Silvia Nucini, Vanity Fair 12/11/2014, 12 novembre 2014
WOMEN ON WEB. QUANDO LA RETE È L’UNICA SPERANZA
«Abbiamo seguito tutte le vostre indicazioni, la mia ragazza ha preso le pillole: ha avuto mal di pancia e dopo qualche ora ha iniziato a sanguinare. È uscito qualcosa: volete che vi mandi la foto così potete dirci se l’aborto ha funzionato?». Rebecca Gomperts scuote la testa. «No, direi proprio di no». Tra le 8 mila mail che arrivano ogni mese al sito Women On Web ce ne sono anche così. Veronica, l’operatrice dell’help desk di lingua spagnola, risponde al ragazzo. «State tranquilli, non c’è bisogno di nessuna foto, ma tra qualche giorno ripetete il test di gravidanza e fateci sapere».
L’ufficio di Amsterdam di Women On Web è uno stanzone con sei computer e molti bollitori, bustine di camomilla e caffè solubile, antidoti per il freddo e la stanchezza che ti prende dopo ore davanti al monitor a rispondere a chi sta vivendo una gravidanza indesiderata. Il sito, nato nel 2006, si occupa di fornire indicazioni per donne che vogliono abortire, ma non possono farlo andando in ospedale perché in molti Paesi l’interruzione volontaria di gravidanza è illegale o comunque di fatto inaccessibile. «Noi non intendiamo sostituirci al sistema sanitario, semplicemente coprire un buco in quei posti in cui le donne non possono esercitare i loro diritti. Lo facciamo spiegando loro che se assumono una combinazione di due farmaci – il misoprostolo, un gastroprotettore che fa contrarre l’utero, e il mifepristone (meglio noto come RU486) – possono indurre, a casa e in sicurezza, un aborto spontaneo. Se queste due medicine non sono acquistabili nei loro Paesi, consigliamo di recarsi in un Paese diverso per abortire, ma se questo non è possibile organizziamo un consulto online con un nostro medico il quale fa una prescrizione che invia a un produttore di farmaci indiano. Sarà lui a occuparsi di spedire in tutto il mondo».
L’idea, semplice e rivoluzionaria, della dottoressa Gomperts è che l’interruzione volontaria di gravidanza sia qualcosa che le donne possono gestirsi da sole. «Il 20 per cento delle gravidanze si conclude con un aborto spontaneo nel primo trimestre. Quando si manifesta l’emorragia, la donna chiama il ginecologo il quale dice che gli dispiace e semplicemente raccomanda di non fare nulla e di andare in ospedale se si sanguina troppo. Con l’aborto farmacologico è la stessa cosa: le pillole fanno espellere l’embrione. Spieghiamo che bisogna mettere in conto un po’ di crampi, sanguinamento. E anche noi diciamo che se l’emorragia è troppo intensa bisogna andare in ospedale a farsi fare un raschiamento. I medici non potranno sapere se l’aborto è spontaneo o provocato, e la donna non rischierà nulla».
È sempre durante uno di questi viaggi che qualcuno le racconta un principio di diritto del mare: un natante che naviga in acque internazionali sottostà alle leggi del Paese di cui batte bandiera. Come dire: se in Olanda l’aborto è legale, su una nave olandese che rimane in acque internazionali l’aborto sarà legale. «È nato così Women On Waves, un progetto-provocazione. L’idea era andare, con una nave olandese, al largo delle coste dei Paesi in cui l’aborto non è legale, fare salire le donne a bordo, dare loro le pillole e farle tornare a casa ad abortire. Siamo stati in Irlanda, Polonia, Portogallo e Marocco. Ovunque abbiamo avuto moltissimi problemi – in Marocco siamo stati immediatamente allontanati dalla Marina militare – ma creare disordine era uno degli scopi della campagna stessa. Qualcosa, però, abbiamo ottenuto: sollevare il problema, rendere visibili tutte le donne invisibili che abortivano illegalmente».
Da quando ha iniziato le sue attività, la dottoressa Gomperts vive tra denunce e cause. Tutte vinte. «Quello che faccio non è mai illegale. Mi muovo su un confine, piego le leggi, non le infrango mai. Questo è un punto fondamentale, perché spesso il timore ci paralizza. Vale anche per l’aborto: nei Paesi in cui è illegale ci sono delle eccezioni in virtù delle quali viene praticato».
Anche le ragazze dell’help desk rispondono camminando sul confine. «Non dicono: “Se usi queste pillole puoi abortire”. Ma: “Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, questo farmaco, assunto in questo modo, ha come effetto...”. Usando queste parole il rapporto con le donne che ci scrivono può essere inquadrato come “accesso a informazioni scientifiche”. Anche i medici che prescrivono le pillole risiedono in Paesi dove – e non è il caso dell’Olanda – i consulti medici online sono leciti. Nessuna violazione».
Il rapporto tra chi scrive e chi risponde – sia esso operatrice o medico – si basa sulla fiducia. «Non chiediamo nessun esame, nessuna ecografia. Se una donna ci dice di essere incinta da 5 settimane le crediamo e basta. Come possiamo sapere se è vero? Non abbiamo modo. Ma tendo a pensare che nessuno menta quando c’è di mezzo la sua salute e la sua incolumità. Quando ci danno una datazione sbagliata, poi riscrivono sempre: scusate, ho mentito, in realtà sono incinta da più tempo, posso usare le medicine lo stesso?».
L’uso dei due farmaci combinati è consigliato fino alla nona settimana di gestazione, anche se – dice Rebecca – teoricamente sarebbero efficaci fino alla fine. «Ma poi, procedendo nella gravidanza, il feto si struttura, l’aborto diventa più complicato da gestire in ambiente domestico, senza considerare che può essere scioccante abortire un feto che comincia ad avere sembianze di bambino».
«Quando rispondi a qualcuno che è troppo tardi, è difficile far fronte alla loro disperazione», dice Aga. È polacca e lavora all’help desk da qualche mese. C’era bisogno di lei perché dalla Polonia arrivano ogni giorno almeno 30 mail. «Nel mio Paese, dal 1993 l’aborto è consentito solo se c’è rischio di vita per la donna o se la gravidanza è frutto di uno stupro. Ma anche in questi casi non viene praticato mai. Chi ci scrive da lì spesso non vuole dare nemmeno il nome: pensano che anche solo chiedere informazioni sia illegale».
Molte richieste arrivano anche dai Paesi in cui l’interruzione volontaria di gravidanza è legale e accessibile, come l’Italia o l’Inghilterra. «Da voi si può abortire fino alla dodicesima settimana, ma il numero crescente di medici obiettori sta rendendo la situazione difficile, soprattutto in certe parti del Paese», dice la dottoressa. «E poi ci sono tutte le clandestine che non hanno accesso alle strutture sanitarie». Un aborto che passa necessariamente per un ospedale, secondo Gomperts, non è un diritto per tutte. «Penso alla mail di una ragazza inglese di una famiglia musulmana strettamente osservante, rimasta incinta dopo un rapporto con un cugino. Non le era consentito uscire di casa se non accompagnata da uno dei fratelli. Come avrebbe potuto recarsi in clinica ad abortire? Un Paese civile deve tenere conto di tutte le realtà».
Dall’ufficio ci siamo spostati a casa di Rebecca, una communal house dove nessuno chiude la porta degli appartamenti e in cui vive sola con i due figli. Uno oggi ha la febbre e di lui si stanno prendendo cura, a turno, i vicini: «Chi viene a vivere qua è sottoposto all’ammissione da parte degli altri condomini: vogliamo solo persone gentili». Non vuole che la fotografiamo con il bambino, per non creargli problemi: «In realtà i movimenti pro-life – che io non chiamo così, perché anche io sono per la vita, che c’entra? –, insomma i movimenti contro il diritto all’aborto, non mi hanno mai creato grossi problemi. Loro sono contrari all’idea che l’aborto sia legale, delle donne che abortiscono silenziosamente a casa loro non gliene frega niente».Facendo un bilancio di tutto è soddisfatta, ma solo a metà. Sono troppe, dice, le donne che non riescono a raggiungere: «Ci contattano solo quelle alfabetizzate e con un accesso a un telefono o a Internet. Ma tutte le altre? Quante sono?».
Perché i soldi non siano un ulteriore ostacolo, la consulenza e l’eventuale spedizione dei farmaci sono soggette a una donazione volontaria, che il 30 per cento delle donne non fa. «Ma non importa, fino a quando riusciamo a sostenerci con i fondi che ci danno altri possiamo continuare la battaglia».
Una battaglia perché l’aborto diventi una scelta personale? «Non la chiamerei scelta, quanto piuttosto una decisione, che si ritiene essere la migliore in quel preciso momento. Le donne non vogliono abortire, semplicemente non vogliono aspettare un figlio».
Le chiedo se lei ha mai abortito e mi risponde di sì: «È successo vent’anni fa. Ma non mi chieda come è stato, perché non glielo dirò. Sul sito di Women On Waves ci sono 400 storie di donne che l’hanno fatto. Prenda un pezzo di ognuna e avrà la mia».