tutto inattendibili e fuorvianti. L’azienda ha dato mandato ai propri legali di tutelarsi in tutte le sedi opportune.

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FILIPPO ZULIANI, ILPOST.IT 7/11/2014 -


Domenica due novembre, Report ha mandato in onda un servizio in cui accusa Moncler di fabbricare gli omonimi piumini con piume ottenute con enormi sofferenze delle oche. Il servizio, va detto, non si fermava alle oche ma trattava anche di delocalizzazione, basso costo della forza lavoro, diritti ambientali e, naturalmente, margini di profitto. Tra i tanti spunti di riflessione, tuttavia, la sofferenza delle oche ha calamitato il dibattito in rete e sui media con posizioni poco concilianti tra le parti. La questione sollevata da Report è evidente: è eticamente giusto infliggere grande sofferenza alle oche? In che misura dovremmo preoccuparci dei diritti degli animali? La questione si inserisce nel dibattito filosofico dello specismo, ed è facilmente estendibile alla relazione tra uomo e ambiente. Dovremmo astenerci dall’usare piume di oche? E l’alternativa qual è? L’ovatta di poliestere che proviene dal petrolio non è certo il massimo della coerenza. Dovremmo astenerci dal consumo di carne industriale e diventare vegetariani o vegani? Perché dovremmo emettere meno gas serra? Insomma, qual è il valore della natura e che diritti ha? Animalismo, ambientalismo, NIMBY e anche l’economia produttivista moderna discendono tutte da risposte diverse a queste domande.

In materia di etica ambientale i punti di vista sono fondamentalmente tre: antropocentrismo, patocentrismo e biocentrismo.

Antropocentrismo. È la base tradizionale delle scienze sociali, in particolare dell’economia produttivista moderna. In ottica antropocentrica tutto si misura in termini di benessere umano (anthropos in greco). Animali, piante, ecosistemi, la natura insomma, hanno un valore solamente strumentale in funzione del benessere che ne deriva per l’uomo, il resto è irrilevante. È questo il caso dell’economia moderna, anche nell’accezione ecologico-sostenibile. Contrariamente alla vulgata comune, l’antropocentrismo non si prefigge di devastare il mondo in nome del profitto. Vi è invece un fervente dibattito sui doveri etici verso il prossimo, siano i nostri conoscenti, le persone con cui non veniamo in contatto o financo ancora non nate (le generazioni future, è il caso della sostenibilità economica). L’idea di base dell’antropocentrismo è che qualsiasi essere umano – sano, malato, giovane, vecchio, etero, gay, eccetera – detiene i medesimi diritti, idea mutuata prevalentemente dal movimento illuminista sviluppatosi in Europa più di due secoli fa.

Patocentrismo. Adotta le posizioni etiche dell’antropocentrismo ma assegna agli animali superiori – quelli che provano dolore, pathos in greco, i vertebrati soprattutto – diritti pari all’uomo, non soffrire o non essere uccisi, ad esempio. In quest’ottica hanno maggior valore azioni favorevoli sia per l’uomo che per gli animali, mentre si assegna minor valore a soluzioni ove al beneficio umano corrisponde un dolore per gli animali, come per le oche di Moncler del servizio di Report. Il rifiuto della sperimentazione animale appartiene a questa corrente di pensiero. Naturalmente anche nel patocentrismo esistono sfumature diverse: gli animalisti più moderati ammettono la violazione di alcuni dei diritti animali se ne risulta un vantaggio maggiore per l’uomo, come il già citato caso della sperimentazione animale. Tuttavia, ed è il caso degli anti-vaccinisti, è possibile rifiutare la sperimentazione animale equiparandola alla sperimentazione umana. Va osservato che molte legislazioni moderne contengono già elementi animalisti, ad esempio è proibito torturare gli animali domestici – in ottica antropocentrica se non ne deriva uno svantaggio non vi sarebbe nulla di disdicevole – e anche il divieto di allevamento di polli in batteria in Europa va in questa direzione.

Biocentrismo. Estende i diritti dell’uomo a tutti gli animali, non solo a quelli che provano dolore, e alle piante. È questo spesso il caso dell’ambientalismo più intransigente del no a tutto, in cui i compromessi non esistono: qualsiasi azione umana conduce inesorabilmente alla violazione dei diritti di piante o animali e pertanto va bloccata. Se da un lato è facile etichettare i biocentristi come impallinati che equiparano la vita dei lombrichi o la salute di un bosco a vite umane, alcune posizioni del biocentrismo sono meno estreme di quanto si creda. Se trovate perfettamente normale gettare una lumaca nel fuoco o sradicare piante senza motivo passate oltre. Se invece avete avuto un moto di ribrezzo, non solo siete in compagnia della stragrande maggioranza della persone ma dovreste anche chiedervi perché. Gettare una lumaca nel fuoco o estirpare un fiore non causa danni a persone (antropocentrismo) o animali superiori (patocentrismo) e dunque non vi sarebbe nulla di disdicevole.

Spero sia chiaro da quanto scritto che nessuna delle posizione etiche sopra indicate è completamente assurda. Avendo chiarite le posizioni in gioco, torniamo allora alla domanda iniziale.

Perché dovremmo proteggere l’ambiente? Cominciamo con la risposta non-antropocentrica tipica di certi gruppi animalisti o ambientalisti: dobbiamo proteggere la natura per se stessa, perché ha un valore intrinseco. Questa risposta soffre di tre problemi. In primo luogo, assegnando un valore intrinseco alla natura non è ben chiaro come e in che misura si possano operare dei compromessi. Ad esempio, pale eoliche o sperimentazione animale portano un danno a una parte (uccelli o ratti che muoiono) ma vantaggi all’altra parte (energia e medicine per l’uomo). Il valore della natura è uguale a quello dell’uomo oppure gli interessi della natura hanno una statura morale più elevata? E quanto più elevata? Abbastanza da permettere un compresso?

In secondo luogo, qualcuno davvero conosce quali sono gli interessi della natura che si vorrebbe difendere? Davvero la natura vuole essere preservata? Volendo individuare una costante nella storia naturale del nostro pianeta paradossalmente questa è proprio il cambiamento. Senza voler scomodare l’uomo e l’economia produttivista moderna, il nostro pianeta ha già vissuto cinque estinzioni di massa, eventi positivi – se davvero è possibile assegnare una connotazione morale a un cambiamento naturale – da un punto di vista strettamente evolutivo. Il problema è che per attribuire un valore intrinseco alla natura andrebbe prima chiarito cos’è la natura. È una situazione momentanea da preservare? O un processo evolutivo da favorire? E perché?

In terzo luogo, voler preservare la natura dall’influenza dell’uomo significa implicitamente porre l’uomo al di fuori del mondo naturale, cosa palesemente non vera. L’uomo è parte della natura come qualsiasi altra specie animale. Le manipolazioni umane sugli ecosistemi sono nient’altro che pressione evolutiva – l’ambiente che cambia – almeno nel breve periodo. Non siamo certo l’unica specie che manipola l’ambiente, basti pensare alle dighe dei castori ad esempio, siamo solamente più efficienti nel farlo. Inoltre, se davvero non siamo parte del mondo naturale, dov’è questo mondo naturale bucolico e incontaminato che si vorrebbe difendere? Non v’è quasi alcun ecosistema sulla faccia della Terra che non sia stato fortemente influenzato dall’uomo, tanto in età moderna quanto antica. Basti pensare al disboscamento operato nel medioevo per costruire flotte navali e fabbricare ferro, oppure l’addomesticamento di moltissime specie animali e vegetali – spero nessuna creda che pesche, mele, arance che si comprano al supermercato crescano spontanee in natura – oppure le modifiche al corso di fiumi per agricoltura e allevamento. Se la maggior parte della natura che oggi ci circonda si è evoluta sotto l’influenza umana, dove si trova questa natura incontaminata che saremmo tenuti a proteggere per se stessa? Quello della natura incontaminata e generosa altro non è che un mito cresciuto sul substrato cattolico del giardino dell’Eden. Dallo stesso substrato deriva anche la credenza che introdurre specie esotiche negli ecosistemi nativi sia generalmente un male o che gli OGM siano una pratica contro natura. Le migrazioni di specie animali e lo sviluppo di nuove qualità di piante più resistenti ai parassiti sono invece fenomeni che avvengono spontaneamente in natura per la pressione evolutiva.

A queste domande fondamentali, ahimè, gruppi ambientalisti o animalisti più o meno organizzati spesso non sanno o non possono dare alcuna risposta concreta. È invece probabile che, contrariamente alla vulgata comune, il miglior fondamento etico per la tutela dell’ambiente sia proprio l’interesse umano dell’economia produttivista. Inteso nell’accezione più ampia, infatti, l’antropocentrismo dell’economia moderna non trae vantaggi dalla distruzione degli ecosistema, anzi il contrario. È infatti nel nostro interesse, per esempio, mantenere puliti gli oceani come fonte di cibo. Più complesso invece il caso dei cambiamenti climatici. Mantenere stabile il clima è certamente positivo nella prevenzione dei problemi climatici e delle perdite di benessere che ne derivano, ma va pesato con le perdite uguali e contrarie causate dalla perdita dei vantaggi dei combustibili fossili. Insomma, da una parte è assai probabile che l’aumento della temperatura globale per le emissioni di CO2 causerà una diminuzione della produzione di cibo. D’altra parte è anche vero che lo sviluppo degli ultimi 150 anni è stato possibile solo grazie alla disponibilità di energia affidabile, sicura e versatile come quella fossile ed è solo grazie ad essa se oggi viviamo più a lungo, più sani e meglio. Tutto considerato, è possibile che rinunciare completamente ai combustibili fossili ieri per stabilizzare il clima, come molti gruppi ambientalisti predicano, si traduca anche in una rinuncia forzata oggi a vivere più a lungo, più sani e meglio. Altrimenti detto, non è impossibile che vivere senza combustibili fossili generi più morti di quanti ne prevenga, in un gioco a somma negativa. I compromessi da dirimere non sono sempre semplici.

Non abbiamo ancora toccato il tema dell’etica degli animali. Qualche breve parola prima di chiudere. È difficile non concordare col diritto a non soffrire per tutti gli organismi viventi, ma anche qui le cose sono meno semplici di come appaiono. La sofferenza è un concetto umano, non estendibile a tutto il mondo animale (gli insetti, ad esempio, ne sono estranei). Questo per tacere del fatto che non è proprio chiaro cosa sia la sofferenza per piante o ecosistemi interi. Inoltre, anche ammettendo di poter estere il concetto di sofferenza alla natura nella sua interezza, è possibile definire diversi gradi di sofferenza per negoziare compromessi accettabili? A volte gli interessi degli esseri umani sono in conflitto con gli interessi di animali e piante, ad esempio quando è necessario controllare l’espansione della popolazione di alcune specie animali per proteggere agricoltura e silvicoltura. L’errore tipico degli animalisti è infatti quello di considerare gli animali come intrinsicamente “buoni” e come tali non sacrificabili, ignorando però che la connotazione morale è prettamente umana e non si applica al mondo animale. Gli animali non sono buoni o cattivi. Gli animali sono e basta. E no, non esistono solo i gattini. Molti animali sono predatori ansiosi di riempirsi la pancia per sopravvivere che guardano a noi come noi guardiamo a Burger King.

Concludendo. Nel dibattito ambientale, l’economia produttivista moderna viene spesso attaccata per la sua natura dichiaratamente antropocentrica, dove tutto ruota attorno al benessere umano. Animalisti (patocentrismo) e ambientalisti (biocentrismo) generalmente rifiutano ogni potenziale compromesso in nome di ideologie adamantine – mille vite umane curate non valgono mille ratti morti nella sperimentazione dei vaccini. Al contrario, l’antropocentrismo permette di “usare” gli animali, anche fancedoli soffrire qualora la sofferenza sia giustificata da oggettive esigenze umane. Quali siano queste esigenze oggettive e quanta sofferenza possano giustificare è ovviamente una questione etica da discutere, ma avendo chiari i termini della questione, cioè la necessità del compromesso. Accontentare tutti non è sempre possibile. Insomma, nella difesa dell’ambiente la moderna economia produttivista ha probabilmente molto più da offrire dell’animalismo o dell’ambientalismo, i cui punti di vista sono ancora offuscati da incoerenze e opacità. Probabilmente l’economia moderna è già una base etica sufficiente per un mondo migliore.

Invece che dibattere se siano più importanti gli interessi umani o quelli di animali e ambiente dovremmo porci domande diverse: che tipo di esseri umani vorremmo essere? in che tipo di società vorremmo vivere? E che tipo di relazione vorremmo avere col mondo che ci circonda, animale e vegetale, e che circonderà i nostri discendenti? Ho il sospetto che molte delle conclusioni degli economisti farebbero felici moltissimi tra gli ambientalisti.

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IVAN CAROZZI, IL POST.IT 4/11/2014 -
Domenica sera la trasmissione di Rai 3 Report ha mandato in onda un’inchiesta su Moncler, la nota azienda italiana, quotata in borsa dal 2013, che produce piumini d’oca. Nella prima parte dell’inchiesta, poco più di dieci minuti, una telecamera nascosta ha documentato la brutale modalità con cui, in Ungheria, le piume vengono manualmente strappate, una a una, o a ciuffi, dal piccolo corpo delle oche, per poi venire imballate e rivendute. Al termine del ciclo quelle piume finiranno, secondo Report, nell’imbottitura di un Moncler. Le immagini sono molto forti. Vediamo l’animale soffrire, fino a partorire un verso stridulo, che sentiamo graffiare la maglia del microfono della telecamera e ferirci le orecchie. Questa specie di rito della spiumatura, così apparentemente arcaico e macabro, non più famigliare eppure simile ad altri che hanno accompagnato la storia del rapporto tra uomini e bestie, si consuma in fabbricati miserabili, nel mezzo di una campagna livida, ad opera di una forza lavoro, poverissima, che ci pare ancora quella dei dipinti di François Millet.

Nel resto dell’inchiesta, cioè per 40 minuti, si racconta invece quella che è una vicenda di delocalizzazione. Moncler abbandona da un giorno all’altro le piccole aziende italiane, che si occupavano dell’assemblaggio del prodotto, lasciandole senza commessa e lavoro, per rivolgersi ad aziende attive in Romania, Ungheria, Armenia. Perfino nella leggendaria Transnistria romanzata da Nicolai Lilin in Educazione siberiana. Paesi in cui, com’è noto, si produce a prezzi iperconcorrenziali, anche grazie a vantaggi strutturali. Ovvero salari bassissimi e diritti inesistenti. Così facendo Moncler avrebbe, con spregiudicatezza, realizzato enormi profitti e creato il caso di un piumino-status.

Questo è quanto emerge dalla ricostruzione di Report, a cui l’azienda ha già risposto con un comunicato. Ma scrivo questo post, in realtà, per la seguente ragione: considerare la parabola che ha riguardato i commenti espressi in rete ieri e l’altro ieri. Tweet, status, conversazioni, nonché molti titoli apparsi su diversi siti di news, si sono concentrati, in modo esclusivo, sui primi dieci minuti, o poco più, di trasmissione. Quelli con oggetto il maltrattamento animale. Come mai l’attenzione dei social network, mi chiedo, si è così polarizzata e raccolta su quei dieci minuti, sostanzialmente disinteressandosi del resto? Perché, suppongo, in quei dieci minuti era contenuto l’innesco per una consueta dinamica del mezzo: la polemica, questa volta sub specie animalisti VS resto del mondo. Di conseguenza è risultato immediato, preferibile per la propria compulsione al commento, al mot d’esprit e al posizionamento, abbandonarsi alla polemica sulle oche e dimenticare il resto. E, mi è parso, l’occasione si è mostrata perfetta anche per la partecipazione di un elemento narrativo: l’oca, facile da vittimizzare oppure da parodiare, servendosi in questo caso di un altro strumento dell’eloquenza social: l’ironia (o il sarcasmo o il cinismo).

Ora, nella restante parte dell’inchiesta, Report ha provato, bene o male, a raccontare ciò che si cela nella vita di un manufatto. Per usare il linguaggio di un inchiestista del mondo del lavoro, Karl Marx, Report ha cercato di svelare i rapporti di produzione che la merce, anche per il suo potere di seduzione, offusca. Ma c’è un ulteriore livello di offuscamento. Si produce nella morfologia del commento e della conversazione social. Tale offuscamento è dato dalla forma polemica, come forma prevalente dell’intervento, come forma generatrice di click e traffico, come aleph dell’espressione di sé in rete, in fatale combinazione con un uso deteriorato dell’ironia, che spesso si guasta nel sarcasmo flamboyant, in un cinismo che però funziona, cattura consenso e appare graficamente bello se incorniciato dall’hashtag; ma che ci inibisce al ragionamento, che impedisce di approfittare di un’ora di televisione, in cui, tra l’altro, si parlava del cuore delle nostre vite, del nostro tempo: il lavoro e il lavoro che sparisce.

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ALDO GRASSO, CORRIERE DELLA SERA 9/11/2014
C’è stato — ed è stato piuttosto eclatante — l’«effetto oca». Chiameremo così, d’ora in avanti, l’attitudine di un programma televisivo a catalizzare ascolti e visibilità cavalcando un tema d’immediato impatto emotivo (caffè, pizza…).
Le oche in questione sono quelle spennate per confezionare piumini e diventate protagoniste dell’inchiesta che «Report» ha dedicato ai fatti e misfatti dell’industria dell’abbigliamento di lusso. Ebbene, le oche di «Report» sono valse al programma il record per questa e la scorsa stagione: 3.140.000 spettatori medi, con una share del 13,4%. Si tratta di un ascolto superiore di due punti e mezzo rispetto alla media, oltre seicentomila spettatori in più.
Questi dati non comprendono, ovviamente, tutti coloro che hanno visto – interamente o in parte – la puntata nei giorni successivi, grazie al sito del programma e a Rai.tv: un numero consistente, se si considera che l’inchiesta di Stefania Rimini è diventata rapidamente un «contenuto virale», «spalmabile» dagli stessi spettatori grazie ai social media. Non è un caso che, la scorsa settimana, «Report» sia balzato al terzo posto nella classifica dei programmi più twittati di Nielsen Italia, preceduto soltanto da «X Factor» e «Pechino Express» (due programmi di intrattenimento).
Piume e cinguettii raccolti fra un pubblico giovane e giovane-adulto (quarantenni col miglior share, al 16%), educato (laureati addirittura al 27%), più femminile (15%) che maschile. Triplice morale della favola: con il talk politico in ribasso (Michele Santoro, Massimo Giannini, Giovanni Floris…) risalgono le quotazioni dell’inchiesta; tv e social network, «convergendo», si rinforzano a vicenda; la miscela che ne esce – all’incrocio fra vecchi e nuovi media, fra televisione e internet – può rivelarsi micidiale per chi finisce sul banco degli imputati.

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COLIN WARD, DAGOSPIA 12/11/2014
Patrizio Bertelli che insulta Milena Gabanelli, dandole della “stupida”, non merita l’attenzione dei giornaloni di carta pesta. L’evidente scivolone di Mister Prada, grande inserzionista pubblicitario, suggerisce l’oblio ai vari Corriere, Stampa, Messaggero, mentre Repubblica se la cava con 15 righe imbarazzate a pagina 27. Complimenti a tutti quanti.

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AGI 3/11/2014 -
Allevamenti industriali da 5mila a 10mila oche appositamente allevate per la produzione di piume, ricavate tramite spiumatura in vivo: "una sofferenza atroce che viene ripetuta piu’ volte sino a quando l’animale muore o non e’ in grado di produrre piume di ’qualita’’". Lo sottolinea la Lav, rilevando che questo e’ l’argomento al centro dell’inchiesta "Siamo tutti oche" - realizzata da Sabrina Giannini e trasmessa nella puntata di Report di ieri. "Strappare le piume ad un’oca viva e’ una pratica estremamente violenta: 2 minuti per spennare a mano un’oca adulta e ottenere circa 200 grammi di piuma - osserva la Lav - e le immagini trasmesse sono decisamente eloquenti e squarciano il velo di ipocrisia che cela la brutale realta’ della produzione di piumini: tutti gli animali, infatti, presentano lesioni che vengono ricoperte con pennellate di mercurio cromo per tamponare le abrasioni; almeno il 20% riportano ferite cosi’ gravi che richiedono una improvvisata sutura per bloccare le emorragie". Il piumino, dichiara il responsabile Lav Simone Pavesi, "oltre che un prodotto eticamente inaccettabile perche’ produttivo di enormi sofferenze animali, non e’ difendibile neanche dal punto di vista delle prestazioni. Per questo motivo, e per le evidenze emerse nella trasmissione di Rai3 - aggiunge - abbiamo chiesto un incontro con la Moncler per confrontarci su scelte commerciali alternative a quelle che sfruttano gli animali, considerando inoltre che il loro Codice etico non fa alcun riferimento alla pratica della spiumatura".
In Italia, ricorda la Lav, l’articolo 19 del decreto legislativo 146/2001, "vieta a partire dal 1* gennaio 2004 la spiumatura di volatili vivi, ma sul mercato nazionale e’ possibile acquistare prodotti con piume ottenute con questa crudele pratica e ricavate da animali allevati all’estero. Per la tutela di milioni di oche (e altri anatidi) e’ quindi necessario - conclude la Lav - vietare il commercio di prodotti che contengono piume".

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FAUSTO NICASTRO, IL FATTO QUOTIDIANO 4/11/2014 -
Proteste, boicottaggi e petizioni. Sono gli effetti della puntata di domenica di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli su Rai3, sul marchio Moncler e la violenta “spiumatura” delle oche per l’imbottitura dei giubbotti di alta moda. La presidente dell’Ente protezione animali (Enpa), Carla Rocchi, dice: “È una pratica selvaggia. E come Moncler si comportano altre aziende che utilizzano questo materiale. Mi viene da ridere quando provano a difendersi dicendo che adottano un codice etico sulle forniture. Questa filiera non è controllata e non è controllabile. Nessuna azienda che delocalizza nell’Europa dell’est può garantire una produzione etica”. Dopo l’inchiesta firmata dalla giornalista Sabrina Giannini, l’Enpa ha lanciato una petizione: “Chiediamo alla Commissione europea di mettere al bando la spiumatura delle oche e introdurre controlli per evitare situazioni di illegalità. La petizione è rivolta anche alle aziende e a Confindustria affinché pongano fine alle torture e allo sfruttamento delle oche per le piume e utilizzino finalmente imbottiture sintetiche”. L’Enpa non vuole contrastare soltanto il marchio Moncler ma “tutti i capi di abbigliamento che contengono parti animali”.
La lega antivivisezione, dopo la puntata di Report, chiede un incontro ai vertici di Moncler per arrivare a scelte commerciali alternative a quelle che prevedono lo sfruttamento degli animali. Simone Pavesi, responsabile moda sostenibile di Lav: “Collaboriamo con molte aziende e riusciamo a ottenere qualche risultato. È inaccettabile che ancora si continui a utilizzare il piumino d’oca invece di tanti altri materiali alternativi, considerando anche che il codice etico di Moncler non fa alcun riferimento alla pratica della spiumatura. Oltre a essere un prodotto poco etico, perché prodotto causando enormi sofferenze per agli animali, non è difendibile neanche dal punto di vista delle prestazioni. A marzo, abbiamo condotto alcuni test di comfort, mettendo a confronto proprio un prodotto Moncler in vera piuma con due prodotti realizzati con materiali alternativi, dimostrando che questi ultimi sono più traspiranti e solo leggermente meno caldi”. Anche Greenpeace si batte da anni per una produzione sostenibile dei capi di abbigliamento. Chiara Campione è responsabile della campagna Detox: “Tutti i brand hanno impatti ambientali. Sia quelli con prezzi popolari che quelli di fascia alta. Anche il lusso comporta pratiche disumane”. Il problema di immagine per Moncler è evidente anche dalle reazioni sui social network. Il caso è stato uno degli argomenti più discussi su Twitter, dove spopola il parallelismo tra oche e clienti spennati.
Su Facebook, invece, i toni sono molto più accesi: insulti, minacce di boicottaggi, clienti pentiti e tanta rabbia per l’ipocrisia della delocalizzazione di un marchio che fa dello stile italiano il suo punto di forza. L’azienda di Remo Ruffini sta vivendo quella che viene definita dagli esperti di comunicazione una “social media crisis”. La dinamica ricorda gli attacchi subiti da Guido Barilla, presidente del gruppo, quando disse che non voleva inserire famiglie gay negli spot della sua pasta. Barilla fu costretto a scusarsi, Ruffini, invece, ancora non commenta.
Fausto Nicastro, il Fatto Quotidiano 4/11/2014

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4/11/2014
Libero,
Non è bastata la replica ufficiale della Moncler a rassicurare gli operatori di Borsa. Il marchio di abbigliamento di proprietà dell’imprenditore Remo Ruffini ha continuato a viaggiare in negativo a Piazza Affari per tutta la giornata, chiudendo a -4,8%. Colpa di Report. Il programma Rai di Milena Gabanelli domenica sera ha ricostruito le fasi della produzione dei giacconi, mettendo sotto accusa le tecniche utilizzate per procurarsi le piume d’oca. La normativa europea prevede che il piumaggio venga raccolto mediante pettinatura, una tecnica che non causa dolore agli uccelli. Secondo la ricostruzione della trasmissione televisiva, invece, le piume che poi finiscono nei capi Moncler verrebbero strappate agli animali vivi, senza alcun tipo di rispetto della normativa vigente e provocando lacerazioni alla pelle. Report ha messo poi in dubbio anche la qualità di queste piume, che sembra vengano messe assieme ad altre di valore più scadente prelevate per esempio da altri uccelli come le anatre. Ma non è tutto. Sotto processo è finito anche il prodotto finale. La colpa, in questo caso, sarebbe quella di assemblare i giacconi non in Italia, ma nell’Europa dell’Est: Romania ma anche Armenia e anche Transnistria, uno Stato auto-proclamato facente parte del territorio della Moldavia, non riconosciuto dalle Nazioni Unite. Non contenta, la Gabanelli ha infine puntato il dito sul prezzo finale del prodotto, che sarebbe di molto sovraccaricato rispetto a quanto prendono i terzisti. Quest’ultimi, secondo la versione fornita da Report, ricevono per ogni capo un compenso che si aggira tra i 30 e i 45 euro, mentre sul cartellino, in negozio, il prezzo sale fino a raggiungere i 1.200 euro. Piccata, e con promesse di querela, la risposta dell’azienda. «Moncler», si legge in una nota diffusa ieri, «specifica che tutte le piume utilizzate in azienda provengono da fornitori altamente qualificati che aderiscono ai principi dell’ente europeo Edfa (European Down and Feather Association), e che sono obbligati contrattualmente a garantire il rispetto dei principi a tutela degli animali. Tali fornitori sono ad oggi situati in Italia, Francia e Nord America. Non sussiste quindi alcun legame con le immagini forti mandate in onda riferite a allevatori, fornitori o aziende che operano in maniera impropria o illegale, e che sono state associate in maniera del tutto strumentale a Moncler». Quanto alla «delocalizzazione» la Moncler fa sapere che «non ha mai spostato la produzione, come afferma il servizio, visto che da sempre produce anche in Est Europa». Per quanto riguarda i ricarichi, infine, «il costo del prodotto viene moltiplicato, come d’uso nel settore lusso, di un coefficiente pari a circa il 2,5 dall’azienda al negoziante, a copertura dei costi indiretti di gestione e distribuzione». Mentre «nei vari Paesi la distribuzione applica, in base al proprio mercato di riferimento, il ricarico in uso in quel mercato».
Alessandro Antonini
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il Giornale,
«Stanno cercando di fare alla moda quel che è stato fatto alla nautica: un’industria distrutta dai pregiudizi, come se tutti i proprietari di barche fossero evasori o faccendieri». Claudio Marenzi, presidente di Sistema Moda Italia, l’associazione di Confindustria che riunisce le 48 mila aziende del tessile-abbigliamento, è seriamente preoccupato per l’attacco al lusso travestito da giornalismo verità della trasmissione Report in onda domenica sera su Rai 3.
Non è la prima volta che Gabanelli se la prende con la moda, secondo lei perché?
«Una settimana fa se l’è presa con i pizzaioli e domenica con la moda o, meglio, con Remo Ruffini di Moncler: l’ha preso di mira, un attacco così diretto da sembrare quasi personale».
Veramente ha attaccato anche Prada che aveva già fatto a fettine in precedenza.
«Appunto, c’è una volontà masochistica di andare a cercare il male nelle aziende che vanno bene».
Secondo lei perché?
«Non ho certezze, posso solo azzardare ipotesi. Prima di tutto l’invidia è un sentimento molto distruttivo che si nutre di faziosità. E poi è facile prendersela con un settore che sembra, ma non è affatto frivolo. Il nostro è un mondo industriale serio, impegnativo e che funziona a dispetto di tante difficoltà. Nel manifatturiero siamo secondi solo alla meccanica tra quelli che contribuiscono di più allo sviluppo del Paese. Abbiamo una bilancia commerciale positiva per 10 miliardi su 52,5 di fatturato globale del comparto in crescita del 3,6% rispetto al 2013 e con un aumento delle esportazioni del 5,5%».
A quanta gente date lavoro?
«A 480 mila addetti. Attenzione però: nelle 48 mila aziende di Smi abbiamo dal piccolo laboratorio che produce per conto terzi ai grandi marchi tipo Armani o Prada. Se parliamo di lusso non abbiamo un dato consolidato, ma direi il 15% del totale, cioè 72 mila persone».
Ma il lusso può essere prodotto solo in Italia come dice Report?
«Questo è un punto cruciale. Loro a dir la verità fanno di ogni erba un fascio instillando l’idea che il lusso sia prodotto ovunque fuorchè in Italia. Non è così. Ci sono alcune lavorazioni molto semplici dove la qualità percepita è così bassa che non conviene produrre qui. Con la mia azienda (la Herno di Intra, ndr) produco il 60% sul territorio nazionale e il resto in Romania. Lo dico fuori dai denti come l’ha sempre detto Ruffini. Il vero problema è un altro».
Quale?
«Noi imprenditori stiamo lottando da tempo per rendere obbligatoria la certificazione "made in" su tutti i prodotti non food, ma i Paesi del nord Europa, Germania in testa, non ne vogliono sapere. La volontà popolare si è già espressa largamente a favore di questa normativa con 476 voti e 75 contrari. Peccato che a livello europeo l’ultimo passaggio di una normativa sia dato dal consiglio dei primi ministri e su questo siamo in minoranza per cui non passa».
Così avremmo la famosa tracciabilità anche per le piume delle povere oche?
«Ma anche quella è una forzatura. Certo l’hanno fatto vedere, per cui c’è qualcuno che usa piume d’oca o di anatre spennate vive con quei metodi atroci, ma è un sistema talmente antieconomico che non mi sembra praticabile da una grande industria del lusso. Poi il discorso sul divario tra costi e ricavi era incredibilmente superficiale: non ho sentito menzionare cose costosissime per qualsiasi impresa: ricerca e sviluppo, prototipi, struttura commerciale, retail, ammortamento costi dei negozi, pubblicità».
Ma è vero che un’ora di lavoro in Italia costa 16 volte di più che in Cina?
«Dicono. Di sicuro in sei Paesi dell’Est Europeo il costo medio della manodopera tessile è 6,7 dollari Usa contro i 22,67 dell’Italia. Perfino la Svizzera costa meno di noi. Siamo il Paese più caro del mondo».
Daniela Fedi
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il Giornale,
Il lusso made in Italy è ossigeno per il Paese. Il solo alto di gamma relativo agli articoli personali, quindi abbigliamento, cosmetica, accessori, gioielleria e orologeria, vale 56 miliardi di euro (su un mercato mondiale di 223 miliardi), secondo i dati del Monitor Altagamma 2014 realizzato da Bain&co e dalla stessa Fondazione. Ovvero basta il fashion per ripagare i costi dell’energia, visto che il Paese ha speso nel 2013, secondo le stime 2013 dell’Unione Petrolifera, 56,1 miliardi (di cui 30,8 per il petrolio e 20,1 miliardi per il gas naturale).
Non solo. Il settore, secondo l’ultimo studio Global Powers of Luxury Goods di Deloitte, vanta un vero e proprio primato nel mondo: l’Italia, con 23 aziende sulle 75 prese in considerazione, è il Paese più rappresentato e quello che vanta il tasso di crescita più accelerato (il fatturato nel biennio 2011-2012, l’ultimo esaminato, è salito del 26,9%). D’altro canto nell’immaginario collettivo, la moda è italiana, è simbolo del Belpaese tanto quanto il David di Michelangelo. Non è un caso se «Il diavolo veste Prada» o se Richard Gere, in «American Gigolo», sceglie un completo Armani. L’italian style come simbolo di eleganza, qualità eccellente e attraente design è un dato di fatto riconosciuto nel mondo, a iniziare proprio dai grandi blockbuster americani. Un patrimonio da custodire e valorizzare. Tanto più poi, se si allarga l’orizzonte anche ad articoli non propriamente ritenuti alto di gamma. Abbigliamento, accessori e pelletteria valgono all’incirca 80 miliardi e impiegano, nei trentuno distretti produttivi del settore, oltre un milione di persone.
Ma non c’è solo la moda di elevata qualità. Il gusto del buono e del bello italiano genera miliardi di fatturato dai vini, dai prodotti gourmet, dalle macchine agli yatch, dal design e infine dagli hotel. Un vero e proprio universo che, secondo gli ultimi dati di Altagamma, vale 103 miliardi in tutto (sugli 865 del mercato mondiale degli articoli di lusso), il 7% circa del Pil, impiega 174mila addetti diretti e altri 317mila indiretti ed esporta poco meno del 50% della produzione. Un patrimonio che si auspica possa crescere ancora. Anche perché sono numerosi i settori su cui si potrebbe ancora fare di più. Se nel design il made in Italy rappresenta l’80% circa del mercato globale (pari a 18 miliardi di euro), colpisce come nell’alimentare e nei vini, emblemi dell’eccellenza italiana nel mondo, la nostra quota di mercato sia ancora modesta (pari al 23% e al 10%). Colpa della frammentazione sul territorio e della mancanza di una visione globale che, spesso e volentieri ci ha fatto perdere terreno di fonte alle multinazionali.
Cinzia Meoni

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ROBERTO GIARDINA, ITALIAOGGI 11/11/2014
OCHE, PIATTO NAZIONALE TEDESCO –
da Berlino
Tra le mie perverse abitudini da italiano che vive da troppi anni in Germania, c’è anche quella di aver dimenticato le lenzuola. Dormo avvolto in un piumino di penne d’oca, fresco in estate, caldo fin troppo d’inverno. E quando Berlino scende sottozero, e a volte arriva a meno 15, mi copro con giaccone imbottito di piume.
Non un Monclair, uno qualsiasi, purché sia leggero e impermeabile al gelo e alla neve. In Italia ci si è giustamente indignati per i pennuti spennati con crudeltà. Sono sicuro che la Gans, l’oca, che mi ha ceduto le sue penne, quelle più leggere del petto, sia stata trattata secondo le regole. Gli ecologisti e gli animalisti teutonici sono, ritengo, affidabili.
Le oche, i tedeschi non le spennano con la crudeltà di un De Sade, però se le mangiano. Oggi è il Martinstag, il giorno di San Martino, e comincia per tradizione il periodo degli arrosti natalizi. Le oche e le anatre finiscono sul piatto. Secondo la leggenda, le oche avrebbero tradito Martino che si era nascosto tra loro perché non voleva essere nominato vescovo. Oggi, vengono sacrificate a suo nome.
Al pranzo di Natale, al primo posto come piatto preferito troviamo il Wurst, la salsiccia. Come dubitarne? Al secondo la Gans, l’oca, seguita dalla carpa bollita con Merretich, la salsa al rafano.
Di oche se ne consumano 32 mila tonnellate, non so quanti volatili siano, ma basta calcolare che un’oca arriverà in media a cinque chili, e fare la moltiplicazione. Solo 4.500 tonnellate provengono da allevamenti in Germania, le altre dalla Polonia e dall’Ungheria. Una piccola parte viene fornita dall’Ucraina. A seconda della qualità, il prezzo varia dagli otto ai 16 euro al chilo. Ogni tedesco, compresi i neonati, ne consuma 400 grammi, una porzione modesta. Le oche della Mitteleuropa costano meno, e si presume siano allevate con meno attenzione. Vengono lasciate pascolare (si dirà così?) liberamente per un periodo più breve delle oche germaniche, 14 settimane invece di 22, dunque sono meno sane e più grasse. Il fegato d’oca è tutto d’importazione perché è vietato produrlo in Germania, sempre per evitare inutili sofferenze ai volatili.
La mia unica esperienza con le oche è stata quasi drammatica. In un paesino della Baviera, 300 abitanti, tutti avevano votato per l’Npd, il partito neonazista. Così decisi di andare a visitarlo. In realtà era un insieme di alcune fattorie. Appena giunsi in auto in un’aia, fui aggredito da un centinaio di oche indispettite, che giungevano al mio finestrino. Almeno una delle storie di scuola veniva confermata: le oche avranno sul serio difeso il Campidoglio, non era una leggenda. Non c’entra, ma sempre in tema di volatili, anche i cigni non sono pacifici. Meglio stare alla larga, quando scendono a terra. Con un colpo di becco hanno già ucciso diversi bambini imprudenti.
Per gustare le Gänse a Natale, è meglio già prenotare: i ristoranti che le cucinano bene, con mele al forno alla polacca, con crauti rossi e patate bollite, o knödel alla tedesca, tra poco saranno esauriti. Con buona pace dei vegetariani.
Roberto Giardina, ItaliaOggi 11/11/2014