Stefania Rossini, L’Espresso 14/11/2014, 14 novembre 2014
E SE FOSSI IO IL MATTEO DI SINISTRA?
[Colloquio con Matteo Salvini] –
Matteo Salvini ha conquistato la scena pubblica con la velocità che i tempi hanno impresso alla politica. In pochi mesi è diventato un leader capace di sfidare Renzi sul piano del giovanilismo e Grillo su quello del populismo, ha invaso i giornali e le tv con argomenti contundenti, ha riempito le piazze esasperando le parole d’ordine della nuova destra europea. Con lui l’immigrazione si è trasformata in “invasione”, l’Unione europea è stata storpiata in “Unione sovietica”, l’euro è diventato un flagello di dio. Con istinto istrionico, nonostante l’aria da ragazzone stropicciato, ha provocato e si è lasciato provocare, piegando anche le contestazioni più dure a vantaggio della sua popolarità, come è accaduto dopo l’assalto alla sua auto vicino al campo rom di Bologna. È insomma riuscito a far impallidire il ricordo del fallimento etico e politico della Lega, travolta dagli scandali e ridotta al lumicino, portandola nei sondaggi a percentuali mai viste e ottenendo per sé un gradimento da statista.
L’aspirazione a riempire al più presto il vuoto che si è formato a destra lo fa però navigare a vista tra vecchie suggestioni secessioniste e proposte da Front National lepenista. Eccolo allora lanciare un partito nazionale senza rinunciare ai localismi, oscillare tra Roma ladrona e Bruxelles strozzina, cercare bagni di folla al Sud carezzando l’indipendentismo, ottenere l’appoggio degli attivisti di Casa Pound per le manifestazioni di piazza e quello della Cgil per il referendum sulla legge Fornero.
Chiamare un uomo così a riflettere sulla politica, ma anche su se stesso e sul mondo, in un’intervista che non gli faccia ripetere soltanto gli slogan diffusi a raffica ogni giorno, è una piccola sfida che vale la pena tentare.
Matteo Salvini, l’abbiamo sentita pronunciare parole come Italia, nazione, persino patria. Che cosa le sta succedendo?
«Succede che un conto è il cuore, un conto è la testa. E in questo momento la testa suggerisce che dobbiamo parlare alla maggioranza silenziosa degli italiani che chiede qualcosa di diverso. È bene che per ora il cuore rimanga sullo sfondo».
Sta dicendo che traduce in programma ciò che sente nella pancia degli italiani?
«No, mi prendo l’arroganza di essere io ad anticipare i temi. Per esempio, la battaglia contro l’euro l’avevo cominciata un anno e mezzo fa, quando non era popolare, e proprio in questi giorni i no all’euro hanno superato i sì».
Chiariamolo subito: lei pensa seriamente che sia possibile uscire dall’euro?
«È un interrogativo che non mi pongo perché l’euro si scioglierà da solo e chi troverà per primo l’uscita di sicurezza ce l’avrà fatta».
Quale sarebbe la sua uscita?
«Una moneta per l’area sud del Mediterraneo che si opponga alla Germania e ai suoi satelliti. È l’unico modo per far fallire il progetto scientifico di rendere l’Italia un enorme centro commerciale gestito da altri».
Come si prepara a coniarla?
«Per adesso con il lancio di un soggetto politico nazionale che forse si chiamerà “La Lega dei Popoli”, forse no, forse porterà il mio nome, forse no. Non glielo dico. Lo dirò a tutti a fine mese. Ma i temi sono sempre quelli: stop all’invasione degli immigrati, taglio delle tasse, lavoro. L’importante è che gli italiani sappiano che c’è un’alternativa».
Molto a destra, naturalmente. Ma lei non era quello che si sentiva “comunista dentro”?
«Guardi, non ci casco. Destra e sinistra non significano più niente. Comunque sì, a vent’anni avevo fondato i “Comunisti padani” e alcuni valori cosiddetti di sinistra sono sempre stati i miei, come la difesa dell’ambiente, del piccolo contro il grande, la presenza nelle fabbriche...».
È per questo spiritello di sinistra che porta l’orecchino?
«Fu una scommessa con me stesso per festeggiare la fine del servizio militare. L’ho messo allora e non l’ho più tolto».
Lo sa che un tempo l’orecchino è stato un segno distintivo dei gay?
«Non lo sapevo e non ci provi. Io su questa faccenda del matrimonio tra omosessuali non transigo. Dicono che vogliono soltanto questo diritto e poi lo usano come un grimaldello per arrivare all’adozione e a formare famiglie con due padri o due madri, come nei Paesi del nord Europa. Sarebbe una deriva inarrestabile».
Quindi niente diritti?
«Ho tanti amici gay... beh, tanti no, qualcuno, che sono del tutto disinteressati ad andare in Comune a sposarsi, fare le foto e quelle sceneggiate lì. Se ne parla tanto, ma in realtà sono richieste di una minoranza chiassosa. Comunque, se si tratta di dare soltanto diritti che ancora non sono nel Codice civile come l’assistenza sanitaria e pensionistica alle coppie di fatto, sono disposto a ragionare».
Anche perché lei vive da anni in una coppia di fatto.
«È vero, ma sono divorziato, quindi non ci sono problemi di etica.
Come mai non si risposa?
«Sono scelte personali. L’ho fatto una volta e per ora mi è bastato».
Insomma non le è piaciuto il matrimonio.
«No, per carità. I miei genitori sono sposati da quasi cinquant’anni e li guardo con ammirazione e invidia. La verità è che io cerco di essere un bravo padre, ma non sono un compagno consigliabile».
A proposito, lei nasce in una famiglia borghese e agiata, buona educazione, studi classici. Come è venuta fuori quest’aria da figlio del popolo?
«E chi lo sa? Forse dal mio attaccamento al senso del territorio. Avevo nonni trentini e liguri, passavo con loro lunghe estati in montagna e al mare, imparando a conoscere realtà molto diverse. Quando, a 17 anni, ho letto un volantino della Lega lombarda, ho capito che quella era la mia strada».
Che cosa l’ha folgorata?
«Lo slogan “Sono lombardo, voto lombardo”. C’era tutto il fascino delle culture e delle lingue locali, dell’identità vera, non quella ideologica che nel mio liceo contrapponeva giovani comunisti e giovani ciellini. Mi chiamavano fuori della classe e mi davano del razzista, ma io mi ci divertivo».
Si è divertito anche al Consiglio comunale di Milano dove è arrivato a soli vent’anni?
«Lì ho dovuto studiare parecchio. All’inizio non capivo niente, poi ci ho preso gusto. Ero il più giovane e facevo un po’ il Giamburrasca. Lei saprà che una volta mi sono rifiutato di dare la mano a Ciampi e un’altra ho tirato delle uova a D’Alema».
Lo racconta spesso: gesti tipici da pupillo di Umberto Bossi.
«Bossi... quanto l’ho ammirato! Era un leader inimitabile. Ho sempre tenuto una sua foto in camera».
Eppure non ha esitato a umiliarlo nelle recenti primarie per la segreteria con l’82 per cento di consensi. Lei giovane e baldo, lui vecchio e malato. Non si è sentito un parricida?
«Io non c’entro, hanno scelto i militanti. Però Bossi non si tocca. Lì per lì l’ha presa male, ora lavoriamo insieme».
C’è un altro confronto che incombe su di lei. Stessa età, stesso nome, infanzia comune negli scout, partecipazione giovanile per entrambi a quiz televisivi. Non si sente un po’ oppresso dal continuo gemellaggio con Renzi?
«No, perché i miei scout erano laici e i suoi cattolici, il mio quiz in tv si vinceva per competenza su materie scolastiche e non per culo con la Ruota della fortuna. E soprattutto perché a me manca completamente la dote maggiore di Renzi, quella che l’ha portato fino al governo».
Cioè?
«La cattiveria. Solo un uomo cattivo può dire senza vergogna a qualcuno “Stai sereno” e subito dopo fotterlo. Ma ora gli italiani sanno che c’è un’alternativa».
Lei?
«Il mio progetto. Se Marine Le Pen prende la metà dei voti a sinistra, al punto in cui siamo può accadere anche in Italia. Se poi si osserva che Renzi continua a fare politiche da destra tradizionale come la guerra ai sindacati, agli enti locali, ai giudici, a tutti i corpi intermedi, l’alternativa si fa obbligatoria. Per un anno abbiamo vissuto con l’idea che dopo Renzi ci fosse il diluvio universale: non è più così».
Se il nostro destino è avere anche “l’altro Matteo”, si faccia conoscere meglio. Che cosa ama oltre la politica?
«La musica e il calcio, a cui ho giocato per vent’anni. Accanto alla foto di Bossi, tenevo quelle di Franco Baresi e di Fabrizio De André. Quando vado in Sardegna torno sempre a visitare la casa di Tempo Pausania dove De André fu rapito e ogni tanto faccio un salto al cimitero di Stagliano dove riposa».
Quasi un culto. Lei è credente?
«Sono un cattolico un po’ tiepido e vorrei avere più fede. Ora vado ogni tanto a messa e porto i bambini in chiesa ad accendere le candeline. Ma nel passato, nel mio quartiere milanese, Bande nere-Primaticcio, dove mio padre fa tuttora volontariato, ho convinto alcuni preti e suore a votare Lega».
Le piace questo Papa?
«È bravo perché riesce a coinvolgere con un linguaggio comprensibile, ma non vorrei che questa sua volontà di abbracciare il mondo lo portasse a sfumare valori fondamentali, come la famiglia e la distanza dall’Islam».
Meglio tornare ai suoi gusti: letture, cinema...
«Poco di tutto. Quest’anno ho visto Le tartarughe Ninja con mio figlio. Però sono anche andato al “Piccolo” a vedere Paolo Rossi. Se uno è bravo, è bravo, anche se è di sinistra. Lui ed io ci piacciamo e ci stimiamo».
Salvini, lei chiude tutte le sue interviste dichiarando che la sua più grande aspirazione è fare il sindaco di Milano. Sbaglio se penso che ormai miri più in alto?
«Non mi sento di contraddirla».