Alberto Mattioli, La Stampa 12/11/2014, 12 novembre 2014
ROMA, L’ORCHESTRA LAVORA 125 GIORNI L’ANNO
Ma insomma, quanto guadagnano? E, soprattutto, quanto lavorano? Il pasticciaccio brutto dell’Opera di Roma, con orchestra e coro licenziati in tronco (però adesso pare ci si metta d’accordo, siamo pur sempre in Italia...), ha scatenato una ridda di polemiche e di prese di posizione, anche e soprattutto da parte di chi in un teatro d’opera non ha mai messo piede.
A far chiarezza provvede una certosina inchiesta del mensile Classic Voice in edicola domani. Sono pagine di dati, che alla fine si possono riassumere così: sì, i musicisti delle Fondazioni liriche italiane lavorano poco e no, non per «colpa» loro o dell’esasperato sindacalismo, ma perché i loro teatri li fanno lavorare poco. Insomma, il solito problema dell’opera in Italia: la montagna di soldi e di personale produce un topolino, cioè delle stagioni quantitativamente ridicole rispetto a quelle del mondo civilizzato (e spesso anche qualitativamente, ma questo è un altro discorso).
Diamo i numeri. Il contratto prevede che un professore d’orchestra lavori 28 ore a settimana (30 al Regio di Torino e 33 alla Scala per accordi aziendali), per un massimo di 11 «prestazioni» settimanali e sei ore al giorno. Per «prestazioni» (massimo due al giorno) si intendono prove e recite. Escludiamo i lunedì, giorni di riposo, le festività e le ferie, in media 30 giorni all’anno (sono 45 a Berlino o Zurigo): restano circa 270 giorni lavorativi all’anno. Anzi resterebbero, perché visto che i teatri non producono, in realtà nessuno li «lavora». Gli stakanovisti stanno al San Carlo di Napoli: 167 giorni per le prime parti, 217 per le file. Seguono Torino (rispettivamente 162 e 206) e l’Arena di Verona (143 e 198). Si lavora di meno, manco a dirlo, all’Opera di Roma, con una media di 125 giorni all’anno, poi al Carlo Felice di Genova, 128 giorni, e al Maggio di Firenze, 144. La Scala si rifiuta di calcolare il lavoro in giorni, ma lo fa in «prestazioni»: l’equivalente di circa 120 giorni per le prime parti e di 150 per gli altri.
Siamo molto lontani da quel che succede in Europa. Anche perché in Italia si perpetuano evidenti assurdità. Per esempio, la regola vuole che per le prime parti sia sempre disponibile un sostituto, cui quindi viene accreditata una «prestazione» anche se non suona. Oppure alcune orchestre hanno in organico un pianista. Visto però che le opere a richiederlo sono pochissime, costui in pratica non fa nulla, anche perché non si può utilizzarlo come maestro collaboratore.
Le buste paga non sono faraoniche. Lo stipendio-base per un primo violino è di 2.288,94 euro lordi mensili, più scatti di anzianità, straordinari, indennità e così via. Le mensilità sono 14 più un premio di produzione e ovviamente i compensi variano da teatro a teatro: un orchestrale costa mediamente 93.687 euro all’anno alla Scala e 78.573 all’Opera di Roma, contro 49.348 al Petruzzelli di Bari e 58.159 a Cagliari. All’estero gli stipendi sono più alti: da 10 a 6 mila euro lordi alla Bayerische Staatsoper di Monaco, per esempio, contro una busta paga da 7 mila a 4.800 euro alla Scala.
Morale sintetica (e già enunciata mille volte): i problemi dei teatri italiani stanno nella loro scarsa produttività e nella scarsissima competenza di chi li dirige. Ma possono funzionare, magari non benissimo, ma funzionare sì, anche con le regole attuali. Prendete la Fenice, attualmente il migliore, dove si sono in pratica raddoppiate le recite senza assumere aggiunti, pagare straordinari e nemmeno «esaurire» il monte-ore di orchestrali e coristi. Ma, semplicemente, organizzandosi meglio.