Edoardo Petti, ItaliaOggi 11/11/2014, 11 novembre 2014
PREZZO PETROLIO, PUTIN INDEBOLITO
[Intervista ad Alberto Clò] –
Il forte ribasso nel prezzo del petrolio (da metà giugno ad oggi il valore del Brent è sceso di quasi il 25 per cento, con un calo da 115 a 87 dollari al barile) è destinato a provocare effetti profondi. Aprendo nuovi scenari geo-politici a partire dalle aree più calde del pianeta.
Chi ci guadagna? E chi ci perde? Ecco l’opinione di Alberto Clò, professore di Economia all’Università di Bologna, ministro dell’Industria nel governo guidato da Lamberto Dini e ora fondatore e coordinatore scientifico del centro studi Rie (Ricerche industriali ed energetiche).
Domanda. Quali sono le ragioni del crollo del prezzo del greggio?
Risposta. Le cause del calo, a fronte di una richiesta energetica che nel 2014 è aumentata in forma rilevante se pur meno di quanto si prevedesse, sono due. Da un lato registriamo una distruzione strutturale della domanda nei paesi industrializzati: Stati Uniti, Europa - caratterizzata da un andamento asfittico dell’economia - e Asia, in cui è rallentata la crescita del fabbisogno di fonti di riscaldamento. Dal lato dell’offerta rilevo l’incidenza della rivoluzione dello shale gas in Nord America.
D. In che senso rivoluzione?
R. È stato un cambiamento dirompente, ancorché accolto nel Vecchio Continente con argomentazioni critiche di marca ambientalista rivolte agli statunitensi fautori delle trivellazioni. Senza tale innovazione, i prezzi del petrolio sarebbero schizzati alle stelle. E non avremmo assistito all’incremento della produzione mondiale di energia. Negli Usa la ricerca e lavorazione dello shale gas ha favorito l’abbattimento dei costi del combustibile a un quarto rispetto all’Europa, la riduzione drastica dell’importazione e la crescita - quattro volte superiore - delle esportazioni di energia, la rinascita del comparto manifatturiero e la ripresa lavorativa.
D. L’Europa resta lontana da questo orizzonte?
R. Le istituzioni comunitarie e i governi del Vecchio Continente hanno preferito inseguire “le farfalle delle rinnovabili” e promuovere una strategia illusoria di de-carbonizzazione delle fonti di riscaldamento. Finendo per riversare su gas ed elettricità oneri non di mercato, legati agli incentivi per le “energie pulite”. Mentre è certificato che nel lungo termine la crescita delle richieste energetiche potrà essere soddisfatta per l’80-85 per cento dai combustibili fossili.
D. A livello globale qual è la situazione oggi?
R. Una over-supply (una sovra offerta ndr) di greggio, ovvero una produzione di gran lunga superiore rispetto alla richiesta energetica. Con l’aumento conseguente della “capacità non utilizzata”. Il tutto combinato a 7-8 crisi geo-politiche, da quella tra Russia e Ucraina al Medio Oriente, dall’Africa alla penisola araba.
D. La competizione tra Arabia Saudita e Iran per conquistare i mercati asiatici non contribuisce a stabilizzare il quadro.
R. La monarchia saudita ha scelto, con il governo dell’Iraq, di non salvaguardare il livello dei prezzi riducendo la quota di produzione. Ma ha voluto conservare le proprie fasce di mercato lasciando fluttuare i costi al barile nella logica di mercato. E ha cominciato a praticare sconti nella vendita del petrolio agli acquirenti cinesi. A questa strategia economica si è sovrapposta la rivalità religiosa, culturale, politica che lacera il mondo musulmano tra sunniti e sciiti. E dunque fra Riad e Teheran.
D. Con quale esito?
R. È difficile prevederlo, in uno scenario in cui è complicato capire chi sta con chi. Un risiko continuamente mutevole nel quale si intrecciano interessi e convenienze. L’unico risultato tangibile è che i barili prodotti aumentano e il loro prezzo di vendita cala oltre il dovuto.
D. È un male?
R. Si, perché nel terreno energetico il fattore cruciale è la stabilità dei prezzi e l’equilibrio tra domanda e offerta. La caduta del valore del greggio è assimilabile a un risparmio pari a 1,8-2 miliardi di euro al giorno. Un riflesso positivo per le nazioni importatrici e consumatrici. Ma molto negativo per i paesi produttori, che soffrono una perdita stimata di 200 miliardi di euro annui. L’impatto sarà forte soprattutto sulla Russia. Le cui entrate sono legate per il 46 per cento dalla vendita del petrolio. Mosca dovrà accettare che il valore al barile resti a 85 dollari circa, abbandonando le previsioni di un suo aumento a 100 dollari.
D. Una riduzione del prezzo e delle entrate potrebbe costringere Tehran e Mosca a rivedere la loro politica?
R. Spero vivamente che possa spingere i due governi a più miti consigli. Soprattutto per la Russia, di cui l’Europa ha bisogno. Come Mosca ha bisogno di un rapporto proficuo con l’Unione Europea. Anche perché chi è vincitore oggi può essere perdente domani. Per tale motivo non possiamo fare affidamento esclusivamente sul Nord America, ma dobbiamo far sì che Russia, Iraq e regione del Mar Caspio contribuiscano alla stabilità di produzione e prezzi.
D. La caduta dei costi del greggio può essere arrestata?
R. Non nel medio termine. Temo un ribasso prolungato del valore al barile come accadde tra il 1985 e il 2000. A meno che i paesi membri dell’Opec decidano di ridurre la produzione di petrolio. Ma servirebbe un clima positivo tra loro che per ora è impensabile.
Edoardo Petti, ItaliaOggi 11/11/2014