Malcom Pagani, GQ 11/2014, 11 novembre 2014
LE MOLTE VITE DI PIF
Per «capire in fretta la vita», giura Pif, «pulire un pisciatoio è una scorciatoia utile». Ai tempi in cui i sogni erano un colpo di ramazza, a Pierfrancesco Diliberto, siciliano emigrato per conclamata allergia al posto fisso, tra un ostello londinese e un britannico McDonald’s, capitava tutti i giorni. «Lavoravo come cameraman a Palermo e lo stipendio era anche buono, ma vedevo il principale regista dell’emittente marcire nell’ignavia e nella noia e mi dicevo “qui non c’è futuro, così non voglio diventare”. Assemblai tre stracci, agguantai uno zaino e affrontai l’avventura inglese come un gioco. Negli ostelli ricoprivo una mansione di responsabilità: quando le docce comuni si intasavano, smontavo le viti sul pavimento e rimuovevo i peli».
Vent’anni e molti premi dopo, seduto a osservare uno scorcio di metà luglio in un ristorante romano, a questo Oblomov con l’attitudine errante di un Giulio Verne viene da ridere: «Sono pigrissimo, ma ho girato il mondo senza mai avere la sensazione di andare a lavorare. Avevo una passione e l’incomprensibile certezza che in qualche modo, presto o tardi, l’avrei onorata. Non avevo le prove per sostenere l’assunto e così mi sono dato da fare. Da ragazzo hai forza, voglia, fame e incoscienza. Puoi sbatterti giorno e notte, sperimentare qualsiasi gavetta e pensare, senza mai deprimerti, che domani qualcuno si accorgerà di te».
Ora che l’ipotesi giovanile è diventata tesi e La mafia uccide solo d’estate, il suo film d’esordio, ha messo in bacheca coccarde torinesi, David di Donatello, Nastri d’Argento, Ciak e Globi d’oro, a Pif guardarsi indietro non dispiace.
Uno scultore danese come avo; un padre regista, «un sognatore»; una madre «dallo spiccato senso artistico» e la sua città d’elezione come permanente teatro dell’assurdo in cui recitare tra paure, dolore, morte, rimozioni e amorose timidezze adolescenziali.
«A casa ho respirato libertà. I miei genitori tolleravano serenamente le apparenti perdite di tempo, i pomeriggi passati davanti al televisore, i viaggi senza approdo della mia fantasia. “Prova a essere felice, raccontaci cosa vuoi fare e ti aiuteremo”, dicevano. Sono stati di parola, soprattutto nell’esempio. Mio padre vendeva auto per la Fiat, un posto sicuro. Un giorno, di punto in bianco, mollò tutto per reinventarsi. Non fu facile. Aveva due figli e per inseguire i suoi sogni fece i salti mortali. Mi ha insegnato una cosa semplice: “O provi a fare il mestiere che ti piace oppure ti ammazzi”. Il tempo rubato dal tuo mestiere è talmente ampio che non c’è altra soluzione».
Pif si ritiene fortunato. Ha il bicefalo timore di prendersi, o essere preso, troppo sul serio e, non diversamente dall’epoca in cui da Iena intervistava un personaggio celebre per poi piantarlo in asso e correre da un omologo («Ma quello non è Giampiero Galeazzi?»), oppone alla pretesa di sociologizzarlo l’antidoto dell’ironia: «A ogni frase logica faccio seguire un paio di minchiate». Confondere le acque, mimetizzarsi, fuggire dalle classificazioni, pur encomiastiche, di Aldo Grasso, in cui Pif e il suo giornalismo d’inchiesta in onda su Mtv non ballano soltanto, come da titolo, da “testimoni”, ma assurgono a demiurghi e cantori di una “antropologia light”. Ridere, comunque. Dei fili invisibili. Delle telefonate diventate fortunato spot.
«Sapevo che prestando il mio volto alla pubblicità ci sarebbero state polemiche. Ma in fondo mi è andata bene, anche se giustificarsi è triste e spiegare che, se amo il pile, non è perché non posso permettermi la seta, ancor più mesto. Conduco la mia vita esattamente come prima, ma vestire firmato per un servizio fotografico non mi cambia e non mette in discussione la mia credibilità. Che è tutto quel che ho. Ai primi detrattori, quelli che appena mi videro uscire dal guscio de Il testimone godettero nel farmi la morale, accusandomi di essermi venduto, rispondevo sempre: “Ma credete che Mtv sia una Ong?”».
Ridere. Come filosofia. Come esigenza. Come drappo sulla malinconia. Ridere di tutti gli altri squilli che filologicamente salvano la vita: «Un trillo acciuffato per miracolo, mentre dormivo, all’alba di mezzogiorno. Mi chiamavano dal corso per autori di Mediaset per comunicarmi che avevano accettato la mia domanda. A Milano scoprii un mondo incredibile. C’era gente più adulta, qualche stronzo con cui sono diventato poi fraterno amico e i dirigenti ti ponevano quesiti intimi. “Cos’è che ti commuove?”. Io ci andai in piena incoscienza. Non avevo timidezze e mi passava sopra tutto».
Autoscatto assertorio: «Negli ultimi 42 anni la mia fortuna è stata questa. Può succedere qualunque cosa, ma lì per lì è difficile che me ne accorga: l’acqua mi bagna e il vento mi asciuga». E fotogramma contrario, perché non c’è soffio creativo senza contraddizione: «È chiaro che qualche colpo, di quelli capaci di far male, è arrivato anche a me. A volte in ritardo, a volte dieci anni dopo. Non conosco una sola persona che sia totalmente immune dal dolore. Le cose succedono. Gli eventi ti toccano. Il destino, a volte, ti travolge».
Per evitare di occuparsi di sinistri, Pif rifiutò la cittadinanza ciociara: «I miei zii facevano gli assicuratori a Frosinone, mi proposero di dargli una mano durante l’estate e al culmine dell’abbrutimento casalingo e con le tasche vuotissime, non trovai alcuna ragione per rifiutare».
Quando si trattò di segnare la linea, però, Pif non saltò il fosso: «Mi chiesero di rimanere anche a settembre, di trasferirmi. Decisi di dire di no, volevo lavorare in tv: se in Italia hai una professione, poi cambiarla diventa quasi impossibile». Pif ne indossa una e centomila, muta d’abito, trascorre una lieta stagione con Giulia Innocenzi e, prima di diventare padre, vuole trottare ancora un po’ da figlio senza fissa dimora. Anche se per la prima volta nella sua vita, si stupisce: «So esattamente cosa farò nei prossimi tre anni», l’incedere da Candide è lo stesso degli inizi. Dei set con Marco Tullio Giordana a scrutare i misteri dei cento passi di Peppino Impastato: «Di lui, devo ammettere, sapevo pochissimo e non ero capitato lì per passione civile», e della stretta conoscenza con Blanche: «Il cane del maestro Zeffirelli. Un vero signore, poi mai più chiamato né incontrato, che la sera ci rapiva perdendosi in narrazioni su Pasolini e la Magnani».
Durante le pause di Un tè con Mussolini, «da ultima ruota del carro, senza recriminazioni», Pif pascolava con Blanche e intanto immaginava un racconto su una pecora nera, un ragazzo sensibile, un alieno nella Palermo libanese degli Anni 80. Venne La mafia uccide solo d’estate: «Con Costanzo, Mieli, Brizzi e Martani, i miei produttori, ho lavorato in grazia di dio. Ma la persona che auguro a chiunque di incontrare è il loro socio, Mario Gianani. Meticoloso. Illuminato. Paziente. Mi ha permesso di dare forma a un’idea che covavo da anni». Adesso con la stessa squadra Pif andrà al secondo tempo, il più difficile, il meno comodo. Ci arriverà con la coscienza politica in linea con l’ultima infatuazione del Paese: «Sono stato alla Leopolda in tempi non sospetti. Stimo e appoggio Renzi, ma mantengo il mio spirito critico e così, come è normale, a volte son d’accordo e a volte meno», e i ricordi che non si smacchiano, non se ne vanno, non imbiancano. Quando morì Borsellino, Pif sentì rumore e silenzio. «Stavamo lavorando alla parodia di Balla coi lupi in siciliano e sentimmo un fragore che non finiva più. Scendemmo in strada. Esorcizzando l’idea, sapendo che non poteva essere vero, ci rassicuravamo con agitazione: “Sarà stata una fuga di gas”». Via D’Amelio era a meno di due chilometri. Pif ci arrivò da testimone. A vent’anni. Più di venti anni fa.
Testo di Malcom Pagani
Servizio di Andrea Porro