Vittorio Malagutti, L’Espresso 14/11/2014, 14 novembre 2014
IMPRESENTABILE JUNCKER
A Bruxelles si racconta che un giorno Jean-Claude Juncker spiegò così i suoi imbarazzi linguistici. «A volte faccio fatica a farmi capire, perché quando parlo francese penso in tedesco. E viceversa». La battuta viene ricordata come una delle migliori dello sterminato repertorio dell’uomo politico lussemburghese, conosciuto come conversatore arguto, conferenziere brillante, un prestigiatore della parola che ama conquistare l’interlocutore più che convincerlo. Questa volta però Juncker dovrà superare se stesso. Il presidente, appena nominato, della Commissione europea, sarà chiamato a dirigere le indagini sui presunti aiuti di Stato illegali concessi dal Lussemburgo a centinaia di aziende sotto forma di generosi sconti sulle tasse.
Insomma, Juncker indagherà su Juncker, perché quel sistema finito ora sotto accusa è stato sapientemente elaborato proprio negli anni in cui il futuro presidente della Commissione di Bruxelles era il dominus del Granducato, capo di governo ininterrottamente dal 1995 al 2013. E adesso che lo scoop dell’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), a cui “l’Espresso” ha collaborato, ha alzato il velo su quella efficientissima macchina da soldi, il veterano della politica europea, 60 anni il mese prossimo, sopravvissuto a innumerevoli battaglie, si trova sul banco degli imputati.
È lui il bersaglio del fuoco incrociato della destra euroscettica, di una parte della sinistra e dei media, in prima fila gli anglosassoni “Financial Times” e “Bloomberg”, che ne chiedono le dimissioni. «Non sono l’architetto del sistema fiscale del mio Paese», ha tentato di giustificarsi Juncker mercoledì 12 novembre, dopo giorni di imbarazzato silenzio. Poche parole per negare ogni conflitto d’interessi e impegnarsi solennemente a promuovere l’armonizzazione fiscale. Promesse, ma per salvare l’onore e possibilmente anche la poltrona, servirà un doppio salto mortale dall’altissimo coefficiente di difficoltà. Qualcosa di molto impegnativo anche per l’inaffondabile tra gli inaffondabili, un mandarino della politica europea che sedeva al tavolo della trattativa per il suo Paese già più di vent’anni fa, quando si discutevano il Trattato di Maastricht e l’Unione monetaria, ai tempi di Helmut Kohl e François Mitterrand. E pensare che una manciata di mesi orsono, la parabola infinita di Juncker sembrava ormai arrivata alla fine. «Non sono interessato a incarichi europei», garantiva ai giornali un affranto Juncker nel luglio del 2013. Poche settimane prima era stato costretto a lasciare la guida del governo del suo Paese per un losco affare di spie e schedature di massa di potenziali sovversivi.
Per anni i servizi segreti del Granducato, una sessantina di agenti in tutto, avevano tenuto sotto controllo in modo illegale migliaia di cittadini ritenuti sospetti. E quando la storia venne a galla, il premier prese le distanze sostenendo che tutto si era svolto a sua insaputa. Salvo finire di nuovo sulla graticola di lì a poco, quando Mario Mille, il capo degli 007 lussemburghesi, tirò fuori dal cassetto le registrazioni dei suoi colloqui con Juncker in cui, già nel 2008, informava il capo del governo di quei dossier segreti. Da qui la figuraccia e le dimissioni.
Carriera finita? Macché, nel giro di un anno il mandarino era già pronto sulla linea di partenza in vista delle elezioni Europee del 2014, questa volta come candidato del fronte di centro destra, egemonizzato dai Popolari, per la carica di presidente della Commissione Ue. L’obbiettivo è stato raggiunto nel luglio scorso, grazie anche all’appoggio, al Parlamento di Strasburgo, dei liberali e di gran parte gruppo socialdemocratico, compreso il Pd italiano. Le istituzioni europee, assediate da una crisi di credibilità senza precedenti, non hanno saputo fare di meglio che affidarsi all’uomo di sempre, a uno dei protagonisti della stagione politica che tra infiniti compromessi ha consegnato il continente alla recessione e allo scontento di massa. Capitan Rieccolo è tornato in pista e poco importa se alcuni suoi comportamenti disinvolti avevano già attirato le critiche dei giornali nelle settimane precedenti la nomina alla guida della Commissione. In Germania e in Inghilterra la stampa si è occupata dell’attività di Juncker come conferenziere, a pagamento, in alcuni convegni sponsorizzati da lobby tedesche: uno dell’industria degli armamenti e un altro dei produttori di pneumatici.
Conflitto d’interessi? Chiamato in causa, Juncker non ha voluto fornire ragguagli sui suoi compensi. Si è parlato di 15 mila euro per ogni evento. La polemica si è spenta già prima del voto del Parlamento per la nuova Commissione Ue. Il più longevo, politicamente parlando, dei leader europei si è così preso la rivincita sulle molte delusioni del passato. Nel 2012, Juncker era stato costretto dopo sette anni alle dimissioni dall’incarico di presidente dell’Eurogruppo, l’organismo informale che riunisce i responsabili delle Finanze dei Paesi che aderiscono alla moneta unica. Logorato dalla crisi infinita dell’euro, il politico lussemburghese se la prese con le continue ingerenze di Francia e Germania. Attaccò il governo di Angela Merkel accusato di trattare «l’Eurozona come una sua filiale». Parole grosse. Del resto, già nel 2009, furono proprio Parigi e Berlino a portare il belga Herman Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo, sbarrando la strada alle ambizioni di Juncker.
A cinque anni di distanza da quella pesante sconfitta il politico lussemburghese è stato in qualche modo risarcito. Ed è arrivata l’elezione alla carica politicamente più esposta della complessa architettura istituzionale dell’Unione. Tocca al capo dell’esecutivo Ue, infatti, prendersi la responsabilità delle ricette a suon di tagli e rigore finanziario imposte da Bruxelles ai Paesi membri. E le parole pronunciate pochi giorni fa da Matteo Renzi sulla «banda di burocrati» della Commissione danno un’idea della posta in gioco e dei conflitti prossimi venturi.
Il fatto è che il tappeto rosso che ha portato Juncker verso il nuovo incarico nascondeva la polvere dei discutibili affari del Granducato, paradiso fiscale nel cuore dell’Europa. Un paradiso sotto gli occhi di tutti, per la verità. Nel 2010 il rapporto sul Granducato elaborato dal “Financial action task force” (Fatf) l’organismo intergovernativo istituito per combattere il riciclaggio aveva disegnato un quadro a tinte fosche del Lussemburgo, considerato inadempiente (del tutto o parzialmente) a 39 dei 44 criteri elaborati per valutare il grado di trasparenza finanziaria del Paese. Nel 2014 quel giudizio è stato parzialmente rivisto dagli analisti del Fatf, sottolinenando i progressi del Granducato per adeguarsi ai migliori standard internazionali. Ancora non basta, però. Centinaia di dossier finiti nei giorni scorsi sulle prime pagine di tutti i grandi giornali europei grazie allo scoop del consorzio ICIJ illustrano nei particolari l’eredità di un passato che non finisce.
Il Paese più piccolo dell’Unione europea (dopo Malta) fin dagli anni Sessanta si è trasformato in una piattaforma finanziaria offshore nel cuore del continente. Un rifugio a prova di tasse che per molti investitori si fa preferire anche alla Svizzera. A differenza della Confederazione, infatti, il Lussemburgo fa parte della Ue, con tutti i vantaggi che ne conseguono in termini di libera circolazione dei capitali. I privilegi offerti dal Granducato sono da sempre ben conosciuti a tutti i professionisti del Fisco, gli specialisti del ramo “ottimizzazione tributaria” che muovono miliardi sulla mappa del mondo incrociando norme e regolamenti delle varie legislazioni. «In Lussemburgo ci si può accordare con le autorità fiscali nel tempo di una cena», si legge in un rapporto del centro di ricerche internazionale Tax Justice Network, che a sua volta cita le frasi di un blog che circolava in Rete nel 2010. I documenti portati alla luce nei giorni scorsi non fanno quindi che confermare ciò che da tempo fa parte del senso comune di banchieri, imprenditori e manager. Solo che adesso, di fronte ai dossier pubblicati dai giornali, Juncker difficilmente potrà cavarsela con un’alzata di spalle e poche parole di circostanza come ha sempre fatto in passato.
«Non si può fare soldi a spese dei propri vicini», dichiarò nel 2008 l’allora premier lussemburghese nonché presidente dell’Eurogruppo. Si riferiva allo scandalo degli evasori tedeschi nelle banche del Liechtenstein, un altro micro-Stato a prova di tasse. «A violare la legge però non è il Liechtenstein, ma i cittadini tedeschi», si affrettò a precisare Juncker.
Insomma, la colpa è sempre degli altri. Per anni il Lussemburgo ha fatto muro di fronte alle pressioni della comunità internazionale prendendo come alibi i privilegi fiscali concessi da altri Paesi: Austria, Olanda, Irlanda, le isole britanniche del Canale (Guernsey e Jersey) e, fuori dai confini della Ue, la Svizzera. «Siamo pronti ad adeguarci quando lo faranno tutti», non si stancavano di ripetere i politici del Granducato, Juncker in testa. E gli altri centri offshore rispondevano allo stesso modo. Il gioco delle parti serviva a coprire la convenienza di tutti a non cambiare nulla.
Il primo autentico passo avanti nella direzione della trasparenza risale a poche settimane fa quando i Paesi Ue, e quindi anche Austria e Lussemburgo, hanno sottoscritto la convenzione internazionale sullo scambio automatico di informazioni fiscali. È previsto che l’intesa entri in vigore nel 2017. Si vedrà. In passato troppo spesso le dichiarazioni di principio sono state smentite dalla realtà dei fatti. Intanto il Lussemburgo sotto la guida di Juncker e di una efficientissima lobby finanziaria è riuscito a difendere i propri privilegi cavalcando anche l’innovazione. Così, quando pochi anni fa sono apparsi all’orizzonte i nuovi colossi del commercio online tipo iTunes, eBay, Amazon, il Granducato è stato rapidissimo a introdurre nuove norme studiate ad hoc per attirare le multinazionali fondate sul web a caccia, anche loro, di sconti sulle tasse. Strada facendo, il governo lussemburghese ha istituito anche un registro navale. Poco importa se il mare dista centinaia di chilometri. Nel paradiso di Juncker nulla si arrende all’evidenza, tantomeno il Fisco.