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 2014  novembre 08 Sabato calendario

QUANDO BAGGIO MI DISSE: «SEI COME ME»


[Antonio Di Natale]

Il telefonino appoggiato sul tavolo vibra e si illumina: è arrivato un nuovo messaggio. «E mo’ che vuole da me Clemente Mastella?», chiede a se stesso a voce alta Totò Di Natale. Già, cosa vuole da lui l’ex diccì oggi in Forza Italia?
Tenetevi la curiosità: il testo dell’sms non fornisce chiarimenti e in ogni caso sono affari loro. In fondo si tratta di due corregionali, uno beneventano, l’altro napoletano, entrambi sulla breccia da anni; troppi in un caso, mai abbastanza nell’altro. Il primo (il politico) avviato a un malinconico crepuscolo di carriera, trombato nella corsa alle ultime Europee; il secondo che, al contrario, a 37 anni, quando la maggior parte dei colleghi ha già smesso o ramazza gli ultimi ingaggi nelle serie minori, si avvia a celebrare la propria apoteosi.
A un solo gol dai 200 segnati in Serie A (a uno dai 300 tra i professionisti e a una sola presenza dalle 400 in A), Antonio Di Natale, centravanti dell’Udinese, è mai come adesso al centro del nostro calcio. Ci è arrivato nell’unica maniera che conosce: in silenzio, e non soltanto perché alla lingua italiana preferisce il suo dialetto incomprensibile ai più. In un mondo, del pallone e non solo, che di eccessi e schizofrenia ha fatto regole di vita, Totò ha scelto il basso profilo, lasciando parlare i suoi piedi. Basso profilo anche nella scelta dei club cui legarsi: Empoli e Udinese. In Friuli è diventato un idolo. Per questo, ora, racconta di sé come se le 200 reti siano la logica conclusione di un percorso già scritto.
Partiamo dall’inizio, o forse dalla fine. Come celebrerà i 200 gol?
«Con una festa alla quale, oltre alla famiglia, inviterò tutti i compagni e gli allenatori di oggi e di ieri».
Se non fosse diventato calciatore, oggi dove sarebbe e cosa farebbe?
«Non lo so. In una città difficile come Napoli sarei potuto finire a fare tante cose, ma per fortuna c’è stato il calcio, la mia passione di bambino».
Ci torna ancora al quartiere 219 di Pomigliano d’Arco dov’è cresciuto?
«Sì. Ora che papa e mamma non ci sono più, sono rimasti i miei fratelli: Paolo, Michele, Carmine e Anna».
Il 6 gennaio, dopo l’1-3 col Verona in casa, annunciò: a giugno smetto. Cosa l’aveva convinta a lasciare e perché poi ha deciso di continuare?
«Quella sconfitta arrivò al culmine di un momento difficile per la squadra e per me. Mio padre era già gravemente malato, l’Udinese aveva perso 6 partite tra ottobre e gennaio... Fu lo sfogo di un momento. C’ero rimasto male anche per le critiche: non tanto verso di me, ma nei confronti del gruppo. Quando le cose vanno male c’è bisogno di sentire l’affetto della gente, invece... A bocce ferme e dopo un po’ di mare, in estate mi sono convinto a continuare. Il fisico regge, sono da 10 anni in questa società, soprattutto c’è questo traguardo dei 200 gol da tagliare... Ma se ho fatto un passo indietro è merito anche del presidente Pozzo; mi ha fatto sentire importante, mi ha parlato dello stadio nuovo e so che qui posso avere un futuro anche fuori dal campo. Da allenatore? No, non credo. È difficile trattare coi giocatori».
Cosa le disse sua moglie Ilenia di fronte ai suoi propositi di abbandono?
«Quel giorno di gennaio appena tornato a casa annunciai: “È arrivata l’ora di smettere”. Lei mi guardò con l’aria non troppo convinta e rispose: “La carriera è tua e tu sai quando verrà il momento. Fai la cosa giusta per te”. Filippo, mio figlio, invece cominciò a ridere. Forse aveva già capito come sarebbe finita».
E che cosa potrebbe convincerla a ritirarsi a fine campionato e cosa, invece, a continuare?
«Dipenderà dal fisico. Io mi diverto e ho voglia, ma quando una certa luce si spegne non puoi più riaccenderla».
Dopo i 200 gol, quali altri stimoli potrebbe avere?
«Prima di tutto, raggiungere a 205 un campione come Roberto Baggio. Ci penso dal primo giorno di ritiro estivo».
Non starà mica aspettando che smetta prima Totti?
«Nooo... Tolti Colombo e Frezzolini, due portieri che non giocano mai, Totti e io siamo i soli ‘77 del campionato. Francesco va alla grande, non mi metto a fare la corsa su di lui».
Qual è la scelta di cui va più orgoglioso in questi 20 anni di carriera?
«Quella di restare a Udine. L’ho fatto perché è una piazza importante, per riconoscenza verso i Pozzo che mi hanno permesso di diventare quello che sono e per la città. I friulani mi hanno insegnato la cultura del lavoro e il rispetto».
La scelta che non rifarebbe?
«Nessuna, le ho fatte tutte con la mia testa e con la voglia di mettermi in gioco. Quando ho lasciato Empoli per venire qua, nel 2004, avevo tante altre offerte, ma la storia e i numeri mi danno ragione».
Neanche un rimpianto, uno solo?
«Mah, il rigore sbagliato contro la Spagna che ci costò l’eliminazione all’Europeo 2008: volevo calciarlo a destra e cambiai direzione all’ultimo momento».
Perché con la Nazionale le cose non hanno funzionato?
«Non è vero, ho giocato 42 partite e segnato 11 gol. E all’Europeo 2012, se in finale non avessimo trovato ancora la Spagna, avremmo vinto».
Cosa risponde a quelli che dicono: bravo, però, in una “grande” avrebbe fatto lo stesso?
«Che uno capace di fare 200 gol non è uno normale. È un fenomeno. Proprio perché ha giocato in una piccola squadra, come tutti definiscono l’Udinese. Duecento gol non è come fare 200 presenze: quelle riescono a tanti».
Qual è il segreto?
«Non ce n’è uno solo. Famiglia, tranquillità, lavoro, le persone che mi seguono nell’allenamento... Paolo Artico è il mio preparatore atletico da sempre. Adesso è affiancato da Alessandro De Guidi, un altro che ogni giorno mi mette a punto il motore. Ho orari regolari: la sera alle otto e mezza sono a casa, alle dieci e mezza vado a letto e alla mattina alle sette sono in piedi per portare i figli a scuola. Vivo di famiglia, il vero segreto è questo».
In una città come Milano avrebbe avuto più tentazioni?
«A Milano, a Torino, a Roma... Ma anche qui c’è “movimento”. Solo che io ho sempre preferito la famiglia».
Il giudizio su di lei che più l’ha resa orgoglioso?
«Le belle parole dei colleghi quando ho compiuto 37 anni, tre settimane fa. Totti, Buffon che ha detto: “Grande giocatore ma soprattutto grande uomo”... Nel calcio contano i numeri, ma soprattutto i sentimenti. Io ho sempre mostrato rispetto e lealtà verso tutti, e vederlo riconosciuto mi ha fatto piacere».
Si è commosso?
«Sì, è un onore sentire certe parole da uno come Buffon».
L’estero l’ha mai tentata?
«Ho avuto qualche occasione, ma l’unica squadra in cui mi sarebbe piaciuto giocare, per lo stadio e l’atmosfera, è il Liverpool. Quando presero dall’Udinese Dossena, nel 2008, parlarono anche con me, ma poi non se ne fece niente».
Il compagno che vorrebbe avere vicino ancora oggi?
«Quagliarella. Siamo amici anche fuori dal campo. Poi Iaquinta, Sanchez...».
Quando vede Sanchez nell’Arsenal non pensa: avrei potuto esserci io?
«No. Penso invece che chiunque abbia giocato vicino a me in attacco è finito poi in una grande squadra».
Il compagno che ha sgridato di più?
«Negli ultimi tempi, Muriel. È più forte persino di Sanchez, ma l’altro ha più fame. Non so come convincerlo che gli basta tanto così per svoltare».
Quello sulla cui esplosione avrebbe giurato e invece...?
«Floro Flores. Attaccante completo, poteva fare di più».
Da chi ha imparato di più?
«Da due compagni, Bertotto e Sensini. Dal primo giorno a Udine mi sono appoggiato a loro, che comandavano lo spogliatoio senza troppe parole. Io da capitano faccio lo stesso: parlo poco, ma quando apro bocca tutti mi ascoltano».
Il compagno a cui ha insegnato di più?
«Sanchez. L’ha ammesso lui stesso. Al mercoledì, io e lui da soli, ci allenavamo sui tiri da lontano».
L’allenatore cui deve dire grazie e quello col quale ha litigato di più?
«Devo tutto a Silvio Baldini, che mi ha lanciato a Empoli. Con Cosmi qui a Udine ho avuto forti discussioni, ma adesso ci faccio delle grandi chiacchierate».
Per questa sua normalità si sente diverso dai colleghi?
«Da ragazzino il mio idolo è stato Maradona. Ho sognato tutta la vita di incontrarlo, è successo un anno fa a Milano. L’ho sempre ammirato, anche se ha condotto un’esistenza diversa dalla mia. Ma Diego è un numero uno, e ai numeri uno tutto è concesso. Però a una parete della mia scuola calcio ho appeso una frase: “I genitori che pensano di avere Maradona per figlio, sono pregati di riportarlo a casa”».
Se Diego o un numero uno, lei che numero è?
«Io mi sono avvicinato ai numeri uno. E quando uno come Baggio mi dice che mi considera al suo livello, e lo dice guardandomi negli occhi, beh, allora mi sento in pace con me stesso».
Totò, ma in casa si parla napoletano o toscano, dialetto di origine di sua moglie, o friulano?
«Nessuno dei miei due figli parla napoletano... Ogni tanto provo a insegnare qualche parola a Filippo. In tv gli piace Mode in Sud e io ne approfitto».
Dica la verità: ha mai aiutato lui o Diletta coi compiti?
«In tutto il resto no, ma sui conti sono bravissimo. In matematica sono veramente il numero uno».