Matteo Fagotto, GQ 11/2014, 11 novembre 2014
QUELL’ONDA MALEDETTA
«Continuo a pregare Dio perché un giorno mi faccia reincontrare i miei bambini in sogno. Finora, però, non è mai accaduto». Dopo quasi un’ora di intervista, Armansiah Nyong è sul punto di scoppiare in lacrime. La sua nuova famiglia, moglie e due bambini, coglie immediatamente la gravità del momento, ascoltando rispettosamente, senza proferire parola. Dopo un breve momento di commozione, quest’uomo di 44 anni, calmo e robusto, recupera il suo contegno. «Lo tsunami rimarrà per sempre nella mia memoria», continua. «Il mio incubo ricorrente è di essere sommerso dalle onde».
Alle 7.59 del 26 dicembre 2004, un terremoto di magnitudine 9,1 scatenatosi 160 chilometri al largo della costa occidentale di Sumatra, nell’arcipelago indonesiano, provocò il più potente tsunami della storia. Una serie di onde alte fino a 30 metri devastarono le coste di 15 Paesi affacciati sull’Oceano Indiano, uccidendo 280mila persone e provocando 1,6 milioni di sfollati. Con l’80% delle vittime, la provincia indonesiana di Aceh fu di gran lunga la più colpita: le onde distrussero 800 chilometri di costa, spazzando via intere famiglie e migliaia di villaggi in pochi secondi.
Come tanti altri abitanti di questa città situata all’estremità occidentale di Sumatra, Nyong è un sopravvissuto. I suoi occhi hanno visto dritto in faccia la morte, i suoi ricordi sono spaventosi nella loro dettagliata accuratezza. Quella domenica mattina, l’uomo stava lavorando come bagnino sulla spiaggia di Ulee Lheue, un quartiere costiero di Banda Aceh. Era una splendida giornata di sole, e quando si scatenò il terremoto la spiaggia era già piena di gente. Mentre tentava di riprendersi dallo shock aiutando i feriti, Nyong notò che l’acqua dell’oceano si era ritirata per più di un chilometro, lasciando una miriade di pesci morenti sulla sabbia asciutta. «La gente correva per raccoglierli», continua Nyong, il suo tono di voce intensificatesi come ad anticipare la catastrofe. «Io non ci andai. Mi sembrava molto strano, come se stesse per succedere qualcosa di terribile».
Pochi minuti dopo, Nyong scorse un’enorme massa di schiuma bianca all’orizzonte. L’acqua si avvicinava alla costa a 800 chilometri orari, seguita da boati assordanti. La gente cominciò a fuggire, ma era troppo tardi. Nyong fu scaraventato a terra dalla forza dell’acqua mentre era ancora vicino alla costa. Quando riuscì a riemergere, la scena attorno a lui era apocalittica: la città era diventata mare, le onde nere colme di detriti, automobili e cadaveri. La marea si spostava verso il centro città, distruggendo ogni cosa. «Provai a salvare una donna tenendola sotto il mio braccio, ma la corrente era così forte che la inghiottì», continua Nyong, gesticolando animatamente, come se si trovasse ancora in acqua.
Con le ultime forze, l’uomo riuscì ad abbrancare un pezzo di legno, lasciandosi trasportare dalla corrente. Dopo quasi un’ora, quando l’acqua cominciò a ritirarsi, Nyong si ritrovò arenato in un parco del centro città, a quattro chilometri dalla spiaggia. «C’erano cadaveri ovunque, la gente saccheggiava i negozi alla ricerca disperata di cibo e acqua potabile», ricorda.
Verso sera, l’uomo fu finalmente soccorso e portato in un campo per sfollati organizzato in fretta e furia. Lo tsunami aveva cancellato le zone costiere di Banda Aceh, provocando 90mila vittime e lasciando la città senza acqua corrente ed elettricità, strade e linee telefoniche. L’indomani, alla disperata ricerca della sua famiglia, Nyong decise di tornare a Ulee Lheue, raggiungendola dopo un surreale viaggio a piedi tra immondizia, rovine e cadaveri. L’area era stata completamente distrutta, una parte di essa letteralmente inghiottita dal mare e trasformata in una sorta di laguna. Per due anni, Nyong sopravvisse grazie agli aiuti umanitari, setacciando ogni campo profughi della città alla ricerca dei suoi cari. A oggi, nessuno sa che fine abbiano fatto, un destino comune a molte famiglie i cui cari sono stati portati via dalle onde.
Nel 2007 Nyong si è risposato e ha messo al mondo due bambini. La famiglia vive in una casa color crema in un anonimo centro residenziale costruito ai piedi di una collina alla periferia orientale della città. L’area è abitata dalle famiglie la cui terra è stata inghiottita dal mare o ritenuta troppo pericolosa per tornarvi a vivere. Nyong ci mise 4 mesi a togliersi lo sporco dalla pelle, ma i ricordi dei suoi cari lo tormenteranno per molto più tempo. Come lui, centinaia di migliaia di sopravvissuti la cui esistenza è stata sconvolta dallo tsunami hanno trovato la forza di ricominciare, ricostruendo le loro vite dal nulla.
Dieci anni dopo quel maledetto Santo Stefano, Banda Aceh è molto diversa dalla città fantasma le cui immagini scioccarono il mondo. Grazie alla più grande operazione umanitaria della storia, la città è stata ricostruita in meno di tre anni da centinaia di Ong coordinate dall’Agenzia Indonesiana per la Riabilitazione e la Ricostruzione di Aceh e Nias (Brr). In tutta la regione, la Brr ha riedificato 140mila case, 1.700 scuole e quasi 4.000 chilometri di strade. Per garantire un alloggio in tempi brevi agli oltre 500mila sfollati, le nuove case sono piccoli edifici rettangolari essenziali e identici uno all’altro.
Oggi, due ampi viali collegano il centro di Banda Aceh alle zone costiere. In caso di tsunami, una serie di vie di fuga chiaramente indicate ne facilita l’evacuazione. Sono anche stati costruiti diversi escape building, fatti di larghe terrazze a più piani che possono offrire riparo a migliaia di persone. «Siamo meglio equipaggiati di prima», conferma Illiza Sa’aduddin Djamal, la giovane ed elegante sindaco di Banda Aceh dal 2007. «La planimetria della città è stata radicalmente cambiata e oggi è una delle migliori in Indonesia».
Le cicatrici interiori di quel drammatico evento sono molto più difficili da curare. Molta gente fugge di casa terrorizzata a ogni minima scossa di terremoto, un evento piuttosto comune in una regione altamente sismica come questa. Altri trovano ancora difficile accettare la perdita dei loro cari. «Nei primi anni dopo lo tsunami mi chiedevo perché fossi sopravvissuta. Non sarebbe stato meglio andarmene con i miei figli?», si chiede la 49enne Yusnida, una donna dallo sguardo dolce e malinconico che vive nel quartiere di Lampaseh. Madre di tre figli, due dei quali morti, la donna trascorse quasi 12 ore in mare prima di essere soccorsa da alcuni pescatori.
Quando Yusnida fece ritorno al villaggio, ricostruito due anni e mezzo dopo, trovò un’atmosfera diversa: le migliaia di vittime erano state sostituite da numerosi nuovi arrivati. «Nessuno può capire cosa significhi essere un sopravvissuto», spiega Yusnida, che descrive la sensazione come un fragile equilibrio tra gioia e dolore. Legati per sempre da quel tragico evento, i sopravvissuti di Lampaseh organizzano cerimonie a ogni Ramadan, mangiando e pregando assieme e raccontandosi le storie dei loro cari. «Parlo dei miei figli e ascolto le esperienze degli altri», spiega. «Mi sento sollevata, è come togliersi un peso dal cuore».
Le cicatrici di quel giorno costellano l’intera Banda Aceh: dal museo dello tsunami, la cui struttura domina il centro città, alle navi incagliatesi tra i palazzi e trasformate in memoriali; dalle targhe commemorative alle fosse comuni. La più grande, un semplice prato costellato da qualche lapide all’entrata di Ulee Lheue, ospita i resti di 14.800 persone. Al suo interno si trovano gli spartani uffici dello Tsunami and Disaster Mitigation Research Center, incaricato dei corsi per la prevenzione. Da quando si sono esaurite le donazioni internazionali il centro è sempre a corto di fondi e personale, e il governo locale non sembra interessato a subentrare. «Come ci prepareremo per l’eventualità di un altro tsunami?», si chiede la program manager Ella Meilianda, 28 anni. «Dobbiamo trasferire la conoscenza acquisita dopo il 2004 alle nuove generazioni».
Una volta terminata la ricostruzione, la regione è tornata all’atmosfera placida e rilassata di un tempo. La strada che da Banda Aceh scende lungo le zone più colpite della costa occidentale passa tra colline tropicali e spiagge incontaminate, interrotte da villaggi di pescatori. Nonostante sembri un paradiso in terra, l’onnipresenza delle casette rettangolari dà un’idea delle proporzioni della tragedia. Per proteggere la popolazione da un altro tsunami il governo aveva inizialmente proposto una zona cuscinetto di due chilometri lungo le fasce costiere, ma il piano fu accantonato per l’opposizione delle comunità di pescatori, decise a conservare le tradizioni e le terre: abbandonare il mare era fuori discussione, malgrado i rischi.
Lo tsunami, del resto, non è riuscito a scalfire neanche il rapporto di Nyong con l’oceano. «Amo tuffarmici, nuotare e pescare. Il vivere accanto al mare mi manca molto», conferma l’uomo con nostalgia. «Quando ero piccolo abitavo così vicino all’acqua che potevo quasi tuffarmici dalla finestra», ricorda. E per un attimo i suoi occhi si illuminano con i ricordi dell’infanza. Nyong promette che tornerà presto a Ulee Lheue, stavolta in compagnia del figlio di 6 anni. «Lo porterò sulla spiaggia, dove un tempo c’era la mia casa», spiega. «Voglio che sappia quello che è successo».