Mattia Feltri, La Stampa 10/11/2014, 10 novembre 2014
SILVIO E LA SINISTRA, L’ACCORDO IMPOSSIBILE
Si direbbe che risuccede e, se risuccede, avremo una nuova fertile stagione di retroscena incaricati di scoprire chi ha fatto saltare tutto: Silvio Berlusconi o Matteo Renzi?
Perché a distanza di diciassette anni e qualche mese ancora non si è stabilito se a far saltare tutto - nella Bicamerale del 1997 - fosse stato il medesimo Berlusconi (indiziatissimo) oppure l’interlocutore del momento, Massimo D’Alema. La Seconda repubblica era cominciata da tre anni soltanto ma già non se ne poteva più del tafferuglio quotidiano, e già si avvertiva, soprattutto, la necessità di ammodernare le istituzioni, passate a nuova vita esclusivamente per la riforma della legge elettorale: il bipolarismo era sbocciato con l’introduzione del sistema maggioritario. Le comari si erano tese la mano per il supremo interesse della pacificazione e della modernizzazione, e il capo del centrodestra era molto fiero dell’acrobazia linguistica con cui aveva gratificato il (semi)capo del centrosinistra: «Il migliore dei peggiori». Si corteggiavano da qualche tempo: D’Alema era andato a Cologno Monzese a dichiarare Mediaset bene dell’umanità, e a restituire la visita concessa dall’altro al congresso del Pds (1995). Quella volta il grande tombeur aveva parlato di futuro e amicizia e interessi comuni, e aveva strappato D’Alema dalla sedia, in piedi ad applaudire. Secondo la prognosi berlusconiana, per il comunismo non c’era più niente da fare: intanto D’Alema non era doppio - «se dice sì è sì, se dice no è no» - e poi «parla come un vero socialdemocratico».
Quando, in introduzione all’incontro del Nazareno, Berlusconi si è congratulato col nuovo segretario del Pd («Renzi è una cosa diversa, non ha le stesse idee del partito, ancora formato da uomini del Pci che non hanno mai abbandonato l’ideologia comunista. Con lui anche in Italia si potrebbe avere un partito socialdemocratico»), questo giornale ebbe l’indelicatezza di ricordare - in caso di memorie deboli - che se Berlusconi intuisce un socialdemocratico nell’improvviso diradarsi del bolscevismo, bè è il preludio del disastro. Nel 2007 (governo Prodi) era stato scortato dentro al PalaMandela di Firenze dai portuali di Livorno, grande gesto di rispetto dalla dirigenza avversaria, e aveva sentito Piero Fassino teorizzare che le riforme si fanno tutti assieme o non si fanno. Una stella cometa: Berlusconi aveva scoperto un Fassino dotato di una «volontà coraggiosa», la volontà di coltivare «l’idea socialdemocratica». Poi non se n’è fatto nulla, forse non c’è stato il tempo ma, giusto l’anno dopo, l’occasione si è ripresentata con Walter Veltroni alla guida del nascente Partito democratico. Meglio di così non poteva andare, disse Berlusconi, perché il segretario era «un socialdemocratico». Certo, circondato da vopos nostrani, ma con un socialdemocratico di quella stoffa «mai c’è stata come oggi la possibilità di varare in dodici mesi la riforma elettorale e quella istituzionale». E invece niente, tempo qualche mese e al rieletto presidente del Consiglio toccava constatare che «il Pd non è ancora riuscito a diventare un partito socialdemocratico».
Nel frattempo abbiamo sentito da Arcore rallegramenti anche per la presa del potere del «socialdemocratico» Pierluigi Bersani, con il quale Berlusconi avrebbe prolungato le larghe intese sperimentate in sostegno all’esecutivo di Mario Monti (un anno e mezzo e zero riforme). Che è successo se lo ricordano tutti, le larghe intese è toccato rimetterle in piedi a Enrico Letta, il Nipote. Siccome è democristiano, non teneva al titolo di socialdemocratico, e nel suo governo di comunista non c’era nemmeno un sospiro, e semmai c’erano ministri forzitaliani designati da Berlusconi in nome di una legislatura finalmente costituente, finalmente di pacificazione, finalmente di modernizzazione eccetera eccetera.
Se c’è però un pregio da riconoscere al leader permanente del centrodestra è di conservare un buon intuito, e infatti sostituì Letta con Renzi ben prima che lo facesse il Pd. «Se Renzi vince le primarie si verifica questo miracolo: il Pd diventa finalmente un partito socialdemocratico». Ed è un Pd con cui «avremmo certamente la possibilità di collaborare». Eh, sarà colpa del destino.