Davide Ferrario, Corriere della Sera - La Lettura 09/11/2014, 9 novembre 2014
LA VOCE DEL CARNEFICE E QUELLA DELLA VITTIMA COSÌ LA MESSINSCENA UMILIA LA TRAGEDIA
Viviamo nell’«età dell’estremismo», come ha argomentato Marco Belpoliti nel saggio omonimo (Guanda, 2014). Un’età iniziata nel 1989, ma i cui prodromi si situano una decina d’anni prima, quando avvengono due fatti le cui conseguenze finiscono oggi per coincidere drammaticamente.
Il 1 febbraio 1979 l’ayatollah Khomeini torna a Teheran dall’esilio. Si tratta del momento in cui riappare sulla scena uno degli antichi motori della Storia: la religione, che presto diventa fondamentalismo. Da noi in quegli anni, invece, opera un altro fondamentalismo, quello rivoluzionario marxista. Il 10 giugno 1981 un commando delle Br rapisce Roberto Peci, ex militante e fratello di Patrizio, un brigatista «pentito». Quello di Roberto Peci è il primo «processo popolare» a essere documentato in video, a puntate, con una telecamera Vhs.
Le Br inaugurano uno stile di ripresa che avrà fortuna. L’elemento chiave è la frontalità: l’inquadratura è fissa, centrale, claustrofobica. Un processo è un rito e come tutti i riti, dalla messa al teatro, lo si guarda frontalmente. Il palcoscenico è però anonimo: l’inquadratura è sempre stretta sul volto del prigioniero, il fondale è il classico drappo rosso reso famoso dalle polaroid di Moro.
Gli unici movimenti di macchina sono zoom in asse su Peci, e rare panoramiche a destra dove è seduto il giudice/accusatore con indosso un passamontagna nero. Il volto coperto, oltre a garantire l’irriconoscibilità, suggerisce che l’uomo mascherato sia lo strumento di un volere superiore: qui è la Rivoluzione, presto sarà Dio stesso.
Peci «interpreta» la vittima in modo ambiguo. Non è un avversario, è un «traditore». Condivide con i suoi carcerieri idee e linguaggio, e in tutti i modi loro cercano di fargli dire che anche lui è d’accordo con quella messa in scena. Peci non si dispera mai, scuote solo il capo dissentendo. Quando arriva la sentenza non protesta, ma gli si vela lo sguardo di una malinconia infinita.
Le Br vogliono essere didattiche, e si fidano troppo dei loro discorsi e delle loro azioni. Quando ricorrono al pathos sono, registicamente, ridicole: ogni tanto nella colonna sonora viene montata Bandiera rossa in una versione tronfia, e per di più smiagolante. Il tutto dovrebbe istruire le masse ma il video ha l’effetto opposto: sono le immagini del volto di Peci che restano. Dopo 54 giorni di prigionia, Peci verrà ammazzato a colpi di mitraglietta. Non sarà un video a documentarne l’uccisione, ma una polaroid.
Il 20 settembre 2004, Al Jazeera riceve un video del gruppo di al-Zarqawi, vice di Bin Laden. I lunghi interrogatori delle Br si sono ridotti qui a 8 minuti e 46 secondi. Cinque sono dedicati alla lettura della sentenza di morte, il resto all’esecuzione. La ripresa è probabilmente effettuata con una Handycam Pal, ed è di scarsa qualità. La solita immagine frontale mostra cinque miliziani incappucciati in un interno indistinto. Sotto di loro, in ginocchio, con indosso la divisa arancione che ricorda Guantanamo, c’è Olin Armstrong, un ostaggio americano, con le mani legate. Finito di leggere, il capo estrae un lungo coltello, spinge a terra Armstrong e comincia a segargli prima la gola, poi tutta la testa. La macchina da presa zoomma sul dettaglio della decapitazione. Il sonoro è costituito solo dalle orribili grida del morente. Ci saranno altri video, tutti simili.
Vent’anni dopo il «processo popolare» a Peci, il rito si è ridotto all’essenziale. Allah non ha bisogno di contraddittorio, la vittima deve solo essere sacrificata. Ad Armstrong e a quelli che seguiranno è negato anche lo sguardo: muore bendato. Quello che le Br evocavano solo con un fermo immagine, è bestialmente mostrato in tutti i suoi dettagli. Qui non c’è più messaggio politico, se non la pura mistica della sottomissione degli sconfitti, celebrata dall’ultima macabra immagine (uno stilema di successo, purtroppo): la testa decapitata messa in bella mostra sul cadavere.
I recenti video dell’Isis soltanto apparentemente assomigliano a quelli di Al Qaeda. Sono filmati dell’era digitale matura, video dell’estetica iconica globalizzata. Tecnicamente, sono impeccabili: le riprese sono in alta definizione, la vittima e il boia portano un microfono a spilla. I cupi interni sono sostituiti dalla luce del deserto. La frontalità è mantenuta nella sua forza retorica, ma è alternata con piani diagonali, filmati con un obiettivo più largo. Soprattutto, propongono un’idea totalmente diversa di storytelling . La vittima non è una semplice comparsa muta, un corpo da annientare. Alla vittima è ridata parola: ma quale? Quella dei suoi aguzzini.
La cosa più sorprendente (e, per me, la più inquietante) è la convinzione con cui gli uomini inginocchiati recitano la loro parte prima di essere uccisi. Hanno certamente un «gobbo» davanti a loro: leggono quello che sono costretti a leggere. Ma lo fanno con la tempistica di un attore professionista. Il che rende ancora più straziante la loro condizione, perché sono privati anche della paura. Poi tocca al boia parlare, il famigerato «Jihadi John». Chissà se è davvero un ex-rapper londinese, di sicuro agita il coltello come i rapper usano il microfono. La durata del suo discorso è standard, quanto l’intervento della vittima: due minuti circa ciascuno. Più che alla ritualità delle esecuzioni capitali (dove la durata della cerimonia è parte essenziale della condanna), i «registi» dell’Isis badano al ritmo cinematografico, di cui fanno anche parte la serialità delle uccisioni, l’uso della musica e degli effetti.
Però manca il climax. Quando il coltello raggiunge la gola del condannato, il video va in dissolvenza, per mostrare poco dopo la testa mozzata. Il che ha fatto sospettare che i video siano in qualche modo falsi. Io credo invece che l’intenzione dell’Isis sia quella di mostrare il completo asservimento del condannato. Quello che probabilmente succede nella realtà è che occorre più di una persona per compiere l’orrendo atto: anche gli agnelli si ribellano quando sentono la lama del coltello (guardando bene, è quello che è celato anche in due tagli quasi «invisibili» nel video di al-Zarqawi). E questo, nella logica così «pulita» di questa auto-narrazione dei killer, è un boomerang. Mostra una sopraffazione, non la sconfitta del nemico. Non è un caso che, mentre non si peritano di mostrare uccisioni in massa di civili siriani, quelli dell’Isis centellinino le morti occidentali per tutto quello che valgono in termini di comunicazione.
Da documentarista, mi è capitato di riprendere scene di violenza vera, di sangue versato. Mi sono chiesto se, in quelle occasioni, chi filma non dovrebbe intervenire, piuttosto che riprendere. Mi sono risposto che il ruolo del cineasta è ambiguo e discutibile, ma implica comunque un’assunzione di responsabilità. C’ero, ho testimoniato — come fanno i reporter di guerra.
Quello che rende immorali questi filmati non è solo il loro contenuto: è che la mano che tiene la cinepresa è la stessa che impugna il coltello o la mitraglietta. Non si può essere allo stesso tempo testimoni, giudici e boia.