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 2014  novembre 09 Domenica calendario

GLI ITALIANI IN FUGA DAL MADE IN ITALY


ROMA Il Made in Italy è forse ancora Made, ma sicuramente è sempre meno Italy, visto che aziende di punta di vari settori come la moda, la meccanica e l’agroalimentare continuano a passare in mani straniere, in molti casi finendo per perdere la loro identità e talvolta anche i loro poli produttivi. Sarà anche un effetto della globalizzazione, ma se da un lato l’arrivo di investimenti stranieri salva dalla chiusura le nostre aziende e quindi migliaia di posti di lavoro (si veda il caso Alitalia), dall’altro il susseguirsi di cessioni a colossi stranieri provoca ansia e preoccupazione. Secondo uno studio di Kpmg, dal 2009 sono passate sotto il controllo straniero oltre 550 aziende italiane per un controvalore di più di 60 miliardi. Nel 2013 un’acquisizione su tre è stata messa a segno da operatori esteri e i dati del terzo trimestre 2014 confermano la stessa proporzione. Sempre Kpgm stima, per l’intero 2014, che le operazioni dall’estero sull’Italia possano raggiungere un controvalore intorno a 12-13 miliardi di euro, rispetto a un mercato M&A complessivo di circa 35-38 miliardi. A ciò si aggiunga che entro l’anno si attende la cessione del 35% di Cdp Reti al gruppo cinese State Grid International Development per circa 2 miliardi.
COLPA ANCHE DELLA CRISI

La crisi è probabilmente il motore primo del fenomeno. A partire dal 2010 le operazioni dall’estero sull’Italia si sono attestate intorno al 30% in termini di volumi e del 45% in termini di valore rispetto al decennio che va dal 2000 al 2009 dove la media era intorno al 20% sia per controvalore sia per volumi complessivi. Peraltro, le acquisizioni di asset italiani si confermano la principale forma di investimento realizzata da stranieri nel nostro Paese mentre rimangono ridotti – ma con una piccola ripresa negli ultimi tempi – gli investimenti cosiddetti greenfield, cioè quelli che partono da zero.
Non è dunque un caso se l’Italia sia al 42° posto nella classifica delle nazioni in grado di attrarre investimenti in nuovi stabilimenti. Ed è per questa ragione che il premier Matteo Renzi non perde occasione per ricordare che le riforme sono indispensabili per attrarre gli investimenti esteri. E tuttavia, sarebbe il caso di ricordare a Renzi che ancor prima di attrarre gli investitori stranieri, si dovrebbe pensare a trattenere quelli italiani. I gruppi esteri avranno anche messo sul tavolo 60 miliardi per portarsi a casa i migliori brand italiani, ma fino a prova contraria di tutti quei denari incassati dai vecchi proprietari ben pochi si sono tradotti in nuovi investimenti domestici, ovvero in iniziative a beneficio della comunità.
POSTI DI LAVORO IN BILICO
C’è da dire che le acquisizioni da parte di soggetti stranieri non sono una novità degli ultimi anni visto che furono gli Stati Uniti, negli anni Settanta, che cominciarono ad assicurarsi le nostre eccellenze per studiarle e quindi farle proprie. Quello che in realtà sta cambiando è la geografia del potere d’acquisto. L’Unione europea, seguita dal Nord America, si conferma il principale compratore di aziende italiane (54 operazioni negli ultimi anni) ed è nello stesso tempo preda preferita nelle operazioni cosiddette cross border-out (43 transazioni nello stesso periodo). Ma quello che sta notevolmente crescendo è il peso all’interno del fenomeno dei paesi emergenti e del Far East: dalla Cina alla Russia, dall’India al Giappone passando per la Turchia, Egitto, Emirati Arabi, Qatar e Indonesia.
Qualche esempio? La Banca centrale cinese detiene poco più del 2% di Mediobanca e il 2,1% di Eni e di Enel. Nella moda gli emiri del Qatar si sono assicurati lo storico marchio Valentino assieme alla licenza Missoni. I cioccolatini della Pernigotti, eccellenza mondiale nel settore dolciario, sono stati ceduti dalla Fratelli Averna alla famiglia turca Toksoz che fattura 450 milioni ogni anno. Partendo dal presupposto che il Made in Italy è apprezzato e desiderato in ogni latitudine, la strategia più adottata è attendere il momento di difficoltà economica - aiutati anche dalla lunga crisi - per appropriarsi di aziende con valore aggiunto e non adeguatamente capitalizzate.
Va da sé che in questo modo le opportunità di crescita del nostro export vengono fortemente ridimensionate dall’esternalizzazione della proprietà e, spesso, anche della produzione.
Sia chiaro, non sempre con la proprietà che passa di mano anche la produzione lascia il territorio nazionale; è però da considerare che, in un momento di così profonda crisi del capitalismo domestico, di paura di investire e di semiparalisi del ciclo economico, è naturale che il fenomeno dell’esternalizzazione sia maggiormente diffuso, con tanti saluti al celebrato Made in Italy.
D’altro canto, anche i bambini delle elementari hanno ormai capito che produrre in Italia non conviene non solo per il costo della manodopera o la pressione fiscale sulle aziende, ma anche per una burocrazia insopportabile e una giustizia civile impossibile. E ’ giusto essere orgogliosi delle nostre eccellenze e della nostra creatività, ma che senso ha se non si fa nulla per frenare una deriva - la fuga dei marchi che si aggiunge a quella dei cervelli - che ormai ha cominciato a mietere anche posti di lavoro.