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 2014  novembre 09 Domenica calendario

I DISCHI SONO MORTI A SEATTLE


Per arrivare alla casa di Kurt Cobain affacciata sul lago Washington scelgo di usare la bicicletta. La giornata è tersa dopo la pioggia abbondante di ieri, perfetta per una pedalata, e l’hotel mette a disposizione delle bici senza costi aggiuntivi. Rosse, attendono nell’ingresso sotto il cartello confidenziale: «Take me! I’m yours». Occorre giusto firmare una clausola di rimborso, mille dollari in caso di smarrimento.
Arrancando lungo Madison, mi accorgo presto di avere sottovalutato la morfologia della città. Seattle è un saliscendi infernale, le vie s’impennano verso il cielo, e laddove s’intravede la cima ha inizio soltanto una nuova salita. La bicicletta che dovrebbe valere mille dollari, poi, non ha marce, è troppo piccola e non è stata oliata da tempo. La spingo a mano, salvo nei brevi tratti pianeggianti o in discesa. Un ciclista equipaggiato di tutto punto mi sfreccia accanto sulle sue ruote sottilissime e grida: «Nice bike!». Non reagisco per l’assenza di fiato.
Ma è domenica mattina, non c’è alcuna fretta. Gruppi diradati passeggiano per i marciapiedi ampi con aria sonnolenta, a Seattle è iniziato il foliage : gli aceri, i frassini, gli ontani e i salici stendono tappeti appiccicosi sul manto stradale, mentre da un albero che non conosco cadono a terra piccole bacche rosse che non si schiacciano sotto la pressione delle ruote. Mi lascio contagiare. Specie durante le frequenti pause ansanti, riesco a godere degli scorci fugaci sulla baia, dei riflessi acquosi del sole contro i grattacieli, degli innumerevoli caffè indipendenti e degli altrettanti Starbucks (la catena è nata qui, nel 1971, il suo quartier generale ti accoglie venendo dall’aeroporto in tutto simile a una caserma, con tanto di bandiera dei Seahawks sventolante sulla torre principale). Mancano due settimane a Halloween e fantasmi sfilacciati sono appesi alle vetrine dei negozi, le zucche accatastate negli angoli. Ieri notte, nel rettangolo dei locali notturni di Capitol Hill, si aggiravano zombie intempestivi, streghe in calze a rete, Elvis Presley troppo magri e studenti asiatici con le teste infilate dentro schermi di cartone. In un bar campeggiava un frigorifero spalancato zeppo di arti sanguinolenti.
Seattle è un mito per me. Da ragazzo anelavo a questa città, a questo tratto di costa pacifica, perché da qui sgorgava la musica. Quando uscirono Nevermind e Ten avevo una dipendenza grave da Mtv che si consumava nelle pause pomeridiane e a notte inoltrata. Quei due album bastarono a farmi dire addio in un colpo solo a tutto il metal e l’hard-rock, che da quel momento considerai appannaggio dei faciloni: strappai i poster dalla parete sopra il letto e vendetti decine dei miei dischi a prezzo stracciato, pur di disfarmi del passato recente che d’un tratto m’imbarazzava. Quando Cobain ingoiò manciate di barbiturici all’Excelsior di via Veneto non avevo ancora l’età per uscire la sera. Lo avevo visto suonare pochi giorni prima alla trasmissione Avanzi , la casa vuota, il volume al massimo: ero rimasto immobile avvolto in un plaid, senza fiato. Al tentativo seguente ci riuscì. Era da solo nella villa di Washington Lake Boulevard. Lo trovarono un paio di giorni più tardi. Un colpo di fucile, meno pulito forse ma senz’altro più efficace.
Il cordoglio successivo alla sua morte ha spazzato come una fredda corrente oceanica la mia adolescenza, insieme a quelle di milioni di coetanei, caricandole di elettricità statica. E mi sembra che allo stesso modo essa se ne sia anche andata: in un refolo. Quando Layne Staley, l’ultimo grande suicida della musica di Seattle, si lasciò fulminare da uno speedball nel 2002 era ormai tutto finito, e la notizia mi colse in modo assai diverso, nel pieno dello scetticismo che segue a un momento di vita troppo ispirato. Molti musicisti valutavano già se non fosse il caso di accorciarsi i capelli. Eravamo passati attraverso il post-grunge e il post-post-grunge, fino a quando le intemperanze dei Nirvana erano state assorbite per intero dal rock più convenzionale. La tristezza, le dissonanze, tutto quel prendersi sul serio... potevamo lasciarceli alle spalle e muoverci nel territorio assai più laico del terzo millennio. L’industria discografica avrebbe conosciuto presto la sua piccola apocalisse grazie a Apple e al peer-to-peer . Ma Seattle rimaneva ancora lo scrigno sigillato dei miei anni più mobili, accesi e tormentati.

Nei pressi del lago le strade si fanno più tortuose e la vegetazione esplode. Scivolo con i freni tirati lungo la pendenza di Washington Lake Boulevard. Supero madri atletiche che fanno jogging accanto ai bambini in bicicletta. Il quartiere è residenziale, placido, l’antitesi esatta dell’underground, semmai una « Crime Watch Community » come recitano i cartelli agli angoli delle vie, dove «qualunque attività sospetta verrà immediatamente segnalata alla polizia».
La villa di Cobain si trova al numero 171. Non vi è alcunché a segnalarla, ma qualcosa mi suggerisce di fermarmi in un determinato punto. Alzando gli occhi verso il prato, riconosco la panchina che fa da scarno monumento funebre al cantante. Un mazzo di gerbere fresche è appoggiato sopra e le scritte più riconoscibili sulla testiera sono: Thanx Kurt e Toro&Sabina . Accanto, qualcuno specula sul fatto che sia stata Courtney Love a uccidere Kurt, che lo abbia ammazzato di isolamento e fanatismo e droghe, come si suppone che Yoko avesse fatto con John. Ricordo che al tempo se ne discusse molto. Odiai perfino Courtney per un certo periodo, confusamente, benché il suo disco, Live through this , mi catturasse senza sosta e tornassi ad ascoltarlo con un sommesso senso di colpa. Comunque sia andata, oggi non importa più un accidente a nessuno.
Cammino attraverso il prato umido, fino alla conifera imponente che sovrasta la panchina. Un prato, un albero, una panchina: tutto qui il memoriale «spontaneo» di Viretta Park. Al margine superiore si trova un’aiuola in disordine e su un segmento di tronco poggiato a terra qualcuno ha inciso: KURT RIP – Kurt, riposa in pace. I sentieri aperti da chi voleva avvicinarsi di più alla villa dei Cobain, della quale si scorge il piano più alto, si diramano in varie direzioni, ma tutti s’interrompono davanti alla muraglia di vegetazione infestata di scoiattoli. Courtney ha fatto abbattere un albero accanto alla recinzione della proprietà, perché i più arditi ci si arrampicavano sopra e saltavano dall’altra parte. Avverto come un imbarazzo legato a questo luogo. I pochi residenti che passano lungo la strada mi guardano rapidamente, senza simpatia. Forse nessuno vuole vivere accanto al monumento a un suicida, a un tossico. Se lui fosse ancora in vita, forse, la «Crime Watch Community» si mobiliterebbe al riguardo. Oppure, questa provvisorietà vuole soltanto dire: «Dopotutto, si è trattato solo di musica».
Quando sto per andarmene, arrivano due ragazzi. Si aggirano timidamente per il prato, scrutando qua e là. Lei ha gambe chilometriche fasciate in un paio di jeans che lasciano scoperta la pelle chiarissima intorno all’ombelico, lui capelli biondi e carnagione altrettanto chiara. Sono molto giovani, senz’altro nati dopo la morte di Kurt. Non hanno tatuaggi visibili, né segni di ribellione addosso, ma appaiono delusi quanto lo sono io dall’assenza di un santuario come si deve. Dentro un sacchetto di carta portano qualcosa da depositare, non sanno dove metterlo. Infine ci rinunciano e tornano indietro, tenendosi per mano.

Rimonto in sella e pedalo verso Cal Anderson Park. In un negozio di musica che somiglia a un hangar scorro i vinili dalla g alla s, fino a quando sono talmente confuso e annebbiato che mi trascino fuori con tre acquisti, dei quali ho l’impressione che mi pentirò subito. I negozi di musica sopravvivono qui, a Seattle, meglio che altrove, ma non sfuggono all’alone di miseria e precarietà che ormai li contraddistingue dappertutto. Sono monumenti alla memoria anch’essi. Sono superstiti, con quella fierezza un po’ deprimente tipica dei superstiti. E benché io non sia mai riuscito a smettere di frequentarli, mi accorgo, mentre passo in rassegna i vinili con gesti rapidissimi delle dita — ogni copertina ancora piantata nella memoria al punto che mi basta una frazione di secondo per riconoscerla —, mi accorgo che la gioia e la frenesia non sono più le stesse di una volta.
Certo, non avrei immaginato di sentirmi obsoleto così presto, o almeno che il mio mondo lo diventasse così in fretta. Non avrei immaginato di ritrovarmi, a trent’anni, a fare archeologia sulla mia adolescenza. Ma qualcosa è davvero cambiato in un istante. Tutt’a un tratto — accadeva all’incirca un decennio fa — gli hard-disc dei nostri computer erano affollati di musica, musica messa insieme alla rinfusa, dove le ultime hit commerciali convivevano accanto ai bootleg introvabili, le une e gli altri neppure separati dall’intercapedine dignitosa di una cartella. Schermate e schermate di file mp3 disposti in un irriverente ordine alfabetico: un’orgia di suono. Nei primi tempi quella visione mi dava le vertigini, come se da bambino mi fossi imbattuto nella casa di marzapane in mezzo al bosco. La fame di canzoni di un’intera generazione, una fame che ci era apparsa insaziabile, era all’improvviso scomparsa. Potevamo disporre di tutti i dischi, subito e senza sforzo. Voltandosi a guardare la collezione di cd messa insieme in un decennio e conservata fino ad allora con sacralità, c’era da provare perfino un po’ di imbarazzo. Quelle raccolte, con il loro ingombro, ci avrebbero perseguitato di casa in casa, e ogni volta sarebbe sembrato più bizzarro dover trovare loro un posto da occupare.
Ma dopo la scorpacciata iniziale di Napster e eMule, abbastanza presto in effetti, emerse anche una sommessa nausea, come un’indifferenza latente a tutto ciò che potevamo ottenere così in fretta e copiare all’infinito da un supporto all’altro e conservare senza troppi riguardi. Una sensazione che fino a oggi non ha fatto altro che aggravarsi. Abbiamo scoperto che la passione per la musica non era incorruttibile, ch’essa si fondava anche sull’aura di lusso e irraggiungibilità che circondava l’oggetto-disco (sarà poi tanto diverso il feticismo per i dispositivi elettronici che l’ha prontamente rimpiazzata?). Venuta a mancare la smania del possesso, della conquista, perdevamo tutti quanti anche una percentuale di godimento.
Quando si parla oggi del grande tramonto dell’industria discografica, si tende a minimizzare, ad affermare che in fin dei conti a essere cambiato è soltanto il modo di fruizione. Ma non è così. Ci vergogniamo di ammettere che l’accessibilità alla musica ha infine deprezzato anche la musica stessa. Non ne ha modificato la qualità intrinseca, ovvio, ma ha diminuito il valore che siamo disposti ad attribuirle. Per questo, una bella canzone del presente, per quanto innovativa e provocatoria, non eguaglierà mai Smells Like Teen Spirits , non potrà anelare ad altrettanta gloria, e i Beatles, beati, resteranno imbattuti per l’eternità.
Anche la latitanza degli idoli, così chiara nei diciassettenni di oggi, è forse meno significativa di una mutazione antropologica. Può darsi ch’essa sia solo l’ennesimo effetto imprevisto del cambiamento del mercato: abbiamo reso ambienti interi, tra cui la musica, maggiormente alla portata, più maneggevoli e perciò, in definitiva, meno seducenti. Che tanta noncuranza fra i più giovani ci atterrisca, poi, è solo frutto di una nostra debolezza: l’adolescenza degli altri risulta sempre scandalosa. Magari è perfino meglio così. Le icone ottenebrano, al pari delle ideologie, delle religioni, delle infatuazioni gravi. Eppure un po’ di tristezza rimane. Dubito che ce l’avrei fatta a resistere alla solitudine e all’angoscia dei miei diciassette anni se non avessi mitizzato Eddie Vedder e Kurt Cobain e Billy Corgan e mille altri insieme e dopo di loro, se non avessi portato i nomi delle loro band stampati sulle magliette. L’idolatria è stata l’allenamento muscolare più importante che ho conosciuto per il cuore, una palestra di desiderio, di estroversione, quando l’amore propriamente detto non era ancora entrato in gioco. Come rimpiazzare davvero questo? Siamo certi che senza figure da venerare, senza una maglietta con un simbolo o un nome, ci si possa costruire un altro mito oltre quello asfittico di se stessi?

A uno dei commessi della Elliott Bay Book Company spiego che sono sulle tracce del grunge. Ha la mia stessa età e la stessa malattia. «Ero troppo giovane e abitavo fuori Seattle» dice, «così i miei non mi lasciarono prendere il treno da solo per venire al funerale di Kurt. È tra le cose che non gli ho ancora perdonato». Dopo un attimo, accigliato, aggiunge: «Ho paura che quelli come noi parleranno sempre e soltanto di quel periodo».
Quel periodo. Gli anni Novanta. Forse è ancora presto per giudicarli, per emendarli del tutto. Io so che gli anni Novanta sono stati come un lungo autunno. Anche i colori del grunge erano quelli dell’autunno: i pantaloni militari, le camicie rossicce da taglialegna, le scarpe di cuoio marrone... rievocarli in questa Seattle di metà ottobre è particolarmente facile.
Taglio il centro città in orizzontale lungo Denny Way, fino all’Experience Music Project, il museo dove sono custodite le spoglie di Jimi Hendrix e dei Nirvana, dentro teche di vetro infrangibile. L’edificio di Frank Gehry è composto da migliaia di lamiere multicolore piegate secondo ogni curvatura possibile e infine assemblate, un Guggenheim lisergico, che dovrebbe ricordare le chitarre sfasciate sui palchi da Hendrix. Pare che la somiglianza sia riconoscibile soltanto dall’alto però, sorvolando la città in elicottero o inerpicandosi sulla cima dello Space Needle.
La mostra dedicata ai Nirvana s’intitola Taking punk to the masses (dunque, non ero che uno delle masses , deduco con un certo stupore). Provo a concentrarmi sui filmati e sulle scritte alle pareti, ma dopo neanche dieci minuti me ne devo andare, leggermente stordito. No, non sono pronto a vedere tutto questo dentro un museo, dispiegato ordinatamente lungo un corridoio nero dove turisti variegati scattano foto senza flash e ubbidienti si aggirano con in testa le cuffie dell’audioguida, dalle quali All Apologies si spande come un brusio. Perciò esco, torno all’aria. C’è un chiosco che vende pannocchie arrostite. Ne compro una e mi siedo a mangiarla sui gradini davanti all’Emp. Ho accanto due attempate signore punk, con capelli corti e azzurri. Chissà se hanno mai accettato che la loro epoca di rabbia sia finita nei musei, nei parchi inglesi, a Madame Tussauds? Non sembrano preoccuparsene troppo. Gli altoparlanti iniziano a diffondere Alive . Ne conosco ancora ogni increspatura. Mi ricordo di tutto, di quando la ascoltavo nella macchina parcheggiata di un amico, di che cosa ci dicemmo. E, se chiudo gli occhi, posso essere ancora lì, per il tempo effimero di una canzone.