Marco Iaria, La Gazzetta dello Sport 12/11/2014, 12 novembre 2014
IO PORTO I SOLDI, CHI PORTA IL PALLONE?
La Lega, la Figc, dieci squadre su venti di Serie A: Infront ha le chiavi del calcio italiano. Che si tratti semplicemente di un’azione sinergica tra marketing e diritti media oppure di una posizione dominante con rischi di influenza sulla politica sportiva, una cosa è certa: Infront è un interlocutore di primo piano nel sistema. Ecco perché siamo andati nella “tana del lupo” - un complesso di 3 mila metri quadri nella periferia Est di Milano, in cui lavorano 160 persone – per ascoltare da Marco Bogarelli, presidente di Infront Italy, la sua visione sul futuro del pallone.
Presidente Bogarelli, è lei il vero padrone del calcio italiano?
«Io sono solo un manager. Infront Italy fa parte di un gruppo con 25 uffici tra Europa e Asia e oltre 600 dipendenti. Operiamo in tutto il mondo con 3400 giornate-evento all’anno, abbiamo realizzato la produzione media del Mondiale in Brasile costruendo dal nulla l’International Broadcast Centre con 3200 impiegati. Sviluppiamo i brand sportivi a 360 gradi e in Italia lo facciamo anche nello spettacolo, con X Factor, MasterChef e Crozza. Non forniamo soltanto servizi, cerchiamo di attivare linee di ricavi, per esempio la corporate hospitality di X Factor, dove abbiamo quasi più richieste di San Siro!».
Sì ma nel calcio siamo di fronte a una posizione dominante. O no?
«Non cerco di limitare il mio business, sarei un cattivo manager. Non c’è una posizione dominante perché non esercitiamo quel tipo di politica. Ci muoviamo in base alla profittabilità del business, che significa far consumare più calcio. Tutto ciò l’abbiamo ottenuto portando risultati, stimolando la crescita. Non è che ora io mi fermi perché qualcuno mi dice che domino qualcosa: la mia agenda non è di controllo ma di profittabilità. Se non la realizzo mi licenziano. Faccio parte di un gruppo che ha come maggiori azionisti dei fondi di investimento, il cui mestiere è comprare e vendere. Siamo in vendita tutti i giorni, anche adesso: ci sono cinesi e americani interessati che vogliono sapere quanto Infront crescerà nel futuro. Figurarsi se mi fermo».
Sta di fatto che la vostra ascesa è costellata da tante chiacchiere, sin dalla prima assegnazione nel 2008.
«Portai a Matarrese una proposta per fare l’advisor della Lega. Con quella proposta è stata fatta una gara a cui hanno partecipato 12 società: non proprio un gesto di amicizia».
Sì ma la Juventus contestò le procedure.
«Noi abbiamo vinto perché abbiamo messo più grano sul tavolo. La Juve aveva una vicinanza importante col gruppo Lagardère, ma Sportfive fece un’offerta inferiore alla nostra».
Pare esserci un filo rosso dalla rielezione di Beretta in Lega al trionfo di Tavecchio in Figc, passando per la guerra vinta sui diritti tv. C’è un partito che sostiene come l’asse Galliani-Lotito si sia consolidato con l’interfaccia di Infront.
«I poteri forti sono altri visto che c’è una squadra come la Juve che appartiene al gruppo più liquido d’Italia e ha il 30% dei tifosi. Nelle elezioni di Lega, una simpatia potevo avercela semmai per Abodi, che è stato mio socio. E quando si è discusso il rinnovo del nostro contratto i più grandi litigi li ho avuti con Lotito, non con Agnelli. Se Lotito e Galliani hanno capacità di aggregare il consenso di 16-18 società di A, qualcun altro dovrebbe farsi delle domande. Noi non facciamo politica, non ci schieriamo, lavoriamo con chi c’è. È vero che Tavecchio per esperienza ci sembrava più adatto, ma semplicemente aveva i numeri per vincere. Poi se vuoi un grande manager alla guida della Federazione non puoi dargli 38mila euro lordi…».
La Serie A ha incassato introiti-record dai diritti tv proprio nell’era in cui ha perso terreno rispetto alle altre leghe. Dove sta il cortocircuito?
«Quando eravamo i nobili del calcio, fino a 10 anni fa, il prodotto non era globale. Oggi lo è, oggi l’attenzione si polarizza su pochi brand, tutti vogliono un vestito di Armani: è lo stesso nel calcio, il mercato latino-americano di Real e Barcellona si è trasformato in un mercato globale. La crescita organica del consumatore mondiale ha portato alla polarizzazione di pochi marchi, noi non l’abbiamo colta».
Ricetta?
«Lo stadio è la chiave di tutto».
Solito ritornello: da anni si invoca una nuova generazione di impianti.
«Sì ma nell’attesa, con investimenti di qualche milione di euro a club, si possono rendere friendly gli stadi attuali. Oggi il tifoso a casa ha troppi vantaggi rispetto a chi segue una gara dal vivo: replay, commenti, statistiche, diretta gol. Molte società, dall’Inter al Milan alla Juve, sentono l’esigenza di allestire la sport production: è importante, ma non basta aggiungere nani e ballerine, il core business resta la partita. Se lo stadio avesse il wifi, se anziché cinque televisori ne avesse mille coordinati da una regia, lo spettatore potrebbe godersi l’arrivo dei pullman delle squadre, le interviste, gli spogliatoi, gli highlights, i replay. Bisogna far sì che la gente passi più tempo allo stadio e che consumi, come in un centro commerciale».
In Lega non si parla mai di questi temi.
«Non è proprio così. La sensibilità c’è ma i presidenti sono concentrati sul campo. Però, visto che le tue linee di ricavi richiedono competenze specifiche dai media al marketing all’hospitality, devi essere contaminato da quello che succede nel mondo. Il fatto che in A ci sia uno scenario così eterogeneo di associati deve portare ad avere driver di cui ci si fidi. E questi driver sono giustamente Juventus, Milan e Inter, anche se c’è sempre il sospetto che i soldi se li becchino loro. Il tasso di litigiosità in Lega è ancora abbastanza elevato per avere un approccio sereno. Ma bisogna sforzarsi di fare uno spettacolo adeguato ai tempi: non abbiamo né Cristiano Ronaldo né Messi, qualcosa dobbiamo inventarci. In Germania sono ripartiti dagli stadi: nel 2006 i giocatori della Bundesliga facevano ridere rispetto a oggi. E poi è anche una questione di disponibilità».
Cioè?
«In Lega ho citato l’esempio di Ronaldo e Messi che hanno girato uno spot gratuito per promuovere la Liga nel mondo. Non è l’approccio dei nostri club. Magari i presidenti danno massima disponibilità per le interviste ai giocatori di punta ma poi fai fatica a interagire coi quadri intermedi. E il silenzio stampa c’è solo da noi».
Le società si sono adagiate sulla rendita dei diritti tv e dal 2015 il famoso miliardo salirà del 20%. Come rompere questa tele-dipendenza?
«Intanto va detto che in Italia l’interesse per il calcio è altissimo e i margini di crescita sono pazzeschi. Oggi non esiste più il “videoascoltatore” di Raiuno o Canale 5, il pubblico va a seguire il brand che conosce, incluso il calcio. Si va riducendo l’intermediazione tra il cliente finale e le piattaforme distributive: ecco perché il canale della Lega sarà realizzato sicuramente, già dal 2018. Comunque è vero che la Serie A deve svilupparsi su altri fronti. Già nel 2011 presentammo un progetto di sfruttamento di alcuni prodotti collettivi, ora vedrei benissimo una app per le partite di campionato, come quella che abbiamo realizzato con Fifa per il Mondiale. A noi piacerebbe fare l’advisor della Lega anche per stadio e marketing».
Allora è proprio un vizio… Non rischiate già di influenzare la Serie A, attraverso i minimi garantiti dei contratti commerciali con 10 club?
«Purtroppo non ci sono mai riuscito (ride, ndr ). Quello che vogliamo è una massa critica per attrarre i primi 50 big spender. Oggi, a parte Telecom, nessuno può permettersi di legarsi a una sola squadra: se gliene porto 10 o addirittura 20, magari lo convinco. Stiamo già costruendo un nuovo media: partendo dallo stadio e disegnando una macroarea nel raggio di 150 chilometri, veicoliamo la pubblicità attraverso una serie di led gestiti da un software come se si trattasse di un palinsesto tv. Questo è business, non me ne frega niente della politica sportiva».
Sì ma non venga a dirci che tutte le società sotto contratto sono funzionali al business.
«Il profitto lordo di quest’area è positivo, poi ci sono realtà che soffrono. Ma vi assicuro che nessun club mi ha mai votato perché gestisco il suo marketing. Zamparini inveiva contro di noi, eppure siamo partner del Palermo da anni. E con la Juve abbiamo un contratto per la library».
Avete ottenuto pure la pubblicità azzurra.
«La Nazionale gioca quando non giocano le altre. Così ottimizziamo il prodotto».
Così occupate tutti gli spazi disponibili…
«Beh, il fatto di sparire dalla programmazione non va mai bene, pensate alle soap-opera in onda da secoli ogni giorno. La Nazionale è quasi sempre rimasta un fenomeno commerciale italiano. In realtà è uno dei sette brand internazionali, come Germania, Spagna, Inghilterra, Francia, Brasile e Argentina».
Ma non preoccupa lo stato di salute del calcio italiano, a lei che quel prodotto deve venderlo?
«È vero che la A è un marchio da rinfrescare, ma ci ha regalato il +58% dai diritti esteri, anche se le agenzie interessate sono scese da 7 a 3. Semmai è sbagliato il sistema d’ingresso alle competizioni Uefa. Non esiste che l’Italia versi 270 milioni per i diritti tv di Champions ed Europa League e abbia solo due squadre più una nella coppa più importante. Ci sono cinque Paesi, Italia compresa, che fanno sì che la Champions esista alimentando il 70% del suo fatturato».
Sta riesumando il progetto della Superlega?
«Dico che l’attuale format non è adattabile alle nuove logiche del calcio. Non voglio un sistema chiuso ma uno aperto che privilegi un ranking concepito anche sul business. Via l’Europa League che non ha senso, sì a una Champions con 6 italiane di diritto, al pari di inglesi, spagnole, tedesche e francesi. Milan e Man Utd si sono affrontate solo 6 volte dalla nascita della Champions. Perché così poco?».
Cosa ci dice della sua vicinanza a Berlusconi?
«Non ho mai lavorato un minuto per Fininvest o Mediaset. Mi occupo di televisione dal 1981, come potevo non incrociare i destini di Berlusconi che ha inventato la tv privata in Italia? Sono amico di Galliani, ma ai tempi di H3G, che firmò con Juventus, Milan, Inter e Roma, noi di Media Partners ci trovammo a competere proponendo l’accordo con Vodafone a tutte le altre squadre».
Quindi non è stato un favore a Mediaset l’esito dell’assegnazione dei diritti della Serie A ‘15-18.
«Il bando era chiaro, i pacchetti erano stati definiti per piattaforma e l’abbinamento Sky-Fox non era possibile per la regola del “no single buyer”. Non puoi pensare di vincere perché fai il furbo: i contratti si firmano per reciproca soddisfazione. È sembrato strano, semmai, che qualche club spingesse per accettare l’ipotesi di 779 milioni di ricavi rispetto ai 943 incassati in questa maniera. Strano, molto strano».