Giampaolo Pansa, Libero 09/11/2014, 9 novembre 2014
MATTEO UOMO-CONTRO NON PUÒ ESSERE IL LEADER DELLA DESTRA
Nell’agosto di quest’anno, Matteo Salvini, il leader della Lega, ha fatto un viaggio nella Corea del Nord. Era insieme ad altri parlamentari italiani, ma non ho mai capito perché queste eccellenze siano andate a omaggiare una dittatura tra le più spietate. Un luogo che, se fossi un giovane screanzato, descriverei come il buco del culo del mondo, per di più sporco di sangue. Pare che a guidare la visita, durata cinque giorni, sia stato un senatore di Forza Italia: Antonio Razzi. Qualcuno ricorderà come lo dipinge Maurizio Crozza nel suo Paese delle meraviglie su La 7. Ed è inutile aggiungere altro.
Ritornato dalla Corea del Nord, Salvini ha concesso qualche intervista. Ne ho sott’occhio due, al Corriere della sera e al Messaggero. Ha definito Razzi come il factotum dell’Associazione Italia-Corea del nord: «Lui è visto come un eroe, omaggiato e riverito». Immagino che adesso anche a Salvini andranno gli stessi onori. Per aver descritto la dittatura comunista coreana come un paradiso in terra.
«Lì non c’è immigrazione e di conseguenza non c’è criminalità, né degrado. Si va in giro anche in piena notte e non c’è nulla da temere. Mi ha colpito vedere i bambini che giocano per strada. Non corrono pericoli. Non ci sono malintenzionati. Ho visto uno splendido senso di comunità». Forse il capo leghista avrebbe dovuto visitare anche i lager dove vengono torturati e uccisi gli oppositori politici. Ma glielo avrà impedito il Razzi. A suo tempo, lui aveva spiegato che la Corea del nord è «una specie di Svizzera» e il dittatore Kim Jong «un moderato».
Un paio di mesi dopo, Salvini si è avventurato in un altro tour, questa volta in Russia. Si era verso la metà di ottobre e il capo leghista sperava di incontrare Vladimir Putin. Non ci è riuscito perché il capo del Cremlino aveva altro per la testa. In compenso è stato ricevuto alla Duma, la Camera bassa del Parlamento russo. Indossava una maglietta con la scritta «No sanzioni alla Russia». E ha ricevuto in cambio una standing ovation, sostiene lui. Con la Duma in piedi ad applaudirlo.
In seguito, ha raccontato sui social network gli splendori di Mosca: «No clandestini, no lavavetri, no campi rom. Ragazze in metropolitana alle due di notte, senza paura. Lì non c’è Mare Nostrum». Insomma per Salvini un altro paese di Bengodi. Però gli restava nel gozzo il mancato incontro con Putin.
Dai e dai, è riuscito a vederlo in un luogo meno felice di Mosca: a Milano, nel corso degli incontri sull’Ucraina. Venti minuti di colloquio, un caffè bevuto insieme. «Gli ho portato in dono la statuetta del guerriero Alberto da Giussano e una felpa con la scritta “No sanzioni” alla Russia».
Sono appena tre delle recenti imprese del Matteo verde. Chissà quante altre ne vedremo prima della campagna elettorale. Salvini sembra avere il vento in poppa. La Lega di Umberto Bossi e poi di Bobo Maroni stava tirando le cuoia. Scandali a gogò, un corteo di farabutti o di mediocri, la fine del governo leghista in Piemonte, nessun orizzonte politico, zero strategie. Salvini l’ha agguantata un attimo prima del decesso e prova a rimetterla in piedi. Con robuste iniezioni di populismo antieuropeo, ostilità all’euro, strizzate d’occhio a Marine Le Pen, una destrona che la sa lunga.
La rivoluzione del Matteo bis ha successo. I sondaggi lo danno fra l’8 e il 10 per cento. Questo l’ha convinto a tentare l’espansione verso il Sud, un tempo disprezzato come la riserva dei leoni e dei terroni. Con un obiettivo dichiarato a mezza bocca: prendere la guida di quanto rimane del centrodestra, diventando il successore dello sfigato Berlusconi.
Certo, i moderati italiani hanno bisogno di un leader nuovo, per non lasciare tutto il campo al Cerchio magico fiorentino e al suo dio in terra, l’altro Matteo. Ma dire nuovo non basta. Il successore del Cavaliere deve possedere l’aggressività della tigre e al tempo stesso la pazienza del mulo. Ha il compito di spiegare ai moderati italiani che cosa
è possibile fare per uscire dal baratro della crisi economica e sociale. Urlare non gli servirà a nulla. Avrà l’obbligo di ragionare e non di essere contro tutto e tutti.
Ma Salvini è sempre stato un uomo-contro. La sua storia politica è succedersi incessante di gesti clamorosi, tutti di protesta. Ne ricordo uno privo di senso. Il giorno che il presidente della Repubblica in carica, il galantuomo Carlo Azeglio Ciampi, andò in visita ufficiale a Palazzo Marino, il municipio di Milano, lui rifiutò di stringerli la mano. Ringhiando: «No, grazie dottore. Lei non mi rappresenta!».
Nel dicembre 2009, Salvini se la prese con l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, per aver criticato il sindaco Letizia Moratti che intendeva far sgomberare i campi rom. In seguito si scagliò contro il nuovo ministro per l’integrazione, Cécile Kienge, sostenendo che voleva regolarizzare i clandestini pronti ad accoppare gli italiani per bene. Po si dichiarò contrario alle adozioni gay. A Bergamo, nel corso della festa della Lega, la prima dopo essere diventato segretario generale, propose: «Dobbiamo dare dei calci nel sedere a qualche giornalista servo infame. Così gli offriremo almeno un motivo per dire che siamo cattivi».
Sempre nella stessa festa, Salvini propose una pena esemplare per Rutelli, Veltroni e Alemanno che avevano amministrato Roma negli ultimi dieci anni, causando un deficit di sedici miliardi di euro: «Vanno deportati in un’isola deserta del Pacifico circondata di squali». Ed è inutile rammentare tutte le sventagliate contro l’Unione europea, le sue regole «assassine». A sentir lui, l’Ue è un regime non diverso dall’Unione sovietica di Stalin, un grande gulag per i popoli del continente.
Nel suo percorso da capitan Fracassa, Salvini non ha esitato a cercare un’intesa con un gruppo di estrema destra, Casa Pound.
Come autore di libri revisionisti sulla guerra civile, devo gratitudine a quel circolo che mi ha sempre difeso. Ma non comprendo l’elogio dedicato a Salvini dal suo leader, Gianluca Iannone: «Salvini sta ampliando gli orizzonti della Lega per costruire, fuori dal centrodestra, un soggetto di carattere nazionale. A partire da pochi punti chiave: lotta all’immigrazione, contestazione delle politiche criminali dell’Unione europea, asse privilegiato dell’Italia con la Russia. Sono le nostre battaglie di sempre».
In realtà, il boccone che Salvini spera di mangiare non è Casa Pound, ma Berlusconi. Tra i due esiste un abisso anagrafico: il Cavaliere ha 78 anni, Matteo 41, trentasette di meno. In un’Italia che invecchia e va in orgasmo per i giovani, sperando di non essere destinata a esecuzioni di massa, il vantaggio del leader leghista è evidente. Soprattutto davanti all’occhio implacabile della tivù. Il capo leghista è affamato di comparsate televisive. Lì sembra il nipote del Berlusca. Ha persino fatto sparire la barba, nella speranza di darsi l’aria da bamboccione alla Renzi.
Tuttavia l’Italia è un paese moderato e oggi anche spaventato. Non si affiderà mai a un Grillo, a un Salvini, persino a un Renzi che la vorrebbe sempre in corsa veloce, senza respiro e tutto annunci. Abbiamo bisogno di una calma forza tranquilla. Ma a questo punto entra in scena ciò che resta di Forza Italia e dai partitini che le dovrebbero essere alleati.
Se gli eredi di Berlusconi la smetteranno farsi la forca, per Salvini non ci sarà nessun futuro da leader nazionale. Gli converrà ritornare in Corea del Nord. A farsi spiegare come si conquista il potere e lo si mantiene a forza di lacrime e sangue.