Lavinia Farnese, Vanity Fair 12/11/2014, 12 novembre 2014
«NOI CADIAMO SULLA MOKA». INTERVISTA A PAOLA CORTELLESI
Oltre la porta chiusa che separa il salone dalle camere da letto, si sentono i versi di Laura, che vorrebbe la mamma. Paola si alza dalla sedia da cinema, comprata con il marito in un mercatino di Pescasseroli, il paese in Abruzzo in cui sono di casa, e va a rassicurarla. Quando la vede, la bambina la «scala» dalle caviglie fino al collo, e lì si aggancia e resta, quieta, a giocare con le piccole mani tra i lunghi capelli.
È proprio così: «Tutte le famiglie felici si somigliano». Che poi è una frase di Tolstoj, l’inizio di Anna Karenina, voluta dalla Cortellesi nel suo primo film da sceneggiatrice, Scusate se esisto!, «una commedia nata qui sul divano, leggendo i giornali, su quel che una donna in gamba deve passare nel mondo del lavoro».
Nella parte dell’architetto Serena Bruno, partita dalla provincia e affermatasi all’estero, che torna in Italia, Paola è diretta da Riccardo Milani: tre anni di matrimonio e, prima, nove di fidanzamento.
Oltre a essere «familiare», è un’opera anche autobiografica?
«Non nei particolari di professioni e accadimenti, ma nel resto sì: se anche hai fortuna e ottieni buoni risultati, per farti rispettare, da femmina ti si richiede di tirare fuori una durezza maschile».
A lei quando è capitato?
«Non conto più le volte. Ho anche portato il caffè, come fa il personaggio di Lunetta Savino. È un’autocritica per dire che spesso noi donne, disposte a tutto pur di essere impeccabili, moltiplichiamo le nostre mansioni e da “seconde con delega di firma” di un amministratore delegato o deus ex machina dell’azienda, ci riduciamo materne, accoglienti, chiocce davanti a una moka».
Il film racconta anche di un «amore altro».
«Sì, ultimamente è molto diffuso: quello che lega in una vita comune persone non necessariamente con gli stessi gusti sessuali. A volte ci si sceglie e si diventa una “coppia di fatto” sotto lo stesso tetto semplicemente perché ci si vuole bene».
È il caso di lei e Bova, che nel film preferisce il bacio di Marco Bocci al suo.
«E buttalo via... Lì entriamo nella difficoltà di essere espliciti sulle proprie attitudini in un Paese che si definisce libero. Raoul è perfetto: prestante, fisico da atleta, sogno proibito di tutte le donne. Salvo poi dimostrarsi l’opposto del macho che si aspetta Serena».
Che invece – quando lo vede – resta a bocca aperta davanti a bicipiti e addominali.
«È digiuna di storie, anche di sesso. Da nerd, ha passato i suoi anni migliori a studiare».
Pure questo è autobiografico?
«Un po’ nerd lo sono stata anch’io».
Con suo marito è stato un colpo di fulmine?
«No, di Riccardo mi sono innamorata molto lentamente».
In Scusate se esisto! lei scappa da un locale gay. C’è mai stata?
«Sì, spesso, con gli amici».
E anche nella realtà l’hanno scambiata per omosessuale, come nel film?
«È capitato. In realtà preferivo andare lì perché mi annoiava la musica techno delle discoteche. Mi divertiva molto di più ballare le canzoni di Raffaella Carrà».
Fotocopie, invece, ne ha mai fatte?
«Ho fatto di tutto. Studiavo Lettere all’università, che ho poi lasciato per il teatro. Nel frattempo lavoravo con la mia piccola compagnia dove, come tutti, montavo le quinte, inchiodavo le cantinelle, mi arrampicavo sulla scala e a tre metri d’altezza puntavo le luci».
La sua amica Lucia Ocone ha lanciato un appello su Vanity Fair: «Non chiedete a una donna se è sposata, se ha figli. Soprattutto a 40 anni». Lei sta per compiere i 41: ha avuto paura di restare single e senza bambini?
«Paura no, e il suo è un discorso giusto. Matrimoni e figli non si fanno per mettere una tacca. Sono esperienze straordinarie, ma se non le vivi non significa che sei colpevole o manchevole di qualcosa».
Cose che cambiano, quando si è mamme?
«Le priorità. E Laura mi ha insegnato la pazienza: non ne ho mai avuta».
Vi fermate qui?
«Chi lo sa? Non sono decisioni che si programmano, ma va bene anche così».
Restare incinta le ha creato problemi alla carriera?
«Avevo già detto di sì a Un boss in salotto di Luca Miniero. Avvisai che avrei dovuto declinare, ma produttori e regista scelsero di aspettarmi. Lo apprezzai».
Il suo ultimo set, con suo marito regista, è stato diverso dagli altri?
«No, non abbiamo neanche condiviso l’auto per andare sul set: io avevo il trucco, mi svegliavo molto prima».
Giravate nella periferia del Corviale, perché il suo personaggio s’ispira al progetto reale di una architetta vincitrice del bando per riqualificare quel complesso. A che cosa pensava tornando a casa sua, la sera?
«Al privilegio di vivere in quartieri meglio organizzati. In molti sobborghi i ragazzi ciondolano sulle scale condominiali, senza spazi di aggregazione e stimoli culturali. So che cosa significa, è da lì che vengo».
Per questo l’urgenza di scriverne?
«I primi film forse devono riguardarti da dentro (Paola adesso lavora a un adattamento cinematografico della pièce Gli ultimi saranno ultimi, con Massimiliano Bruno, ndr). Dopo, quando sei più navigato, magari puoi scrivere su commissione».
Lei non ha dimenticato le sue origini: questo dà anche un valore diverso a ciò che guadagna oggi?
«I miei mi hanno insegnato che i soldi si sudano. Non abbiamo mai navigato nell’oro, ma a me e ai miei due fratelli non è mancato nulla».
L’hanno mai ostacolata nella scelta di diventare attrice?
«Non mi hanno spinta. Ma sostenuta sempre».
Prima di incontrare Riccardo Milani nel 2002, durante le riprese del Posto dell’anima, diceva di volere un uomo come suo padre, che si emozionava alle recite.
«Ne ho trovato uno simile».
In che cosa?
«Nella galanteria d’altri tempi. E nel desiderio di conservare un nucleo solido, protettivo, affettuoso».
Nel suo album di nozze si scopre che all’altare ha fatto una linguaccia.
«Fu un giorno di gran “caciara” e festa vera».
In Scusate se esisto! invece ha voluto che ognuno fingesse di essere qualcos’altro da quello che è.
«Io un professionista uomo per prendere l’appalto, Bova un eterosessuale per non confondere il figlio, una dipendente dello studio di non avere il pancione per non perdere il posto, il suo vicino di scrivania di tifare Juve e non Napoli per compiacere il capo. Ci conformiamo al canone o all’opinione che gli altri hanno di noi, e così ci adattiamo, piuttosto che affermarci. Iniziamo a farlo in famiglia, per essere il bravo figlio che i genitori si aspettano. Ci mettiamo un po’ di belletto, poi non ci fermiamo più».
La chiamano ancora «Stampellona»?
«Nelle sue varianti, anche: pennellona, sellerona, lungagnona. Se posso, infatti, evito i tacchi».
È vero, come la descrive Carlo Verdone, che sta sempre con il piegaciglia tra le mani?
«Esagerato. È che tendono in basso, tipo le mucche. Mi finivano sugli occhi. Fino alla scoperta di questo arnese favoloso».
È il massimo del feticismo dichiarabile?
«Del mio, sì. Però rimasi basita una decina d’anni fa. Ricevetti una lettera. Vado ad aprirla con entusiasmo: mi chiedevano una foto autografata dei miei piedi».