Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 12 Mercoledì calendario

SINGLE, ISLAMISTI E LUPI SOLITARI ECCO I VOLTI DELLA TERZA INTIFADA

«È il momento della resistenza armata e spetta all’Autorità palestinese guidarla»: Marwan Barghouti lancia l’appello alla terza Intifada con una lettera che fa uscire dal carcere dove è detenuto, richiamandosi all’«eredità di Yasser Arafat».
Già leader dei Tanzim di Al Fatah durante la seconda Intifada e condannato in Israele a cinque ergastoli per il ruolo avuto in più attacchi kamikaze, Barghouti è considerato il leader più popolare fra i palestinesi della Cisgiordania. A dimostrarlo ci sono i murales colorati di Ramallah che lo equiparano ad Arafat, il rispetto di cui gode la moglie Fadwa impegnata in una campagna internazionale per ottenerne la liberazione e la popolarità del figlio Qassam, che ha guidato la maggiore protesta in Cisgiordania a favore di Gaza durante il conflitto estivo fra Hamas e Israele.
La lettera che Barghouti, 55 anni, diffonde è un manifesto per la rivolta armata mirato ad accelerare gli eventi in corso: sulla scia degli attacchi dei singoli palestinesi, con auto e coltelli, dei disordini a Gerusalemme Est e nella Galilea arabo-israeliana, è convinto che si possa ricominciare a usare le armi da fuoco. È un testo redatto in maniera da sfidare tanto Israele che Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese. «È arrivato il momento della resistenza armata - scrive Barghouti, riferendosi ai ripetuti attacchi di singoli contro Israele - perché questa è la vera eredità che Yasser Arafat ci ha lasciato» e dunque «l’attuale leadership palestinese deve mettere immediatamente fine alla cooperazione di sicurezza con Israele perché contribuisce solo a rafforzare l’occupazione».
Nel giorno in cui a Ramallah si celebra il decennale della scomparsa di Arafat, Barghouti sfida dunque Abu Mazen ad andare oltre gli aspri duelli verbali con Israele, compiendo un passo di aperta rottura con l’abbandono della cooperazione sulla sicurezza. È una maniera per dire che l’Intifada 3.0 ha bisogno di Al Fatah. Il governo di Israele dimostra di temere una possibile escalation: dall’alba di ieri ha schierato duemila uomini delle truppe speciali «Golani» in Cisgiordania per fronteggiare «ogni possibile evenienza», come dice il ministro della Difesa Moshe Yaalon, ed al tempo stesso rafforza la polizia a Gerusalemme Est come anche le difese anti-missile tanto a Sud che al Nord per fronteggiare eventuali lanci di razzi da parte di Hamas e di Hezbollah. Il premier Benjamin Netanyahu si aspetta attacchi su più fronti e imputa tali pericoli «alla scelta di Abu Mazen di incitare all’odio contro di noi e di dire bugie, come quando ci accusa di violare lo status dei luoghi santi di Gerusalemme».
Ma sul terreno la cooperazione sulla sicurezza israelo-palestinese sembra tenere: a Hebron avvengono duri scontri - un manifestante di 22 anni rimane ucciso - e nei quartieri arabi di Gerusalemme continuano le proteste ma ad arginare la situazione in Cisgiordania c’è il coordinamento bilaterale previsto dagli accordi di Oslo. In attesa di vedere se la mossa di Barghouti avrà conseguenze, la sicurezza israeliana lavora sui profili dei 6 killer che da fine agosto hanno colpito con vetture e coltelli, arrivando alla conclusione che hanno un profilo comune: sono tutti giovani, quasi sempre single ed hanno agito da soli ma condizionati da un’esplosiva miscela di idee nazionaliste e jihadiste capace di generare un’Intifada religiosa.
Maurizio Molinari, La Stampa 12/11/2014