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 2014  novembre 09 Domenica calendario

L’OSTENSIONE DEI VOLTI COSÌ GLI INTEGRALISTI SI SONO IMPADRONITI DELLE NOSTRE COSCIENZE


Il 26 ottobre compare in rete un nuovo video-messaggio dell’Isis, questa volta si tratta di John Cantlie, il giornalista inglese catturato due anni fa e tuttora ostaggio dei terroristi. La solita tuta arancione, lo sguardo dritto in camera, deviato di pochissimo per leggere il gobbo, la voce che cerca di farsi promotrice autentica di tutto ciò a cui la mente non crede, l’incongruo testimonial di un movimento politico pronto a tagliargli la gola. Nella magistrale strategia di comunicazione dell’Isis questa è l’arma più efficace. Non il filmato di propaganda su un aereo abbattuto, non la carrellata dei bambini feriti all’ospedale, soprattutto non la ripresa dei bombardamenti subiti, dei cumuli di cadaveri tra le macerie. No, l’Isis ha trovato un modo infinitamente più incisivo per scuotere le nostre coscienze, metterci di fronte a un volto, il che è quanto meno suggestivo, considerato che stiamo parlando dei più fanatici sostenitori di una religione iconoclasta. Mentre guardo John Cantlie, so di avere a che fare con un individuo, una persona identica a me la cui vicenda umana è una storia unica e inconfondibile, come quella di ognuno di noi preso singolarmente.

In una strage vedrei corpi ammassati e, magari, tra essi il suo. Nel video invece vedo proprio lui, l’uomo che alla nascita si è trovato quel volto e quel nome. Si tratta dello stesso trucco usato, ovviamente con finalità opposte, da Goffredo Parise nei racconti dal Vietnam, quando, seguendo i marines in rastrellamento, si soffermava sui dettagli delle loro vittime: «Sollevo un casco. Vedo scritto con la matita copiativa e una calligrafia svolazzante: Nguien Van Khan, 9-12-1966. (…) Come certi scolari di campagna, ha disegnato sul polso con l’inchiostro un orologio con le ore, le lancette e il cinturino». John Cantlie e Nguien Van Khan raggiungono il bersaglio. I loro nomi, i loro volti sfondano la nostra indifferenza. L’esatto contrario di ciò che succede quando vediamo cadere corpi anonimi o siamo noi stessi a colpire serenamente nel mucchio.
È il caso di Esecuzione a distanza , il reportage in cui William Langewiesche racconta la giornata impiegatizia di alcuni piloti che, comodamente seduti davanti a un computer in un hangar di Las Vegas, guidano i droni sulle montagne afghane, sganciano bombe per tutto il giorno, poi salgono in macchina e affrontano il traffico verso casa. Lì la distanza dal volto è massima e paradossale: ci sono corpi che cadono in uno schermo, coaguli di pixel dalle sembianze umane come in qualsiasi videogioco di combattimento.
Se il volto è il segno delle facoltà superiori — la nostra identità —, il corpo appartiene invece al flusso indistinto della vita naturale. Bìos contro zoé , cittadinanza contro nuda vita. Sì, nuda vita: è questa l’espressione che usa Giorgio Agamben per descrivere l’ homo sacer nel saggio omonimo. Nella Roma antica l’ homo sacer era colui che, macchiatosi di un atto blasfemo o di spergiuro, veniva espulso dalla collettività perdendo ogni diritto, compreso quello di cittadinanza. Una volta sottrattagli la condizione di soggetto politico, diventava nuda vita nelle mani dei suoi simili, benché spettasse solo agli dei giudicarlo: una vittima uccidibile eppure mai sacrificabile.
Nuda vita era, ad esempio, quella dei cosiddetti «musulmani», come ricorda Primo Levi in Se questo è un uomo , prigionieri che, quasi storditi dalla ferocia del lager, rinunciavano a lottare per la sopravvivenza rassegnandosi presto al loro destino di «sommersi». Nei brevi mesi che li separavano dalla morte i prigionieri musulmanner si limitavano ad attenersi alla disciplina del campo, lavoravano sopraffatti e ignorati dai loro stessi compagni. Ancora dotati di un aspetto vagamente umano, ossia di un esile corpo-macchina, smettevano di essere persone, perdevano il nome, il volto, la storia, l’origine.

Ma, se sono un essere unico, espressione di una storia unica, allora di quale finalità sono ignaro portatore? Il volto ci inchioda inevitabilmente alla domanda sul senso, come nella performance teatrale di Romeo Castellucci, Sul concetto di volto nel Figlio di Dio , dove a dominare la scena a mo’ di fondale è un ritratto ingrandito di Gesù, opera di Antonello da Messina, posto ad assistere alle pietose vicende di due attori nei panni di un vecchio padre e del figlio che lo accudisce. Gesù si offre allo sguardo dello spettatore, ai suoi interrogativi, mentre è in atto il mistero della commedia umana, un giovane uomo intento a pulire gli escrementi del padre malato. Ecce homo. «Sono qui per dirti che vivrai così e morirai così, il resto non so», sembra dirci il primo dio la cui parola si è fatta carne. Gesù è presente in effigie, un volto umano — «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» dice il Genesi — ma la sua divinità è assente, il senso della vita a cui assiste, la nostra vita, resta un enigma.
Di questo enigma sembrano essersi impossessati i terroristi. A differenza del Gesù arreso e precario di Castellucci, loro sanno, sono convinti di sapere. Ecco i nuovi pretendenti del senso. Ci ha provato la religione, poi la letteratura, ora tocca alla violenza, questo almeno è quanto sosteneva Don DeLillo già più di vent’anni fa nel suo Mao II (1992): «In Occidente noi diventiamo effigi famose mentre i nostri libri perdono il potere di formare e di influenzare. (…) Anni fa credevo ancora che fosse possibile per un romanziere alterare la vita interiore della cultura. Adesso si sono impadroniti di quel territorio i fabbricanti di bombe e i terroristi. Ormai fanno vere e proprie incursioni nella coscienza umana. Era quanto solevano fare gli scrittori prima di essere mercificati».