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 2014  novembre 08 Sabato calendario

C’È UNA DROGA NEL CAMPUS


Non chiamatela “speed drug”. Semmai è smart. È “furba”. Efficiente, discreta, professionale, aureolata dal mito supermoderno e biotitanico del potenziamento cognitivo. Rischia di essere persino socialmente accettata, percepita come una sorta di pedaggio per chi ci tiene all’eccellenza. Insomma, l’amfetamina 2.0, anzi, 3.0, è diventata un’altra cosa. A cominciare dal nome: neuro-enhancer, “potenziatore neuronail”. Ovvero, l’abracadabra di questi anni strozzati dalla paura di non essere abbastanza performanti e brillanti, e di un “cognitariato” (così chiamano il precariato intellettuale) persuaso di non avere più a disposizione i tempi giusti per imparare a vivere in armonia con le tecnologie e i saperi.
La parola promette “stimolazione neurocognitiva”, ma ha a disposizione sinonimi più o meno alla moda, da nootropo a viagra-for-the-brain, e mette nel mucchio medicine e sostanze vecchie e nuove. E nuovissime. Come il Nootropil (il colinergico piracetam degli anni 60), che cura Alzheimer, demenza e dislessia, le gettonatissime destroanfetamine degli anni 90 (Adderall, per la Sindrome da deficit di attenzione e iperattività), il Provigil, usato per la narcolessia e l’apnea ostruttiva, il Ritalin, l’Aricept (donepezil, per l’Alzheimer), fino alle più recenti ampachine (come il Sunifiram), che potenziano l’attività del neurotrasmettitore glutammato. A questo si aggiungono le “smart drug” vere e proprie, spesso vendute come integratori alimentari e testate da comunità online, tra cui l’Alleradd, il cui nome strizza l’occhio al bestseller Adderall (il medicinale che ha persino ispirato un romanzo noir e un film), a base di caffeina, niacina, vitamine, neurotrasmettitori Gaba, estratti di piante. Nel novero, ChocoMind, capsule Usa a base di cacao, feniletilamina, teobromina e caffeina. Che i neuro-enhancer, la tossicodipendenza più hot e “garbata” di oggi, stiano foraggiando il mercato nero online, e che li circondi un vortice di ricette compiacenti, diagnosi false, scorte smerciate, prodotti contraffatti, spaccio opulento e politiche sanitarie divergenti (in Italia, il Ritalin è controllato da un registro nazionale, l’Adderall non è registrato, il Provigil è vincolato) è superfluo ricordarlo. Meno noto, forse, è che siano diventati il campo di battaglia tra quanti, taluni neuroscienziati compresi, rivendicano il gesto liberatorio di un’umanità che pretende prestazioni mnemoniche adeguate a un corpo che invecchia meno velocemente, e quanti, invece, temono gli effetti collaterali e i riflettori troppo puntati su un tipo di “intelligenza” non creativa.
Ennesimo sogno californiano a parte, è comunque l’America delle università d’alto ranking e dei ring professionali d’alto bordo il bacino di coltura del fenomeno. È già qualche anno che molti studenti di Harvard, non per forza i primi della classe, diciamo più quelli che intendono andare avanti decorosamente senza rischiare di finire fuori-sistema o, va detto, rinunciare a una vita comunque piena e divertente, ingollano bidoni di Adderall. È già qualche anno che i manager di mezz’età buttano giù con più parsimonia flaconi di Adderall per concentrarsi meglio e riuscire a tenere il passo dei colleghi più giovani, che magari vengono da paesi molto “laici” in materia. Ma i numeri si stanno impennando. Nel 2012 le ricette legali, solo quelle!, erano già 21 milioni e gli studenti “potenziati” più di un quarto degli iscritti nelle facoltà della Ivy League, con un aumento di prescrizioni che dal 2007 era cresciuto del 26% (vendite raddoppiate, giro d’affari passato dai 4 ai 7,9 miliardi). Nel 2013, sondaggio più, sondaggio meno, quasi un 30% di universitari si è fatto “aiutare” dal medico. E questo solo per quanto riguarda il consumo alla luce del sole. Per di più calcolato su un campione giovane: parrebbero sempre più numerose le donne executive, entusiaste di una medicina “carina” che consente loro di far tutto quello che devono fare, con risultati apprezzabili e per di più con una silhouette impeccabile. Più difficile fornire cifre concrete sulla realtà europea, anche se per quanto riguarda il nostro Paese soccorre lo studio Espad-Italia, realizzato dal Cnr di Pisa: nel 2013 sono stati circa 66mila gli studenti che hanno fatto uso di stimolanti (dal 2,4% del 2011 al 2,8%); in 27mila (1,2%) si sono rivolti alle smart drugs. E che il problema sia molto sentito anche qui da noi, lo dimostra il documento pubblicato l’anno scorso dal Comitato nazionale per la bioetica, intitolato Neuroscienza e potenziamento cognitivo farmacologico: profili bioetici (contributo scientifico di Silvio Garattini). Racconta un ex studente: «Prendevo un Adderall alle 8 di mattina, a colazione, andavo a lezione, nel pomeriggio in biblioteca, libri su libri per approfondire, come un ossesso. Poi andavo ai meeting di un gruppo sulla salute mentale. Poi di notte scrivevo il mio paper. Riandavo a lezione la mattina dopo, tornavo a casa e dormivo 2 ore. Finivo il paper». Continua: «Mi dava un’iperattività positiva, una sorta di ipersenso del dovere, perfetto per chi, come me, avrebbe avuto un rendimento scolastico modesto. Ma se qualcuno mi invitata a pranzo, ero un conversatore inappetente e molesto. Dopo la laurea ho smesso. Ho ricominciato anni dopo, in modo più consapevole. La tentazione di cercare aiuto alla prima difficoltà era irresistibile».
Riannoda le fila del discorso Luigi Cervo, responsabile del laboratorio di psicofarmacologia sperimentale nel Dipartimento di neuroscienze dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano: «Il cosiddetto potenziamento neurocognitivo farmacologico è almeno per ora limitato al consumo “off label” (al di fuori dell’indicazione d’uso), da parte di soggetti sani, di medicinali sviluppati soprattutto per trattare sindromi o patologie psichiatriche e neurologiche. E riguarda solo possibili, modesti e contraddittori miglioramenti di alcune specifiche e limitate prestazioni mentali: la memoria a breve termine, le capacità di concentrazione e apprendimento, il controllo cognitivo. Tutto ciò non controbilancia il rischio di effetti collaterali, e non tiene conto della complessità del “processo cognitivo”: forse sarebbe necessario “potenziare” molti, diversi sistemi neuronali per ottenere il risultato desiderato, e forse l’assunzione di una pillola magica non sarà sufficiente, ma ne serviranno diverse». Continua Cervo: «La comunità scientifica si sta chiedendo se i neurostimolatori che acuiscono l’attenzione possano ottundere la creatività e/o altre funzioni mentali: alcuni studi di psicologia cognitiva affermerebbero l’esistenza di un rapporto inversamente proporzionale tra attenzione e creatività». Insomma, il rischio è quello di un esercito di super-ragionieri, di simil-robot, di tecnoburocrati immagazzina-dati.
Interviene Stefano Farioli Vecchioli, ricercatore presso l’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Cnr: «Stiamo parlando di farmaci che agiscono sul lato motivazionale ed esecutivo della personalità, e che sono spesso assunti off-label da studenti e adolescenti. Il che mi porta a qualche osservazione. Primo, queste sostanze parrebbero non avere immediatamente grossi effetti collaterali; ma, dato che cambiano la regolazione genica (ciò che consente a una cellula di esprimere un gruppo di geni in un contesto e di silenziarne altri, ndr) in modo simile, ma meno forte, a quello della cocaina, ecco che potrebbero innescare, quando il ragazzo non avrà più 20 anni ma 40, un altro tipo di dipendenza. E poi, non hanno alcun effetto sui soggetti sani, sulla loro cognizione, e nemmeno sul loro apprendimento: semmai ne migliorano la concentrazione in generale e lo svolgimento di particolari compiti, sono uno stimolatore cerebrale, un “aiutino” motivazionale per chi ha tante cose da fare e deve stare sveglio. Forse sono pure un placebo, dal punto di vista cognitivo: li prendo e mi sento subito più intelligente».
Luigi Cervo riporta la discussione sui problemi bioetici: «Utilizzare psicofarmaci per indurre un potenziamento cognitivo delle persone sane potrebbe mettere in discussione gli scopi della medicina, il significato di cura, i confini tra salute e malattia, tra normale e patologico. Il significato di natura umana e di giustizia sociale. Oggi si ammette che il confine tra terapeutico-riparativo ed enhancement di funzioni e capacità possa essere sfumato e dunque richieda un previo accordo tra ciò che è “normale” e ciò che è “anormale”. È lecito chiedersi chi farà quest’accordo? O, senza continuare a chiedersi se una pratica biomedica sia finalizzata alla cura o al potenziamento, non sarebbe meglio riflettere sugli usi buoni o cattivi del potere biotecnico?».