Antonio Cianciullo, il Venerdì 14/11/2014, 14 novembre 2014
SCORIE NUCLEARI: NESSUNO LE VUOLE MA IL TEMPO STA PER SCADERE
ROMA. È scattato il countdown per decidere il sito del deposito nucleare: la lista dei luoghi potenzialmente idonei a ospitare le scorie radioattive dovrà essere pronta per i primi di gennaio. E, mentre si danno gli ultimi ritocchi all’elenco, il rosario dei no ripercorre 40 anni di battaglie anti nucleari. «In Basilicata non se ne parla» taglia corto Donato Nardiello, presidente del Comitato Scanziamo le scorie. «Abbiamo già bloccato tutto nel 2003 e siamo pronti a tornare in strada». «La Maremma è fuori gioco perché è zona sismica, è soggetta a gravi fenomeni di alluvione ed è un’area ad alta vocazione turistica» fa eco Gianni Mattioli, leader storico delle proteste contro la centrale nucleare di Montalto di Castro. Anche in Piemonte, che ospita il 96 per cento dei materiali radioattivi presenti in Italia, la preoccupazione è forte: «Perché ci si ostina a colare cemento per mettere toppe provvisorie ai depositi nell’area Eurex di Saluggia o a Trino, quando questi luoghi tra pochi anni dovranno tornare a essere un prato verde?» chiede Gian Piero Godio, responsabile Legambiente di Vercelli.
A complicare ulteriormente le cose è arrivata la decisione del governo di mettere il segretario generale del ministero dell’Ambiente Antonio Agostini a capo della struttura che deve garantire il processo di messa in sicurezza delle scorie radioattive (l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione). Una mossa che ha scatenato proteste immediate. «Si tratta dell’ennesimo scandalo all’italiana che non può passare in sordina. Agostini è un uomo legato all’apparato del vecchio potere politico e non ha alcuna competenza in materia, come invece richiederebbe il buon senso e come indica chiaramente la legge» tuona il senatore 5 Stelle Gianni Girotto.
E tuttavia, sotto il battere dei tamburi di guerra, si respira un’atmosfera diversa da quella che si percepiva all’epoca del tentativo berlusconiano di imporre, con una prova muscolare presto fallita, la scelta del sito di Scanzano. La prima differenza è che questa volta il capitolo del nucleare è stato sepolto in profondità in Italia dal secondo referendum del 2011 (vinto dagli ambientalisti con il 95 per cento di consensi) e su scala globale si inabissa lentamente, trascinato in basso dalla crescita dei costi e dall’aumento delle preoccupazioni dopo il disastro di Fukushima.
La seconda differenza sta nella precarietà della sistemazione provvisoria delle scorie radioattive: i locali che ospitano i materiali nucleari sono stati costruiti per durare alcuni decenni e il tempo sta scadendo. Dal Piemonte alla Basilicata ora sono gli stessi ambientalisti a chiedere maggiore sicurezza.
Già l’audizione alla Camera dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, il 30 ottobre 2013 aveva sottolineato l’urgenza di una soluzione del problema. «Oltre ai rifiuti radioattivi derivanti dal programma nucleare ci sono i rifiuti derivanti da applicazioni mediche, industriali e di ricerca, i quali continuano a essere immagazzinati senza un adeguato processo di condizionamento presso strutture non idonee, in particolare dal punto di vista della localizzazione, a una gestione di lungo termine» avevano dichiarato i dirigenti dell’Ispra. «In tale contesto sono emerse negli anni alcune situazioni di particolare criticità».
«Si tratta di dare piena esecuzione alla volontà referendaria di chiudere per sempre l’era del rischio nucleare» afferma ora Stefano Leoni, presidente dell’Osservatorio per la chiusura del ciclo nucleare creato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile. «Per motivi di sicurezza le scorie non possono rimanere ancora a lungo negli oltre venti siti non progettati per questo scopo. Bisogna trovare il luogo adatto per evitare ogni genere di rischio. Ma per ottenere il via libera va reimpostato lo spirito della norma, varata ai tempi in cui il governo di centrodestra aveva deciso il rilancio nucleare e tentava la prova di forza invece della collaborazione con i territori».
La Sogin, la società del ministero Economia e finanze incaricata del decommissioning, ha già costruito una mappa dei possibili siti lavorando per sottrazione e ai primi di gennaio, secondo i tempi previsti dal decreto legislativo 31 del 2010, la consegnerà all’Ispra. Dalla cartina dell’Italia sono state tolte lagune, zone protette, miniere, dighe, poligoni di tiro e tutte le aree con una delle seguenti caratteristiche: sismiche; soggette a frane o ad alluvioni; sopra i 700 metri di quota, sotto i 20 metri di quota; a meno di 5 chilometri dal mare; a meno di un chilometro da ferrovie o strade di grande importanza; vicino alle aree urbane; accanto ai fiumi.
Eliminate le aree da escludere, nella mappa restano evidenziati un centinaio di siti potenzialmente idonei sparsi in una dozzina di regioni. In uno di questi luoghi (la lista è ancora segreta) si dovrà lasciare un chilometro quadrato libero per realizzare il progetto che si compone di due parti. La prima è il deposito nazionale di superficie in cui i barili con le sostanze contaminate verranno avvolti da tre diverse protezioni in calcestruzzo e cemento e poi messi in celle sigillate e ricoperte con più strati di materiale impermeabile. La seconda è il parco tecnologico: un centro di ricerca specializzato nel campo del decommissioning.
Per realizzare l’intera struttura, che darà lavoro stabile a settecento persone, sono previsti un investimento di 1,5 miliardi di euro e quattro anni di lavoro. Il 60 per cento dei 75 mila metri cubi di scorie previsti verrà dallo smantellamento delle centrali nucleari; il 40 per cento da attività diagnostiche e terapeutiche di medicina nucleare, da laboratori di ricerca e da alcuni settori industriali (questi rifiuti crescono di 500 metri cubi all’anno).
C’è poi il problema delle scorie ad alta attività che devono tornare dalla Francia, dove sono state riprocessate per renderle più maneggiabili. Sommate a quelle provenienti dallo smantellamento, fanno un totale di 15 mila metri cubi di rifiuti non adatti al sito: resteranno infatti pericolosi per decine di migliaia di anni mentre il resto delle scorie destinate al deposito tornerà ad avere valori radioattivi normali nell’arco di 300 anni. Non è detto comunque che questi rifiuti restino in Italia: gli accordi europei prevedono un luogo nazionale per i materiali a bassa attività, mentre per il deposito geologico in profondità può essere individuato un sito utilizzato da vari Paesi. Per il momento c’è un unico cimitero nucleare di questo tipo: si trova nel New Mexico e ospita i materiali provenienti dai programmi militari degli Stati Uniti. «Per le scorie ad alta attività bisognerà trovare una soluzione definitiva» ha dichiarato Riccardo Casale, amministratore delegato di Sogin, durante un recente convegno all’Università Bocconi. «L’importante è impostare con la massima trasparenza il dialogo con i territori per il deposito a bassa e media attività. La creazione di questa struttura è infatti un passaggio necessario per chiudere il capitolo del rischio nucleare. E anche una possibilità per utilizzare in modo economicamente conveniente un bagaglio straordinario di conoscenze che il Paese possiede».
Dopo Fukushima è nato infatti il nuovo business nucleare: lo smantellamento. Con le norme di sicurezza più severe, è ormai difficile prolungare il funzionamento delle centrali una volta raggiunto il fine vita previsto. Dovranno chiudere. E il decommissioning da oggi al 2050 svilupperà un fatturato globale pari a 165 miliardi di euro che, se si calcola la bonifica del territorio occupato dagli impianti, salgono a 600.
Antonio Cianciullo