Tommaso Lorenzini, Libero 14/11/2014, 14 novembre 2014
L’UOMO CHE TOCCA IL CIELO CON UNA BICI
Marocco, Tibet, India, Patagonia, Bolivia. In bicicletta. A 41 anni, Nico Valsesia è stato dappertutto, ha attraversato gli Usa da ovest a est correndo cinque volte la massacrante Race Across America (Raam), 5.000 km no-stop; lo scorso 14 luglio è partito dalla spiaggia di Genova Voltri ed è arrivato in vetta al Monte Bianco stabilendo il record di ascesa, 16 ore 35 minuti e 52 secondi, superando i 4800 metri di dislivello con 300 km in bicicletta e 16 km a piedi. Senza mai fermarsi e trovando pure l’ispirazione per scrivere un libro dal titolo che sa quasi di presa in giro: «La fatica non esiste». Valsesia, dobbiamo chiamarla superman? «Macché, non faccio nulla di straordinario e odio quelli che magari affrontano ultramaratone in montagna e bestemmiano dal primo all’ultimo km: ma chi te lo fa fare? Il dottore? La vera fatica non è stare in sella nove giorni di fila dormendo dieci ore: il traffico delle grandi città, quello sì che è micidiale. Ma vi immaginate attraversare la Monument Valley? Quando arrivo lì piango, ma di gioia, non per la fatica». Da dove nasce questo libro? «Dalla mia storia, dalle mie avventure, dal rapporto speciale che ho con i miei figli. Ho vissuto per 25 anni in Val di Susa, sono cresciuto a Sauze d’Oulx e il mio sogno da bambino era diventare il nuovo Girardelli. Mi allenavo come un matto, a 10 anni tornavo da un giorno intero di sci e andavo a correre da solo. Eppure...». Eppure? «Per sfondare ci vuole anche talento: mi allenavo ma mica andavo più veloce. Un giorno mi son detto: “L’unica cosa possibile allenare è la resistenza. Se mi alleno diventerò sempre più resistente, non andrò più veloce sugli sci però posso correre per un giorno di fila”. Poi a 15 anni la folgorazione». Quale? «Mi è capitata fra le mani una rivista francese che parlava della Raam: “È questo che voglio fare”. Però mi è passata di mente, nel frattempo sono diventato maestro di sci, a 19 anni mi trovavo in tasca diversi milioni di lire e per lo sci agonistico ero in fase di rigetto. In bici sono sempre andato, ma la voglia di farlo seriamente è nata quando ho iniziato a organizzare viaggi in giro per il mondo, portandomi dietro i turisti. Ho iniziato a pensare alle gare di ultra-resistenza, ho fatto la Rimini-Viareggio-Rimini, la Fornace Creek di 800 km e mi sono qualificato alla Raam». Finalmente il sogno di una vita, nel 2003. «Sì, ma solo quando sono arrivato in California ho pensato che fare 5.000 km in 10 giorni era una grossa follia». Bel primo impatto... «Non solo. C’era uno stand dove vendevano la Powercrancks. È una macchina infernale, sono due pedivelle indipendenti che fanno muovere la bici ma per poter pedalare, oltre a spingere, devi tirare per recuperare il pedale. In pratica è un doppio lavoro per la muscolatura, un massacro. E questi americani avevano messo un cartello: “Se riesci a fare la Raam con questa ti diamo 10mila dollari”. Io gli ho detto: “Se la fate voi con una lavatrice legata sulla schiena ve ne do io 20mila”». Com’è finita? «Che l’ho presa per allenarmi e ne sono anche diventato importatore. Oggi la usa pure Nibali». Risultati? «Ho fatto cinque Raam, nel 2006 sono arrivato secondo, ma la più bella è stata quest’anno, quando c’era mio figlio Santiago lungo il percorso a incitarmi: una delle cose più motivanti di tutta la mia vita». Mai mollato? «Nel 2004 mi sono ritirato a 800 km quando ero 3°, ero arrivato. Avevo avuto problemi di affiatamento col team che mi seguiva, c’era anche mio padre che soffriva d’ulcera e vedendomi così sconvolto era disperato. Io sapevo cosa stavo facendo ma non sopportavo di vedere lui in quelle condizioni e ho detto basta: all’80% la Raam è una roba di testa. Pensi che mi capita di andare in trance, pedalare quattro ore in quegli infiniti rettilinei del Kansas senza sapere dove sono, svegliarmi e ricordare di aver mangiato solo un panino cento chilometri prima». Come ci si prepara alla Raam? «Con chilometraggi sempre lunghi: 20, 30, 60, 90. Non km, ma ore settimanali di allenamento. Due tre giorni prima pianifichi la partenza, zaino, bici e via: sono finito a Gibilterra, un’altra volta mi sono ritrovato a Marrakech. Magari partivo, andavo in Calabria e tornavo. I veri problemi per affrontare la Raam sono tre». Quali? «Il sonno, il sedere e il collo. Io quest’anno dormivo circa un’ora e mezza ogni ventidue, mentre il collo l’ho allenato usando un casco con dei pesi dentro. È decisivo, un sacco di gente si ritira perché gli “cade” la testa sotto i piedi». E la “seduta”? «Nella prima Raam avevo il fondoschiena a pezzi, tagli e sangue ovunque. Così ho inventato uno sgabello speciale con lo stesso modello di sella che monto sulle mie bici e mi sono abituato a mangiare, a sedere davanti al computer o alla televisione stando li sopra. Problema risolto». Scusi, Valsesia, ma lei vive in bici? «Beh, no, corro anche. Nel 2007 stavo facendo la Iron Bike, una sorta di Dakar in mtb sulle montagne intorno a Cuneo. Sono caduto, rotto costole e clavicola; mi sono operato, ma dopo non riuscivo a stare in sella. Così ho iniziato a correre, e ho subito partecipato a una gara di 70 km: sono arrivato 5° in nove ore. E il record sul Bianco è nato in maniera simile». Ci spieghi. «Avevo un calcagno rotto da usura, non riuscivo a correre bene e mi sono ricordato dell’esistenza di questa sfida, salire dal mare al punto più alto d’Europa: “Cavolo, tentiamolo, visto che la parte a piedi è solo l’ultima”. Quindi ho provato. Se non avessi avuto male al piede non c’avrei pensato». E ora sta preparando la prossima “follia”, il record di ascesa sull’Aconcagua, in Cile. «Nel team ci sarà pure Giovanni Storti, del trio “Aldo, Giovanni e Giacomo”. È un amico e uno sponsor. Partirò da Viña del Mar e salirò fino a 3200 metri, per 215 km, in bici da strada su asfalto. Poi mi cambierò e via di corsa per 30 km. Negli ultimi 10 km il dislivello sarà pesante, lì si vedrà». Tempo stimato? «Spero sotto le 24 ore. Senza mai fermarmi, ovviamente».