Salvatore Tropea, il Venerdì 14/11/2014, 14 novembre 2014
IL PARTITO È CAMBIATO. E IL SUO GIORNALE SE N’È ANDATO
TORINO. Da Antonio Gramsci a Daniela Santanchè e da Leonida Bissolati a Valter Lavitola. Solo una mente fantasiosa e perfida avrebbe potuto immaginare questa parabola che sintetizza tristemente la fine dei giornali di partito italiani che per molti aspetti incrocia e si spiega anche con il declino della politica del Novecento. Uno dopo l’altro sono usciti di scena senza che neppure i fondi pubblici, spesso non giustificati dalle tirature, potessero arrestare una caduta inesorabile: qualcuno con un certo clamore, altri in sordina. Chi riuscendo a ricavarsi un piccolo spazio nella storia italiana del secolo scorso e chi finendo nella cronaca giudiziaria sui finanziamenti illeciti dei partiti o ancora peggio. L’ultima volta che è suonata la campana è stato per l’Unità, scomparsa in un giorno dell’estate scorsa dalle edicole quando già si parlava di un’offerta della «Pitonessa» del Pdl e della giornalista e conduttrice televisiva Paola Ferrari, poi finita nel nulla.
Adesso sembra che il quotidiano debba riprendere le pubblicazioni non si è ancora capito bene per conto di chi e con quale ruolo che, in ogni caso, difficilmente potrà essere quello assolto dal giornale dell’ex Pci per larga parte dei suoi novant’anni di vita. Sorte peggiore era toccata all’Avanti! quando, nella prima metà degli anni Ottanta, era finito nelle mani del faccendiere Valter Lavitola, prima craxiano poi berlusconiano e infine ospite del carcere di Poggioreale. Gli altri giornali di partito si erano già perduti per strada, scomparendo del tutto o infilandosi in itinerari tortuosi verso palingenesi on line e continuando a drenare fondi pubblici spesso per conto di fondazioni facenti capo a qualche capopolo della nuova geografia politica tricolore.
«Sono stati un pezzo della storia del Novecento e soprattutto dei partiti di massa di questo secolo, nati e morti con esso» osserva lo storico Giovanni De Luna, che ricorda di aver pubblicato i suoi primi articoli proprio sul giornale del Pci. «Non è pensabile che possano sopravvivere con la rete. Con l’Unità di allora c’era un rapporto fisico, attraverso lo strillone della domenica, una prossimità che la rete non potrà mai avere». Insomma un meccanismo che la generazione dell’iPod ignora e quella precedente ha rimosso nella sua marcia di allontanamento dai partiti e dalla politica. Eppure era un mondo che aveva avuto un suo ruolo e chi ha più di trent’anni lo ricorda. E non fatica a ricordare anche i suoi protagonisti. Erano militanti di ferro, spesso con doppia tessera in tasca, quella del Pci e quella della Cgil, frequentatori assidui delle sezioni di appartenenza, attivisti volontari delle feste del giornale, in non pochi casi figli di comunisti e padri di comunisti, sposati con una compagna di partito. Operai, impiegati, insegnanti, studenti, pensionati: tutte le domeniche e i giorni di festa, di prima mattina, si trasformavano in strilloni silenziosi del quotidiano l’Unità, ossimoro che traduceva la loro spontanea, convinta e mai retribuita attività di diffusori casa per casa del giornale. Terreno di battaglia, le grandi periferie operaie e piccolo borghesi delle città industriali del Nord Italia, da Torino a Milano a Genova. Ma era quello un meccanismo che, forse con minore ardore, funzionava anche a Roma, Napoli, Palermo, ovunque fosse forte la presenza del Pci. Il loro non diventò mai un mestiere, ma fu sempre un atto di fede che, a partire dal secondo Dopoguerra e fino agli anni Ottanta, consentì al quotidiano fondato nel 1924 da Gramsci di essere il primo organo di partito in Italia, con tirature che in certi giorni lo collocavano saldamente tra i primi cinque giornali più venduti nel Paese.
L’Avanti!, organo dei socialisti, e più antico tra i giornali di partito del Novecento essendo stato fondato nel 1896, utilizzava solo in parte lo stesso tipo di diffusione, perché il Psi poteva contare su un numero di militanti più limitato rispetto a quello dei comunisti; perché nelle sue file non c’era lo zelo ortodosso dei compagni del Pci; e perché si affidava alle campagne di abbonamenti. Ma ebbe egualmente e a lungo un seguito di «fedeli» che non rinunciavano ad esso e non si lasciavano mai scappare l’edizione domenicale con gli editoriali di Pietro Nenni: celebre quello intitolato Rumore di sciabole, che nell’estate del 1964 denunciò il Piano Solo. E comunque i suoi diffusori volontari si materializzavano puntualmente in giornate particolari come il Primo Maggio o quando si trattava di organizzare i Festival dell’Avanti!
Poi c’erano gli «altri» nel coro delle voci politiche che potevano vantare radici storiche. Il Popolo, fondato da Giuseppe Donati nel 1923, organo del Partito popolare di don Sturzo, poi della Dc e infine del nuovo Partito popolare non ancora Margherita, ebbe a lungo un seguito di lettori del dopo-messa domenicale poi dirottati verso il quotidiano Avvenire. La Voce Repubblicana, nata nel 1921 e morta nel 2013, fu a lungo il giornale di Ugo La Malfa e, negli anni migliori, ebbe un seguito di lettori concentrati nella Capitale e nelle Romagne. I socialdemocratici si fecero sentire con l’Umanità, organo fondato nel gennaio del 1947, dopo la scissione di Palazzo Barberini, primi direttori Giuseppe Saragat e Umberto Calosso, estinto nel 1994. A destra, il Secolo d’Italia, fondato nel 1952, si trasformò poi in organo del Msi e infine di Alleanza Nazionale per continuare on line dal 2012 ma con un seguito di lettori in progressiva diminuzione.
La Padana, organo della Lega, nato negli anni Novanta con Umberto Bossi al comando del movimento, appartiene alla pubblicistica di partito del dopo-Tangentopoli. Come Europa, organo del Pd e altri giornali minori che affollano senza successo i canali on line e di cui nessuno potrebbe avvertire la mancanza il giorno in cui dovessero scomparire. A conferma del fatto che la vera storia dei quotidiani di partito è finita con il triste tramonto dell’Avanti!, per il quale, prima di morire, Antonio Ghirelli aveva proposto la collocazione in un qualche centro studi o in una fondazione per sottrarlo all’ignominia di «padroni» senza onore. Ed è finita anche con l’Unità, che qualche mese fa stava per entrare in un progetto della Santanchè definito dai redattori «incompatibile con la storia del giornale» e adesso veleggia verso soluzioni improbabili. Senza contare la scomparsa di testate come il Riformista, Liberazione e tante altre che sono andate ad allungare la lista degli scomparsi dall’ultima decade del Novecento a oggi.
Autore per Laterza di un’importante storia della stampa italiana, lo storico Valerio Castronovo è convinto che i giornali di partito «sono finiti col Novecento» e quando deve indicare una delle principali ragioni punta il dito sulla leaderizzazione dei partiti e dunque sulla «loro perdita dell’identità collettiva e ideale». «Quei giornali hanno finito col non avere alcun senso quando i partiti di cui erano espressione hanno cessato di essere una componente fondamentale della democrazia rappresentativa». E Giuseppe Ortoleva, docente dell’Università di Torino e studioso della comunicazione, osserva che i giornali di partito «avevano un ruolo di strumento ordinario dei partiti politici quando questi erano un soggetto pubblico che esercitava una importante forma di mediazione». Erano in sostanza l’espressione di forze politiche che parlavano attraverso questi giornali «non potendo fare affidamento sulla cosiddetta stampa indipendente che poi indipendente non era dal momento che faceva capo a grandi gruppi industriali che avevano come principali interessi banche, petrolio, zucchero, automobili». E non sfugge che a partire dagli anni Settanta anche questi ultimi giornali si sono via via adeguati ai tempi e ne sono nati di nuovi che hanno svuotato la funzione dell’organo di partito.
Primo tra tutti, secondo Ortoleva, la Repubblica.