Tim Small, GQ 11/2014, 11 novembre 2014
PARODIA DURA SENZA PAURA
È iniziato tutto con un panda. Si chiamava Wwf, World Wrestling Federation, come il Wwf, World Wildlife Fund. Dopo la causa vinta dai salva-panda, la Wwf del wrestling è diventata Wwe, World Wrestling Entertainment: nome più appropriato, in effetti. La parola “Federazione” faceva venire in mente un’associazione sportiva; “entertainment”, invece, non lascia alcun dubbio.
Con un fatturato di più di 500 milioni di dollari all’anno, la Wwe è quotata in Borsa, al New York Stock Exchange (proprio con la sigla Wwe). Ormai dovrebbe essere chiaro che si parla poco di sport e molto di intrattenimento, di mercato, utenza, prodotto.
La Wwe è proprio questo, ormai: un prodotto di “global entertainment”, un network che porta i suoi atleti – o, come preferisce che vengano chiamati i wrestler, «le sue superstar» – in ogni angolo del pianeta, a combattere (per finta, ovviamente). E a esportare un “prodotto” fondato sulle loro storie, sugli intrecci narrativi, sulla recitazione: tutto snodato tramite lo scontro sul ring.
Stanno avendo un successo strepitoso. Per esempio WrestleMania, una delle dozzine di sottomarche di proprietà della Federazione (che conta, fra gli altri, anche Wwe Live, Royal Rumble, Nxt, Raw, Countdown), secondo Forbes è appena entrata nella Top Ten mondiale dei brand sportivi. Calcolando la media dei profitti generati da merchandising, media, sponsorizzazioni e vendite di biglietti, la rivista di economia e finanza ha stabilito che il valore stimato di WrestleMania raggiunge i 105 milioni di dollari: più del Kentucky Derby e della Daytona 500, due eventi che reggono la grande tenda dello sport Made in Usa insieme alle Finali Nba, alla Stanley Cup di hockey, alle World Series di baseball e al Super Bowl del football.
Poi, certo, c’è la violenza. Cioè la vera colonna portante del wrestling. Una brutalità spettacolarizzata, fatta di carpiati, calci volanti, suplex (una specie di rovesciata) e altre mosse estremamente atletiche. Ma, sempre per rendere il prodotto Wwe davvero commerciale, quella messa in scena è sanificata, così da esser pronta all’espansione capillare in un mercato formato perlopiù da minorenni.
Certo, è una violenza estetizzata, divertente, leggera, un baraccone; ma un baraccone che va comunque a stimolare quel testosterone che nella vita ci spinge a far di tutto, dal sesso alla guerra. Persino a comprare i biglietti per andare a vedere due omoni che si prendono a schiaffi per finta.
Ho chiesto a Seth Rollins, superstar della Wwe che si scontrerà con John Cena sul ring del Mediolanum Forum di Assago il 14 novembre, un’opinione sul cambiamento in seno al wrestling globale. «Quand’ero piccolo amavo Hulk Hogan, come tutti. Oggi faccio parte di un mondo di entertainment che mi porta in Messico, in Thailandia, a Londra, a Milano. E in ogni Paese possiamo portare il nostro prodotto dal vivo, sentire l’affetto della gente. Fermo restando che, comunque, i fan possono seguirci in diretta streaming da qualsiasi luogo in cui esista la rete. È bello sapere che il nostro prodotto arriva in tutti gli angoli del pianeta».
Sembra felice di fare quello che fa. Più avanti gli dirò che anch’io, da ragazzino, ero abbastanza fissato con quel biondo, baffuto, muscolosissimo eroe americano: Hulk Hogan, per molti la personificazione del wrestling. Ma era un periodo diverso.
Era la cosiddetta Gimmick Era, l’epoca del “trucco”. Quando cioè ogni combattente era definito dal costume che indossava dal suo personaggio, da un’identità fasulla e molto sopra le righe. Chi non ricorda The Undertaker, il proto-Corvo della Wwf? Oppure Irs, il mio “cattivo” preferito? Interpretava l’esattore delle tasse, saliva sul ring in giacca e cravatta ed era assolutamente detestato da tutti, al 100%. Per non parlare dell’epica battaglia tra Hulk Hogan e The Iron Sheik (che si ispirava a Saddam Hussein) durante la Guerra del Golfo.
Quell’era non c’è più. Oggi le “superstar” sono personaggi più credibili. Come Cena o Rollins, appunto. Non indossano costumi sfavillanti o identità da cartone animato. «Siamo diversi, certo. Ci chiamiamo con nome e cognome, portiamo un pezzo di noi stessi sul ring», dice Seth. «Ma l’importante è che la qualità dell’entertainment sia la stessa».
Forse il prodotto Wwe cerca di recuperare credibilità perché nell’epoca dei reality show e delle notizie sportive 24 ore al giorno e 7 giorni su 7 gli sfarzosi costumi colorati di Macho Man, Randall Mario Poffo e dei Legion of Doom non hanno più senso. Non servono. È tutto uno show: il 24 hour news cycle ha trasformato ogni sport in una narrativa di massa condivisa da tutti, in cui l’atleta Mario Balotelli è, in realtà, il personaggio mediatico Mario Balotelli.
È questo il potere della nuova Wwe, oltre all’espansione globale: nessuno al mondo dubita che sia tutto spettacolo. Anzi. Lo stesso Seth parla di “show”, non di scontro; tanto meno di sfida. Una spettacolarizzazione quindi, basata però sulla prestanza atletica e tecnica.
Non va sminuito il lavoro di questi bestioni. Se avete qualche dubbio, provate a sollevare un uomo di 150 chili e a lanciarlo per terra senza che nessuno dei due si faccia male, poi a prendere un microfono e a recitare la parte su un ring davanti a 30 mila persone. In maniera del tutto credibile. Indossando solo dei mutandoni e un paio di stivali.
È finto ma anche molto, molto vero. È «The real fake wrestling», la vera finta lotta: così il professor Jordan Bass, direttore del Laboratory for the Study of Sport Management alla Kansas University che da anni conduce una ricerca a livello socioeconomico sul fenomeno, definisce la sua area di analisi. Quel che conta, sostiene, non è chi vince o chi perde, non è la provenienza geografica di una squadra o di un atleta che sconfigge un avversario. No, in questo, il wrestling è diverso dagli altri sport. Il fan segue la Wwe per godersi tutto quanto lo spettacolo, non solo una singola squadra o un singolo atleta. Le domande che si fa sono: «Cosa si inventeranno ora? E quello là è un bravo attore? Chi decideranno di far vincere questa settimana?».
Perché sa, come chiunque altro, che è tutto scritto a tavolino, che ogni azione segue passo dopo passo una sceneggiatura; ma la forza della Wwe sta nel saper modificare quello screenplay in tempo quasi reale per fornire sempre ciò che il pubblico vuole. «Con internet siamo sempre più vicini ai nostri fan, e possiamo dar loro uno show sempre più immediato», mi ha detto Rollins.
Proprio di questo stava parlando, probabilmente. Che poi sul ring si prendano davvero a pugni o no, cosa conta? L’importante non è che sia vero, ma che sia divertente.