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 2014  novembre 09 Domenica calendario

SCHIAFFI, STRONCATURE E IRONIE E LA POESIA FINÌ IN PRIMA LINEA


Nell’infanzia di un Novecento ancora intorpidito dalle promesse della Belle Epoque, l’avanguardia deve farsi largo a suon di schiaffi. Nel 1911 Boccioni prende a ceffoni Ardengo Soffici in un caffè di Firenze, perché reo di aver criticato le opere dei Futuristi a Milano; l’anno prima lo stesso Boccioni aveva dipinto Rissa in galleria , raffigurazione compiaciuta di una zuffa tra donne, e due anni prima Marinetti aveva minacciato di morte quel chiaro di luna che solo nel 1819 Leopardi rimirava «pien d’angoscia».
Il terreno teorico era stato ben coltivato: per fare due esempi, Sorel aveva scritto Considerazioni sulla violenza e Freud indicava nel parricidio la nascita dei legami sociali adulti. Fatto sta che il Novecento si apre nel segno della violenza, dell’impeto, della rottura. Accanto ai primi esperimenti linguistici «incendiari» come quelli di Palazzeschi, ecco le stroncature sonore che riempiono le riviste letterarie come «La Voce» (fondata nel 1908 da due incendiari veri come Papini e Prezzolini); ecco Scoperte e massacri , il titolo che Ardengo Soffici volle dare alle sue stilettate scritte tra il 1908 e il 1915 contro gli artisti a suo dire «fuori dal tempo», mentre indicava la nuova strada in Cézanne e Picasso; la rubrica di critica letteraria che Giovanni Boine tiene sulla rivista «La riviera ligure» si chiama Plausi e botte . Quante botte animano questo scorcio del XX secolo. È nel segno del parricidio (come ha più volte osservato Walter Pedullà nei suoi bellissimi saggi sul Novecento) che si apre la modernità e Boccioni e Severini si vestono da «rifiutati» e incendiano la Secessione. È nel segno del parricidio che Einstein azzarda un capovolgimento totale della visione del mondo. Ma come tutte le adolescenze che si ribellano all’autorità genitoriale, anche i linguaggi primonovecenteschi crescono cercando un’identità.
In una varietà di stili, dal simbolico all’astratto al futurista. Alcuni non ce la fanno a correre veloci come le prime automobili che sfrecciano per le strade e ripiegano su un intimismo intriso di ironia. E allora la convivenza tra passato e presente si fa interessante e cuce nella letteratura (soprattutto nella poesia) italiana dell’epoca uno splendore innocente, stupefatto. Ancora oggi vivido.
L’avanguardia, alla fine, convive con la tradizione. Convive e si integra a volte con un’armonia così sottile e perfetta che rintracciarne i contorni è difficile: meglio leggere gli scritti, dunque. Meglio leggere le poesie di Guido Gozzano, così rivoluzionario nella sua ironia leggerissima, nascosta nelle «buone cose di pessimo gusto» dei Colloqui . Meglio leggere Aldo Palazzeschi e il suo Codice di Perelà (1908-1910) dove decreta: «Io sono leggero… un uomo leggero… tanto leggero». Perelà è il simbolo di un’impalpabilità corrosiva, risposta all’aggressività insita nelle avanguardie.
La poesia, dunque. La poesia come nuovo laboratorio di linguaggi, straordinaria fucina di innovazioni stilistiche Nel suo bel saggio nel catalogo della mostra di Roma, Andrea Cortellessa parte dalla tensione della violenza inesplosa nei versi di Clemente Rebora pubblicati nel 1913, in una inquietudine «insostenibile, costantemente rilanciata e mai risolta». Una forma espressionistica singolare che non trova sfogo e per questo è viva, guizzante.
E andrebbe riletto (con gli occhi di oggi) anche Dino Campana, sedotto dalle suggestioni oscure al pari di Cézanne e che nei Taccuini scrive: «Si sente suon di tamburi alle porte della città/ Al Pasckowki è un dolce noioso sereno sulla vecchia pietra/ col vento che mette in follia le bandiere». Gli orfismi di Campana hanno convissuto con il realismo magico di Massimo Bontempelli ma ben più interessante convivenza (sebbene anagraficamente diversi) è stata quella tra due grandi Luigi dell’epoca: il Pirandello dell’incomunicabilità esistenziale e il Capuana del verismo più efficace. Su tutti, Ungaretti che visse quasi un secolo (1888-1970) e che del secolo raccontò contraddizioni, bellezze, coraggio e codardie.
La Secessione italiana e le avanguardie si sono nutrite di questo cibo così variegato e fecondo. Eppure, nell’aria resta un verso di quel Palazzeschi così leggero, giunto a noi forse grazie a questa insondabilità: «E lasciatemi divertire!»