Fabio Scuto, la Repubblica 12/11/2014, 12 novembre 2014
KEFIAH, RICORDI E RABBIA TRA I PALESTINESI SENZA LEADER TENTATI DALLA LOTTA ARMATA
È un tripudio di lacrime, canti e bandiere. I nostalgici hanno tirato fuori dalla naftalina la kefiah a scacchi neri che nessuno della nuova dirigenza palestinese ha mai indossato, nemmeno Abu Mazen. I pragmatici hanno scelto invece i cappellini gialli con la visiera e il simbolo di Fatah. Ci sono numerose scolaresche venute da diverse zone della Cisgiordania, le associazioni di categoria, semplici cittadini. Molti, come fosse un santino, hanno in mano una foto di Yasser Arafat e rivolgono lo sguardo alla gigantografia che domina da dietro il palco tutta la piazza come per confrontarlo. Lui, l’icona della causa palestinese, nel grande ritratto è preso di profilo con kefiah che sapeva manipolare in modo da avere la forma della mappa della Palestina come negli anni ha manipolato quasi tutto quel che lo circondava. La vita e il mistero sulla morte ne hanno consolidato l’immagine di Abu Ammar. Ha lasciato un’eredità mista di violenza, terrorismo, conquista politica e una leggenda che ha colpito la fantasia di sostenitori e detrattori di tutto il mondo. Era un uomo di un carisma intenso e grande fascino, di carattere duro e ambizioni insondabili. Ed è questo l’Arafat che piace ricordare a questa folla, certamente meno numerosa di quella che gli tributò l’ultimo saluto dieci anni fa.
In attesa di un leader futuro, i palestinesi rivolgono così lo sguardo verso il passato. Perché il presente è fatto di divisioni, lacerazioni, odi interni che spaccano il campo palestinese. «Se c’era ancora Abu Ammar, tutto questo non sarebbe mai successo, Gaza e Cisgiordania sarebbero ancora unite», quasi sussurra Imad Rahadi, un vecchio militante di Fatah. Esprime così un sentimento diffuso nella piazza: nessuno degli attuali leader palestinesi può eguagliare la posizione unica di Arafat nella storia palestinese.
Ne è consapevole il presidente Abu Mazen che oggi ama più ricordare il compagno di lotte in gioventù che non l’Arafat che quando era premier lo mise alla porta nel 2003. Quando il raìs partì su quell’elicottero giordano per il lungo viaggio verso la clinica militare di Parigi dove morì di un male che 54 emeriti medici francesi non hanno saputo diagnosticare, erano sei mesi che non si rivolgevano la parola. L’Abu Mazen che sale sul palco non vuole tirarla lunga sui ricordi nel suo discorso e incalza subito con la tremenda attualità puntando il dito di accusa prima contro Hamas che mina alla base la riconciliazione e la ricostruzione nella Striscia di Gaza, poi contro Israele. Hamas che ha vietato ogni celebrazione per l’anniversario di Arafat nella Striscia, è accusato di essere dietro gli attacchi dinamitardi che la scorsa settimana hanno preso di mira dirigenti di Fatah a Gaza. «La condotta di Hamas a Gaza e in Cisgiordania danneggia seriamente gli sforzi di ricostruzione nella Striscia, e non indica che il movimento è pronto per la riconciliazione e l’unità nazionale », ha detto chiaramente il presidente. Abu Mazen ha poi accusato Israele di voler trasformare la crisi israelo-palestinese in «una guerra religiosa» permettendo ai fedeli ebrei di visitare la Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Quelle visite, accusa il presidente, sono provocatorie e i fedeli palestinesi difenderanno il luogo, sacro per ebrei e musulmani. Ai fedeli ebrei è permesso visitare la Spianata in occasione di particolari festività, ma non di pregare. L’aumento del numero delle visite, specie quelle dei colleghi di partito del premier Netanyahu, ha provocato scontri e sollevato il timore che Israele stia pensando di estendere la sua sovranità anche sulla Spianata. Queste visite, l’annuncio di centinaia di nuove abitazioni negli insediamenti oltre la Linea Verde hanno innescato nei quartieri arabi di Gerusalemme tensioni fortissime che sfociano quotidianamente in guerriglia urbana, e che hanno portato a cinque attacchi terroristici nelle ultime settimane. Sono “lupi solitari”, killer che agiscono da soli investendo con l’auto i passeggeri alla fermata dei bus o a colpi di coltello i passanti come lunedì scorso a Tel Aviv e Gush Etzion.
La paura del terrorismo è tornata e si vede negli occhi della gente per strada a Gerusalemme, dove è sufficiente uno stridio di gomme per seminare il panico sui marciapiedi. Lo spettro della terza intifada si fa sempre più visibile, le violenze sono già dilagate anche nelle città arabe d’Israele, in comunità che mai finora erano state coinvolte. E allora perché aspettare, sembra chiedere Marwan Barghouti, lo storico leader dei giovani Tanzim di Fatah in una cella israeliana con cinque ergastoli, in una lettera pubblicata dalla stampa araba, «la resistenza armata contro l’occupazione è l’eredità di Yasser Arafat».
“L’ora della libertà e dell’indipendenza è arrivata”, annuncia un manifesto gigante sui muri della Muqata. Quella che Abu Mazen, dopo venti anni di negoziati diretti con Israele, adesso vuole dalle Nazioni Unite alla fine del mese con la risoluzione che riconosca la Palestina entro le frontiere del 1967 e fissi un tempo per il ritiro da questi Territori. Ma la pace richiederà concessioni, sui rifugiati, su Gerusalemme, sui confini, sulla sicurezza e sugli insediamenti. Arafat avrebbe potuto convincere il suo popolo e fare quelle concessioni. Ma non l’ha fatto e oggi non c’è nessuno nel campo palestinese con la statura o il coraggio per prendere le decisioni necessarie per porre fine al conflitto. Dieci anni dopo la sua morte, Mr. Palestine ancora continua a dominare la scena. Forse era impossibile fare la pace con lui, adesso si scopre che forse è impossibile farla senza di lui.