Claudio Antonelli, Libero 09/11/2014, 9 novembre 2014
«ALLA GIUSTIZIA SERVE LA MOVIOLA CERTI PM VANNO FERMATI SUBITO»
Francesco Bellavista Caltagirone. Assolto perché il fatto non sussiste. Nel 2012 viene arrestato due volte: una pubblicamente, sull’uscio del Comune di Imperia; una nel 2013, per un’altra inchiesta non così difforme dal processo legato al porto di Imperia e da cui è appena stato assolto. L’accusa era truffa. Circa 130 milioni di euro, per lavori svolti senza regolare gara. Ne hanno parlato tutti i giornali, d’altronde era stato coinvolto anche l’ex ministro Claudio Scajola, la cui posizione è stata dopo pochi mesi archiviata. Uscendo dal tribunale, l’altro giorno, l’imprenditore ha espresso fiducia nella giustizia «per come con rigore assoluto ha gestito e concluso il processo». Quando ha ascoltato la sentenza di assoluzione che cosa ha provato? Felicità o rabbia? «Mi creda, per prima cosa ho provato grande ammirazione per i giudici. Perché si sono attenuti alla legge. Sono anche stato bacchettato più volte durante le udienze, ma l’indipendenza di giudizio è ciò che mi ha fatto pensare che l’Italia è piena di bravi professionisti, di magistrati che valutano dopo aver analizzato i fatti. Poi, un attimo dopo, è arrivata una grande ondata di felicità che non ha lasciato spazio a sentimenti di revanscismo. Ciò che è successo a me è responsabilità di singoli errori. In tutti i settori si sbaglia. Nel calcio si discute se introdurre la moviola in campo. In alcuni Paesi è stato fatto e serve a correggere gli errori in tempo reale. Ecco, il sistema giudiziario dovrebbe introdurre qualcosa di simile contro un certo tipo di carcerazione preventiva. Se certi singoli pm eccedono, vanno fermati subito dal sistema giudiziario. Non si possono aspettare anni prima che arrivi una sentenza assolutoria». Una moviola in campo per valutare in tempo reale la carcerazione preventiva? «Più o meno. Spesso un giudice deve studiare centinaia di pagine in pochi giorni. Valuta le accuse, ma non può certo fare indagini parallele. Forse è anche per questo che si fa così grande uso del carcere o dei domiciliari, al contrario di quanto avviene in altre nazioni. Il dramma non è tanto o solo nel fatto che si soffre dentro una cella, ma che il sistema stesso di carcerazione preventiva ti lascia impotente. Solo da liberi, al contrario, ci si può difendere e si è alla stessa stregua dell’accusa. Una vera difesa è fatta in tandem: imputato e avvocato. Se uno dei due non riesce fisicamente a difendersi, a mio avviso, si cade nell’incostituzionalità. Nel mio caso, se fossi stato libero da subito avrei potuto esibire le stesse prove che poi ho portato a processo». La prima volta è stato arrestato a marzo del 2012. Quanto è rimasto in carcere? «Fino al 21 aprile e poi ai domiciliari fino a luglio». Poi è stato ri-arrestato perché secondo l’accusa ha messo mano ancora agli affari del porto.. «Ai domiciliari avevo il divieto di occuparmi del porto di Imperia. Io mi sono interessato solo al concordato dell’azienda. E su quello non vigeva alcun divieto. Sono stato ri-arrestato il 19 luglio e sono rimasto dentro fino al 4 dicembre. Quando sono scaduti i termini. Oltre ad avere 73 anni, ero incensurato». Che cosa significa perdere la libertà? «Quel giorno è stato come un frontale a piedi contro un’auto. Ma nella vita può capitare di tutto e bisogna trovare la forza di sopravvivere. Io l’ho trovata nei miei figli e nella mia ex moglie, che in quel momento mi è stata vicina anche più di una moglie. Mia figlia più piccola, che all’epoca aveva 14 anni, mi ripeteva continuamente: «Papà, passerà: e noi siamo a casa ad aspettarti. Siamo qui per te». Non potevo deludere quella aspettativa e quella responsabilità. E poi devo tanto ai miei compagni di cella». Con chi ha condiviso la prigione? «Persone che avevano commesso lievi reati fiscali. A loro devo la quotidianità e la comprensione. Ho un ricordo fantastico del comandante del carcere di Imperia. Grande saggezza e buon senso. Cosa fondamentale quando si gestisce un luogo così aspro». La giornata dentro il carcere - ci ha detto prima - è scandita dall’impotenza. Lei che cosa faceva per arrivare a sera? «Camminavo molto. Giocavo a scacchi, e poi ho fatto il bibliotecario. Ho cercato di rendermi utile agli altri. Ma il senso di impotenza non passa mai». I suoi guai giudiziari vanno avanti… «Sì. Anche se l’assoluzione del tribunale di Torino è importante, ci sono altri processi. Ma sono più tranquillo ora». Per le presunte irregolarità al porto di Fiumicino lei è stato anche arrestato nel 2013… «In quell’occasione dopo quattro giorni sono uscito ed è stata subito disposta una perizia». Ha dichiarato che se qualcuno le chiedesse di tornare a occuparsi del porto di Imperia lei lo farebbe. È vero? «Ho detto così. Intendendo che in un anno e mezzo potrebbe essere completato. Io personalmente non avrei gli strumenti: non dimentichi che la mia azienda, Acqua Marcia, valeva circa 2,5 miliardi. Adesso non lo so. Forse nulla». Quanto ha speso per difendersi? «Non glielo dico. Ma tanto. Gli avvocati costano, molto. Però quando il mio legale, Nerio Diodà, ha sentito la parola “assoluzione” si è messo a piangere. Sono stato io ad abbracciarlo». Che farà da grande? «Ho 75 anni, non scherziamo... Non mi metto a fare progetti a lungo termine. Tranne uno: devo aiutare i miei figli a camminare con le loro gambe. Mi hanno aspettato quando ero in carcere. Adesso mi dedico io a loro».