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 2014  novembre 09 Domenica calendario

VIA LE DONNE DALLA CUCINA: SON PIÙ CATTIVE DEI MASCHI


Da acceso misogino qual sono quando ho letto le novità della Guida Michelin 2015 mi è preso un colpo: l’Italia è sempre seconda nella classifica mondiale dei ristoranti (dopo la Francia, ovvio) ma adesso è prima assoluta per quanto riguarda gli chef donna (se le chiami cuoche magari si offendono, e se le chiami cuochesse o cheffesse, come forse piacerebbe alla presidentessa della Camera Boldrini, a offendersi è la lingua italiana). Un primato positivo? Piuttosto negativo, a mio giudizio. Perché un tempo la presenza femminile nelle cucine, famigliari o professionali cambia poco, significava mitezza, accoglienza, tradizione, e capofila di questo rassicurante atteggiamento è la sempre tristellata Nadia Santini del Pescatore di Canneto sull’Oglio. Mentre oggi avanza una generazione di cuoche arrabbiate, polemiche, sfemminilizzate e devirilizzanti. Faccio dei nomi perché altrimenti che gusto c’è. Faccio il nome di Antonia Klugmann che capeggia la cucina del Venissa di Mazzorbo, uno dei più bei ristoranti del pianeta, immerso nella meraviglia della laguna fra orti, vigne e campanili. La Klugmann vorrebbe ancora più donne al comando: «Il problema è che nel periodo in cui tutti spingono di più, le donne sono fermate da quanto c’è fuori dalla cucina. Siccome il momento chiave di una carriera è generalmente tra i 25 e i 35 anni, ecco che tante ragazze non ce la fanno e abbandonano la scalata». Quindi la cucina intesa non come servizio ma come strumento di dominio e sopraffazione. Quindi il lavoro non come missione ma come negazione della maternità e dell’amore (sarebbe questo il tanto stigmatizzato «fuori dalla cucina»). Quindi oltre al «Raviolo yogurt burro acido all’aceto balsamico brodo di funghi porcini viticci» (forse la Klugmann considera maschilista anche la punteggiatura) al Venissa si serve in tavola l’ideologia del gender: per me indigesta, ma de gustibus.
Un’altra stellata che mi mette paura è Cristina Bowerman, pure lei con un cognome da cane da guardia o da generale nazista, pur essendo nativa di Cerignola. Nelle interviste la cuoca del romano ristorante Glass dice cose che l’appetito anziché farmelo venire me lo tolgono: «Per me è importante avere dei goal, sempre». E compiaciuta dichiara di parlare col figlio Luca esclusivamente in inglese. In casa sua a Trastevere. Se queste signore feroci sono davvero così brave a cucinare come giura la Guida Rossa allora io preferisco cuoche un po’ meno brave ma in compenso più rilassate e rilassanti. Sogno donne dolci e sorridenti, e pazienza se ai fornelli commettono qualche errore, sono dispostissime a perdonarle. Ma fantasie a parte resta la cruda realtà di un’alta cucina dove i sessi si uniformano fin quasi a scomparire. Umberto Veronesi, che pure non è un bieco reazionario come me, scrive: «La donna oggi deve sviluppare aggressività, fare carriera, comandare persone, assumersi responsabilità, competere con gli uomini. Il risultato è che appare sempre meno femminile. Si sta attenuando la polarità che è all’origine del fenomeno naturale dell’attrazione: i poli opposti si attraggono, quelli uguali si respingono». Ecco spiegato perché certe stelle Michelin mi respingono: perché, nonostante il vizio della gola, sono ancora abbastanza sano e naturale.
Al problema delle virago che tradiscono la loro femminilità, fra il plauso di un pubblico di gastronomi che evidentemente alla femminilità non è più molto interessato, si aggiunge quello delle cuoche nuove o seminuove che esprimono una femminilità negativa, riduttiva. «Più donne, meno pensiero critico» dice la nostra somma antropologa Ida Magli. Più donne, più moda, aggiungerei io. Quindi la frittura diventa tempura, quindi avanza ogni sorta di ingrediente esotico. Come esiste un immigrazionismo politico, che accetta anzi favorisce la presente invasione dall’Africa, esiste un immigrazionismo gastronomico la cui quinta colonna è spesso e volentieri colorata di rosa. La famigerata Bowerman non riesce a completare un piatto senza chorizo o tobiko o wasabi, e lo zenzero si infila ovunque, risale fiumi e valli, e nel Piacentino, insomma alla Palta di Borgonovo Val Tidone eccolo sullo storione e sulla zucca. Nella carta del ristorante di Isa Mazzocchi i tortelli sono definiti «tradizionali», che è un aggettivo avvelenato: oggi tradizionale è sinonimo di vecchio, definire qualcosa in questo modo significa indicarlo come moribondo, quasi da evitare. In troppe cuoche constato l’accentuazione di tendenze generali: la perdità di identità, il conformismo del multietnico immediatamente segnalato dall’overdose di tofu e kamut. Al confronto quasi rivaluto la femminilità del lezioso e penso al diluvio di diminutivi di certe carte di cuciniere liguri, regione grazie a Dio non proprio all’avanguardia gastronomica: il risottino ai calamaretti con le trombette (San Giorgio di Cervo), lo scamoncino al Vermentino (Conchiglia di Arma di Taggia)... E a tutti i tortini possibili e immaginabili, gustabili un po’ ovunque.
Da acceso misogino qual sono, dopo aver letto le novità delle guide mi sono chiesto: e adesso dove la trovo una cucina virile? Per fortuna di chi vuol vivere controcorrente qualche controtendenza esiste sempre. Eccone un paio: l’esplosione ormai anche televisiva di Paolo Parisi, il re dei re della griglia ossia di un regno tutto maschile («Donne fanatiche di barbecue e di brace ne ho viste poche» mi dice), e la resurrezione, dopo una lunga decadenza, dello storico Cambio di Torino, dove Matteo Baronetto propone una cucina cavourriana e neo-conservatrice culminante nella finanziera, ricetta con le frattaglie più care a noi di gusti maschi.